Terzo episodio
Quarto episodio
Quinto episodio
Sesto episodio
Settimo episodio
Ottavo episodio
Conclusione
Quando si dovette dettare l’epigrafe
sulla tomba di Vincenzina Virando, Ettore Grande voleva che vi fosse aggiunto: “Lo
sposo diletto”. I familiari della moglie però vi si opposero: queste discussioni
avvennero tra i mesi di febbraio e marzo del 1939, e culminarono con un
drammatico incontro nell’ufficio del procuratore del Re di Torino. In questa
occasione Nino Virando considerò, per la prima volta, suo cognato un assassino.
Si apriva così ufficialmente l’affare Grande, forse il caso giudiziario
più clamoroso della prima metà del secolo, che per dieci anni doveva riempire
le cronache italiane. Grande fu arrestato ai primi di aprile, il venerdì della
settimana santa, alle otto del mattino: rimase in carcere sette anni,
proclamandosi sempre innocente, subì due processi, il cui esito è noto, ed ora
è in attesa del terzo, ma non è certo neppure che si abbia con esso un
chiarimento definitivo della misteriosa vicenda.
La sua avventura ebbe inizio in una mite sera di maggio a Torino, l’anno
1938, quando per la prima volta incontrò Vincenzina Virando al caffè Baratti,
in Piazza Castello. Ettore Grande, console di 2° classe, era rientrato pochi
giorni prima dall’ultima sua residenza nel Belgio: aveva allora trentacinque
anni (era nato il 29 gennaio 1903) e gli erano stati concessi due mesi di
licenza; il suo ritorno, dopo qualche anno di assenza, era stato salutato con
entusiasmo dalla famiglia. In casa i fratelli lo chiamavano il “console di Charleroi”
con finta solennità, come se pronunciassero il titolo di un vecchio romanzo.
Era stata quella la sua ultima residenza, ed Ettore l’aveva lasciata col
proposito di venire in Italia a sposarsi: aveva già raggiunto i limiti che
consentivano ai funzionari di rimanere scapoli: la nuova sede alla quale era
stato destinato, Bangkok nel Siam, era distante dall’Italia circa
quattordicimila chilometri.
Ai diplomatici era allora vietato sposare donne straniere, ed egli
temeva, una volta che si fosse trovato tanto lontano, di lasciarsi prendere
anche lui dal “male del paese”, come in oriente i diplomatici chiamavano la
nostalgia. Era stato dodici anni all’estero, ma sempre in sedi europee
relativamente vicine, fatta eccezione dei primi anni passati a Tunisi: ma
allora aveva soltanto ventisei anni.
“Sposati”, gli dicevano i superiori: “Quando ci sono dei bambini è più
facile superare la nostalgia”.
Uno degli amici, che era stato suo compagno di studi, gli fece per primo
il nome di Vincenzina Virando. Ettore voleva una moglie ricca, di buona
famiglia e di aspetto elegante. Vincenzina aveva un milione di dote, suo padre
era uno dei più stimati gioiellieri di Torino, era alta, aveva i capelli biondi
molto chiari, come gli occhi grandi e grigi. Possedeva insomma tutti i
requisiti per diventare la moglie di un diplomatico: erano considerazioni
puramente astratte, ma bastarono a Ettore Grande.
L’incontro al caffè Baratti a Torino venne così combinato da conoscenze
comuni. Vincenzina indossava un abito semplice, precocemente estivo. Grande si
mostrò disinvolto e, contrariamente al solito, persino loquace. Uscendo, dopo
che si furono lasciati, Vincenzina disse a sua madre: “Mi piace, e poi la
carriera diplomatica deve essere interessante”. Grande aveva parlato di sé e
della vita alle legazioni, del Siam dov’era destinato e che conosceva soltanto
attraverso le descrizioni del padre, professore di geografia in un ginnasio.
Quella sera stessa la madre di Vincenzina fece sapere a Grande che sua
figlia aveva detto sì.
Il fidanzamento durò appena due
mesi. Ettore era riuscito a ottenere una breve proroga alla licenza. I due
fidanzati facevano delle lunghe passeggiate sul Po, al parco del Valentino.
