lunedì 3 dicembre 2018

IL MISTERO DI ETTORE GRANDE - VIII

Primo episodio
Secondo episodio
Terzo episodio
Quarto episodio
Quinto episodio
Sesto episodio
Settimo episodio
Conclusione





Torino, Fossano, Novara, Torino di nuovo, Bologna, ancora Torino e Bologna: per compiere questo modesto itinerario da viaggiatore di commercio a “raggio regionale”, Ettore Grande ha impiegato poco meno di dodici anni e ha consumato per intero la sua giovinezza.

Nel suo curriculum le sedi carcerarie, coi bolli di entrata e di uscita, pareggiano quasi le sedi diplomatiche ottenute durante undici anni di carriera, da Parigi a Torino, Fossano Tunisi e Marsiglia, da San Gallo a Vienna e Berlino, da Valona a Charleroi e Bangkok. Tra la guerra e la pace, tra due re e due presidenti della repubblica, il detenuto Grande Ettore Guglielmo, di Stefano, non ha affatto smentito il diplomatico dottor Grande, meritandosi come allora, alla fine di ogni anno, la qualifica di “ottimo”.


Il 12 ottobre, quando il solito maresciallo dei carabinieri e il solito autista di Torino lo hanno ricondotto al carcere di San Giovanni in Monte per il terzo processo, un muratore che stava per essere scarcerato lo ha riconosciuto e ha voluto portargli le valigie in cella. Poi, mentre si esaurivano le solite formalità dell’immatricolazione, il direttore del carcere, Grande e il suo difensore avvocato Stoppato si son messi a conversare cordialmente nel corridoio.


A paragone dei truculenti personaggi del dopoguerra che popolano le carceri italiane, Ettore Grande è una figura pallida e sfocata dell’anteguerra, il protagonista di uno di quei film muti in cui l’oriente misterioso incominciava a far da sfondo ai romanzi d’amore europei. Col passare degli anni al processo Grande è capitato ciò che capita a quelle vecchie pellicole se si vanno a rivedere adesso: che contano più i luoghi delle persone. Gli usi, i costumi, il clima di Bangkok, gli ottomila chilometri che separano l’Italia dal Siam, non costituiscono soltanto un elemento utile alla difesa dell’imputato ma spiegano altresì perché questa tragedia coniugale, che dal 1938 ad oggi ha avuto molte repliche con altri protagonisti, continui ad appassionare la gente.

Nell’esotismo sta il segreto della voga giornalistica e insieme la ragione dell’oscurità giudiziaria, che da tredici anni accompagnano questa triste e anche meschina vicenda dei giovani “entrambi piemontesi appartenenti a famiglie distinte, quella della Virando assai cospicua per censo”, come scrive il magistrato romano. È una vicenda che, nonostante le revolverate e il sangue del finale, piace al pubblico delle Assise perché gli lascia intravvedere un mondo che desta la sua invidia e ammirazione: diplomatici eleganti e belle signore che si corteggiano, si divertono e si calunniano con molto stile, in un paese di favola dove la lavandaia si può chiamare Nang Somchitra Thae Chen, e dove un bianco può tenere sette servi per un villino solo, senza che il suo vicino si meravigli.

La sentenza della Cassazione, che ha annullato il giudizio di Novara e ha rinviato Grande davanti alla magistratura bolognese, si inizia infatti, come un racconto ottocentesco, con una descrizione di quei luoghi remoti. “Premesso in fatto”, è scritto nell’opuscolo giallo che gli avvocati hanno ora aggiunto ai trenta volumi del processo, “che a Bangkok, capitale del Siam, sul fiume Me-Nam, sita sul tredicesimo parallelo a nord dell’equatore, con clima prevalentemente caldo umido, abitavano in una villetta con giardino, nel novembre del 1938, i coniugi Ettore Guglielmo Grande primo segretario presso quella Legazione d’Italia e Vincenzina Virando…”.

Un’altra novità del terzo processo è rappresentata da un plastico color rosa e verdino che riproduce il piano superiore del bungalow dei Grande: la camera degli sposi con due minuscoli lettini avvolti dentro una zanzarierina scura di pochi centimetri e il vestibolo, il bagno, la doccia, la veranda, l’armadio, l’attaccapanni, ogni cosa è in proporzioni minime ma perfette. I fotografi hanno fotografato da ogni lato questa casetta da bambola e i giudici popolari, in piedi, l’hanno toccata come si tocca un giocattolo per gente ricca e capricciosa. Grande intanto si era curvato sopra il banco del presidente e la veniva illustrando, stanza per stanza, con sufficiente disinvoltura.

“Qui avevo pensato di mettere l’impianto per l’aria condizionata”, diceva con la voce un po’ stridula, che somigliava a momenti a quella di Galeazzo Ciano. “Volevo che la mia povera Nina fosse felice, che avesse il suo nido”. Prima di rientrare nella gabbia si volse verso il plastico con gli occhi pieni di lacrime. Pochi minuti avanti la Corte, che egli aveva idealmente accompagnato in visita alla villetta con giardino, gli aveva ancora una volta negato la libertà provvisoria, con una ordinanza che ha scontentato tutti, dalla difesa alla parte civile.

Il plastico ha interessato molto più della Browning 6.35, da cui partirono i colpi che uccisero Vincenzina Virando e che hanno generato diciotto perizie, una copiosissima letteratura sul dente dell’epistrofeo e sui fori d’ingresso e d’uscita, oltre a una guerra decennale tra i periti medico-legali di quattro o cinque università.

Come a Torino nel 1941 e a Novara nel 1946, anche a Bologna Ettore Grande ha proclamato la propria innocenza. “Non sono un assassino e nemmeno mi considero un imputato. Voglio essere un collaboratore della giustizia”, e ha citato più volte il proprio “anelito di giustizia, bisogno infinito di libertà”. Il presidente Gervasio, un magistrato dall’aria bonaria e dalla voce profonda, lo ha ascoltato, senza interromperlo, per due ore.

Il giorno dopo Gervasio ha aperto bocca e per tre ore Grande è stato sottoposto al tormento di ogni imputato: la serie delle contestazioni. A Bologna, tuttavia, l’aria è sembrata subito più calma che nel Piemonte del 1941 o del 1946, quando i “grandiani” e i “virandiani” si fronteggiavano con ostilità irriducibile. Il terzo processo (detto anche “del doppio tempo” giacché da Grande ai suoi avversari tutti ammettono ormai gli spari in due riprese) non doveva essere, secondo le previsioni comuni, se non una feroce e subdola battaglia attorno al cranio e agli ossicini di una povera morta.

E invece, invecchiando, il processo si è moderato: Grande polemizza meno coi Virando, i Virando gli augurano di provare la sua innocenza e le facce degli avvocati sono più distese. Assolvere Grande significava, sino a ieri, nei clans dei tifosi, diffamare Vincenzina Virando, e al contrario condannare Grande equivaleva a riparare alle offese all’onore di Vincenzina.

Qualunque possa essere lo scioglimento di questo annoso romanzo orientale, è certo che il buonsenso e la misura ritornano a prevalere.



Articolo di Giorgio Vecchietti da “Oggi” n. 44 del 1951

Nessun commento:

Posta un commento