mercoledì 28 novembre 2018

IL MISTERO DI ETTORE GRANDE - I

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Terzo episodio
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Sesto episodio 
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Ottavo episodio
Conclusione





Quando si dovette dettare l’epigrafe sulla tomba di Vincenzina Virando, Ettore Grande voleva che vi fosse aggiunto: “Lo sposo diletto”. I familiari della moglie però vi si opposero: queste discussioni avvennero tra i mesi di febbraio e marzo del 1939, e culminarono con un drammatico incontro nell’ufficio del procuratore del Re di Torino. In questa occasione Nino Virando considerò, per la prima volta, suo cognato un assassino.


Si apriva così ufficialmente l’affare Grande, forse il caso giudiziario più clamoroso della prima metà del secolo, che per dieci anni doveva riempire le cronache italiane. Grande fu arrestato ai primi di aprile, il venerdì della settimana santa, alle otto del mattino: rimase in carcere sette anni, proclamandosi sempre innocente, subì due processi, il cui esito è noto, ed ora è in attesa del terzo, ma non è certo neppure che si abbia con esso un chiarimento definitivo della misteriosa vicenda.


La sua avventura ebbe inizio in una mite sera di maggio a Torino, l’anno 1938, quando per la prima volta incontrò Vincenzina Virando al caffè Baratti, in Piazza Castello. Ettore Grande, console di 2° classe, era rientrato pochi giorni prima dall’ultima sua residenza nel Belgio: aveva allora trentacinque anni (era nato il 29 gennaio 1903) e gli erano stati concessi due mesi di licenza; il suo ritorno, dopo qualche anno di assenza, era stato salutato con entusiasmo dalla famiglia. In casa i fratelli lo chiamavano il “console di Charleroi” con finta solennità, come se pronunciassero il titolo di un vecchio romanzo.


Era stata quella la sua ultima residenza, ed Ettore l’aveva lasciata col proposito di venire in Italia a sposarsi: aveva già raggiunto i limiti che consentivano ai funzionari di rimanere scapoli: la nuova sede alla quale era stato destinato, Bangkok nel Siam, era distante dall’Italia circa quattordicimila chilometri.


Ai diplomatici era allora vietato sposare donne straniere, ed egli temeva, una volta che si fosse trovato tanto lontano, di lasciarsi prendere anche lui dal “male del paese”, come in oriente i diplomatici chiamavano la nostalgia. Era stato dodici anni all’estero, ma sempre in sedi europee relativamente vicine, fatta eccezione dei primi anni passati a Tunisi: ma allora aveva soltanto ventisei anni.


“Sposati”, gli dicevano i superiori: “Quando ci sono dei bambini è più facile superare la nostalgia”.


Uno degli amici, che era stato suo compagno di studi, gli fece per primo il nome di Vincenzina Virando. Ettore voleva una moglie ricca, di buona famiglia e di aspetto elegante. Vincenzina aveva un milione di dote, suo padre era uno dei più stimati gioiellieri di Torino, era alta, aveva i capelli biondi molto chiari, come gli occhi grandi e grigi. Possedeva insomma tutti i requisiti per diventare la moglie di un diplomatico: erano considerazioni puramente astratte, ma bastarono a Ettore Grande.


L’incontro al caffè Baratti a Torino venne così combinato da conoscenze comuni. Vincenzina indossava un abito semplice, precocemente estivo. Grande si mostrò disinvolto e, contrariamente al solito, persino loquace. Uscendo, dopo che si furono lasciati, Vincenzina disse a sua madre: “Mi piace, e poi la carriera diplomatica deve essere interessante”. Grande aveva parlato di sé e della vita alle legazioni, del Siam dov’era destinato e che conosceva soltanto attraverso le descrizioni del padre, professore di geografia in un ginnasio.


Quella sera stessa la madre di Vincenzina fece sapere a Grande che sua figlia aveva detto .


Il fidanzamento durò appena due mesi. Ettore era riuscito a ottenere una breve proroga alla licenza. I due fidanzati facevano delle lunghe passeggiate sul Po, al parco del Valentino. Vincenzina giungeva puntuale agli appuntamenti, qualche volta si mostrava allegra, qualche volta triste: avevano gusti piuttosto diversi.