Vincenzina giungeva puntuale agli appuntamenti, qualche volta si mostrava
allegra, qualche volta triste: avevano gusti piuttosto diversi.
Ettore proveniva da una famiglia
estremamente povera: la sua giovinezza non era stata né felice né facile. Era
il secondo di quattro fratelli e il vecchio professore aveva voluto che
studiassero tutti. Ettore era stato per forza di cose uno studente modello, che
si guadagnava le tasse e aveva sempre dieci in condotta. D’estate andava
all’estero più per istruirsi che per divertimento, e a prezzo di enormi
sacrifici riusciva a tornare a casa con qualche regalo per i fratelli,
acquistato con gli avanzi della modestissima somma che gli dava alla partenza
suo padre.
Forse era stata questa vita di
privazioni continue a renderlo ambizioso ed avaro. Anche i primi anni della sua
carriera diplomatica erano stati probabilmente squallidi, le donne vi avevano
rappresentato una parte minima. Solo negli ultimi anni a Charleroi aveva avuto,
sembra, una relazione con una belga. Ma innamorato non fu mai, neppure adesso
che stava per sposarsi. Grande era uno di quegli uomini che si affidano
facilmente ai luoghi comuni: non era cinico ma conformista, e pensava che
l’amore non fosse una condizione necessaria per il matrimonio. La stima e
l’affetto che sarebbero venuti in seguito, avrebbero potuto sostituirlo. E con
questa ipoteca sul futuro chiudeva gli occhi, non dava peso al fatto che
Vincenzina venisse agli appuntamenti sempre col medesimo vestito. Una volta
disse a suo padre: “Quando le parlo ho l’impressione che non mi stia ad
ascoltare, come se non capisse quello che le dico”. Ma erano semplici
impressioni, sulle quali egli non si doveva soffermare. Durante il fidanzamento
le fece pochi regali, qualche mazzo di fiori, una Madonna Lenci che somigliava
un poco a Vincenzina. Come fidanzato non era eccessivamente brillante, ed anzi
tra le amiche della sposa al primo sentimento d’invidia se n’era sostituito un
altro, quasi di commiserazione. Dire diplomatico, nel concetto comune, equivale
alludere a un uomo di mondo, e benché Grande fosse irreprensibile, c’era nei
suoi modi qualcosa di meccanico, di poco spontaneo.
Il padre Virando fece stendere intanto l’atto
dotale, ma volle precisare che la somma e i gioielli sarebbero tornati a lui
nel caso che la figlia gli fosse premorta. Ci fu qualcuno che nello studio del
notaio disse: “Serve da scaramanzia”.
Quando chiedevano a Vincenzina se
fosse innamorata, ella rispondeva: “Proprio innamorata non lo sono, ma ho molta
stima di lui, perché si è fatto la posizione da sé, senza l’aiuto di nessuno”.
Anche qui la giovane sembrava chiedere una giustificazione estranea alla figura
del fidanzato: tuttavia in quei giorni pareva piuttosto allegra, e si può
escludere che la sua famiglia abbia esercitato qualche pressione su di lei.
Venne così il giorno del matrimonio
che fu celebrato il 31 luglio 1938 nella piccola cappella annessa al Collegio
di San Giuseppe. La sposa era in bianco ed Ettore in tight: benché avvezzo
all’abito da cerimonia, Ettore si mostrò imbarazzato rigirando continuamente il
cilindro tra le mani. Fu il giorno dei pettegolezzi: si diceva che il fidanzato
avesse preteso la rendita del cinque, anziché del tre e cinquanta per cento,
sul milione di dote, che Vincenzina lo sposava per ambizione e non per amore, e
tutti convenivano nel dire che, per quanto la vita diplomatica fosse brillante,
il Siam era sempre il Siam, e cioè un paese in capo al mondo. Quando la sposa
comparve tutti notarono che era pallida ma allegra: dopo la cerimonia la
ragazza venne circondata dalle sue amiche che le dicevano: “Allora sei proprio
diventata una siamese”.
Molti, molti anni più tardi Ettore
dovrà fare una confessione ad un amico: gli dirà che il giorno delle nozze era
scoppiato in lacrime ed era stato preso dal desiderio di piantar lì tutto e
mandar all’aria il matrimonio. Sembra che ci fosse stato, infatti, pochi giorni
prima, un dissenso piuttosto aperto tra i due fidanzati, ma le cause che lo
avevano originato sono rimaste un segreto.
Fu un matrimonio di lusso, con le damigelle, i
fiori d’arancio, i lampi al magnesio e i brindisi convenzionali. Tutto il
cattivo gusto del matrimonio borghese si riunì all’Albergo Principe di
Piemonte, dove venne offerto il pranzo dalla famiglia Virando. Alla fine parlò
il generale Appiotti, che era stato testimone alle nozze: concluse il suo
discorso dicendo con voce tonante: “Arrivederci presto, ma non soli”. Mai
augurio ebbe una risposta più tragica.
Dopo i brindisi, i saluti e i
convenevoli, cominciò il viaggio di nozze che aveva, come prima meta, Venezia.
“Vi ricordate (ricordi papà) della vostra
indisciplinata e ribelle figliuola? Ettore è tanto buono e caro, il principio
della mia nuova vita è tanto bello, se Iddio mi proteggerà…”: Queste sono le
prime parole della lettera che Vincenzina scrisse ai suoi genitori da Venezia,
dove gli sposi rimasero cinque giorni.
Ettore aveva fissato un appartamento
al Grand Hotel: in quel momento, erano i primi giorni d’agosto, la spiaggia era
molto affollata e al Lido, dove essi passavano le loro giornate, c’era quella
vita intensa e brillante che Vincenzina aveva sempre sognato. “La vita
diplomatica deve essere interessante”, aveva detto a sua madre, e ora doveva
immaginarsi che fosse tutta lì, nell’ossequio del personale dell’albergo, che
diceva a suo marito “Signor console”.
Che fossero felici in questi giorni del Lido
lo poterono constatare anche papà e mamma Grande, che si spinsero fino a
Venezia per dare agli sposi un ultimo saluto. Lo stesso Nino Virando, che aveva
raggiunto la sorella poco prima che partisse per Bangkok, rimase incantato di
trovarla così allegra, tanto che riferì ai genitori: “Questa volta abbiamo
proprio fatto felice la Nina”.
La sera i due sposi andavano al
Casinò. Grande, forse per la prima volta in vita sua, si lasciava andare,
spendeva senza preoccupazioni, arrivò persino ad arrischiare qualche biglietto
da cento al tavolo della roulette. Nina era fortunata, vestiva con molta
eleganza. Quando era in Italia fumava, forse più per darsi un contegno che per
abitudine: poi a Bangkok le cose dovettero cambiare e la sigaretta diventò una
specie di rifugio alla sua solitudine.
Qualcuno, a Venezia, aveva trovato
Vincenzina leggermente snob e in questo giudizio poteva esserci del vero, anche
se nel suo temperamento c’era qualcosa di più profondo. Prima di congedarsi dal
genero, il padre della sposa gli aveva raccomandato di usare una certa
indulgenza nei suoi confronti, come a sottintendere il carattere impulsivo ed
energico della ragazza. Al contrario di Ettore Vincenzina aveva un temperamento
sentimentale, e al suo matrimonio non doveva essere stato estraneo il generico
desiderio di sistemarsi. Aveva venticinque anni (era nata l’11 settembre
1913) e c’era stata – sembra – nella sua vita un’avventura sentimentale: si
trattava di un ufficiale dell’esercito, a cui la famiglia della ragazza non
aveva voluto concederla in sposa. Era una storia vecchia, di sette anni prima,
ma doveva aver lasciato qualche traccia su di lei. Una volta Vincenzina aveva
detto ad una sua amica di essere disposta a sposare anche un uomo non tanto
giovane, ma che le potesse voler bene non per la sua bellezza o il suo danaro,
ma per le sue doti “spirituali”. Erano evidentemente le frasi di una persona
delusa; dovettero essere queste considerazioni a farle accettare il matrimonio
con Grande: quando infatti i temperamenti impulsivi vogliono sottrarsi alla
legge del sentimento e affidarsi a quella della ragione, commettono sempre un
errore.
(inchiesta di Enrico Roda da “Oggi”
nr. 10 del 3/3/1949 - prima puntata)
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