Ettore proveniva da una famiglia estremamente povera: la sua giovinezza non era stata né felice né facile. Era il secondo di quattro fratelli e il vecchio professore aveva voluto che studiassero tutti. Ettore era stato per forza di cose uno studente modello, che si guadagnava le tasse e aveva sempre dieci in condotta. D’estate andava all’estero più per istruirsi che per divertimento, e a prezzo di enormi sacrifici riusciva a tornare a casa con qualche regalo per i fratelli, acquistato con gli avanzi della modestissima somma che gli dava alla partenza suo padre.


Forse era stata questa vita di privazioni continue a renderlo ambizioso ed avaro. Anche i primi anni della sua carriera diplomatica erano stati probabilmente squallidi, le donne vi avevano rappresentato una parte minima. Solo negli ultimi anni a Charleroi aveva avuto, sembra, una relazione con una belga. Ma innamorato non fu mai, neppure adesso che stava per sposarsi. Grande era uno di quegli uomini che si affidano facilmente ai luoghi comuni: non era cinico ma conformista, e pensava che l’amore non fosse una condizione necessaria per il matrimonio. La stima e l’affetto che sarebbero venuti in seguito, avrebbero potuto sostituirlo. E con questa ipoteca sul futuro chiudeva gli occhi, non dava peso al fatto che Vincenzina venisse agli appuntamenti sempre col medesimo vestito. Una volta disse a suo padre: “Quando le parlo ho l’impressione che non mi stia ad ascoltare, come se non capisse quello che le dico”. Ma erano semplici impressioni, sulle quali egli non si doveva soffermare. Durante il fidanzamento le fece pochi regali, qualche mazzo di fiori, una Madonna Lenci che somigliava un poco a Vincenzina. Come fidanzato non era eccessivamente brillante, ed anzi tra le amiche della sposa al primo sentimento d’invidia se n’era sostituito un altro, quasi di commiserazione. Dire diplomatico, nel concetto comune, equivale alludere a un uomo di mondo, e benché Grande fosse irreprensibile, c’era nei suoi modi qualcosa di meccanico, di poco spontaneo.


 Il padre Virando fece stendere intanto l’atto dotale, ma volle precisare che la somma e i gioielli sarebbero tornati a lui nel caso che la figlia gli fosse premorta. Ci fu qualcuno che nello studio del notaio disse: “Serve da scaramanzia”.

Quando chiedevano a Vincenzina se fosse innamorata, ella rispondeva: “Proprio innamorata non lo sono, ma ho molta stima di lui, perché si è fatto la posizione da sé, senza l’aiuto di nessuno”. Anche qui la giovane sembrava chiedere una giustificazione estranea alla figura del fidanzato: tuttavia in quei giorni pareva piuttosto allegra, e si può escludere che la sua famiglia abbia esercitato qualche pressione su di lei.

 
Venne così il giorno del matrimonio che fu celebrato il 31 luglio 1938 nella piccola cappella annessa al Collegio di San Giuseppe. La sposa era in bianco ed Ettore in tight: benché avvezzo all’abito da cerimonia, Ettore si mostrò imbarazzato rigirando continuamente il cilindro tra le mani. Fu il giorno dei pettegolezzi: si diceva che il fidanzato avesse preteso la rendita del cinque, anziché del tre e cinquanta per cento, sul milione di dote, che Vincenzina lo sposava per ambizione e non per amore, e tutti convenivano nel dire che, per quanto la vita diplomatica fosse brillante, il Siam era sempre il Siam, e cioè un paese in capo al mondo. Quando la sposa comparve tutti notarono che era pallida ma allegra: dopo la cerimonia la ragazza venne circondata dalle sue amiche che le dicevano: “Allora sei proprio diventata una siamese”.


Molti, molti anni più tardi Ettore dovrà fare una confessione ad un amico: gli dirà che il giorno delle nozze era scoppiato in lacrime ed era stato preso dal desiderio di piantar lì tutto e mandar all’aria il matrimonio. Sembra che ci fosse stato, infatti, pochi giorni prima, un dissenso piuttosto aperto tra i due fidanzati, ma le cause che lo avevano originato sono rimaste un segreto.


Fu un matrimonio di lusso, con le damigelle, i fiori d’arancio, i lampi al magnesio e i brindisi convenzionali. Tutto il cattivo gusto del matrimonio borghese si riunì all’Albergo Principe di Piemonte, dove venne offerto il pranzo dalla famiglia Virando. Alla fine parlò il generale Appiotti, che era stato testimone alle nozze: concluse il suo discorso dicendo con voce tonante: “Arrivederci presto, ma non soli”. Mai augurio ebbe una risposta più tragica.


Dopo i brindisi, i saluti e i convenevoli, cominciò il viaggio di nozze che aveva, come prima meta, Venezia.


 “Vi ricordate (ricordi papà) della vostra indisciplinata e ribelle figliuola? Ettore è tanto buono e caro, il principio della mia nuova vita è tanto bello, se Iddio mi proteggerà…”: Queste sono le prime parole della lettera che Vincenzina scrisse ai suoi genitori da Venezia, dove gli sposi rimasero cinque giorni.


Ettore aveva fissato un appartamento al Grand Hotel: in quel momento, erano i primi giorni d’agosto, la spiaggia era molto affollata e al Lido, dove essi passavano le loro giornate, c’era quella vita intensa e brillante che Vincenzina aveva sempre sognato. “La vita diplomatica deve essere interessante”, aveva detto a sua madre, e ora doveva immaginarsi che fosse tutta lì, nell’ossequio del personale dell’albergo, che diceva a suo marito “Signor console”.


Che fossero felici in questi giorni del Lido lo poterono constatare anche papà e mamma Grande, che si spinsero fino a Venezia per dare agli sposi un ultimo saluto. Lo stesso Nino Virando, che aveva raggiunto la sorella poco prima che partisse per Bangkok, rimase incantato di trovarla così allegra, tanto che riferì ai genitori: “Questa volta abbiamo proprio fatto felice la Nina”.


La sera i due sposi andavano al Casinò. Grande, forse per la prima volta in vita sua, si lasciava andare, spendeva senza preoccupazioni, arrivò persino ad arrischiare qualche biglietto da cento al tavolo della roulette. Nina era fortunata, vestiva con molta eleganza. Quando era in Italia fumava, forse più per darsi un contegno che per abitudine: poi a Bangkok le cose dovettero cambiare e la sigaretta diventò una specie di rifugio alla sua solitudine.


Qualcuno, a Venezia, aveva trovato Vincenzina leggermente snob e in questo giudizio poteva esserci del vero, anche se nel suo temperamento c’era qualcosa di più profondo. Prima di congedarsi dal genero, il padre della sposa gli aveva raccomandato di usare una certa indulgenza nei suoi confronti, come a sottintendere il carattere impulsivo ed energico della ragazza. Al contrario di Ettore Vincenzina aveva un temperamento sentimentale, e al suo matrimonio non doveva essere stato estraneo il generico desiderio di sistemarsi. Aveva venticinque anni (era nata l’11 settembre 1913) e c’era stata – sembra – nella sua vita un’avventura sentimentale: si trattava di un ufficiale dell’esercito, a cui la famiglia della ragazza non aveva voluto concederla in sposa. Era una storia vecchia, di sette anni prima, ma doveva aver lasciato qualche traccia su di lei. Una volta Vincenzina aveva detto ad una sua amica di essere disposta a sposare anche un uomo non tanto giovane, ma che le potesse voler bene non per la sua bellezza o il suo danaro, ma per le sue doti “spirituali”. Erano evidentemente le frasi di una persona delusa; dovettero essere queste considerazioni a farle accettare il matrimonio con Grande: quando infatti i temperamenti impulsivi vogliono sottrarsi alla legge del sentimento e affidarsi a quella della ragione, commettono sempre un errore.



(inchiesta di Enrico Roda da “Oggi” nr. 10 del 3/3/1949 - prima puntata)

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