Secondo episodio
Terzo episodio
Quarto episodio
Quinto episodio
Sesto episodio
Settimo episodio
Conclusione
Nel suo curriculum le sedi carcerarie, coi bolli di
entrata e di uscita, pareggiano quasi le sedi diplomatiche ottenute durante
undici anni di carriera, da Parigi a Torino, Fossano Tunisi e Marsiglia, da San
Gallo a Vienna e Berlino, da Valona a Charleroi e Bangkok. Tra la guerra e la
pace, tra due re e due presidenti della repubblica, il detenuto Grande Ettore
Guglielmo, di Stefano, non ha affatto smentito il diplomatico dottor Grande,
meritandosi come allora, alla fine di ogni anno, la qualifica di “ottimo”.
Il 12 ottobre, quando il solito maresciallo dei
carabinieri e il solito autista di Torino lo hanno ricondotto al carcere di San Giovanni in
Monte per il terzo processo, un muratore che stava per essere scarcerato lo ha
riconosciuto e ha voluto portargli le valigie in cella. Poi, mentre si
esaurivano le solite formalità dell’immatricolazione, il direttore del carcere,
Grande e il suo difensore avvocato Stoppato si son messi a conversare
cordialmente nel corridoio.
A paragone dei truculenti personaggi del dopoguerra che
popolano le carceri italiane, Ettore Grande è una figura pallida e sfocata
dell’anteguerra, il protagonista di uno di quei film muti in cui l’oriente
misterioso incominciava a far da sfondo ai romanzi d’amore europei. Col passare
degli anni al processo Grande è capitato ciò che capita a quelle vecchie
pellicole se si vanno a rivedere adesso: che contano più i luoghi delle
persone. Gli usi, i costumi, il clima di Bangkok, gli ottomila chilometri che
separano l’Italia dal Siam, non costituiscono soltanto un elemento utile alla
difesa dell’imputato ma spiegano altresì perché questa tragedia coniugale, che
dal 1938 ad oggi ha avuto molte repliche con altri protagonisti, continui ad
appassionare la gente.
Nell’esotismo sta il segreto della voga giornalistica e insieme
la ragione dell’oscurità giudiziaria, che da tredici anni accompagnano questa
triste e anche meschina vicenda dei giovani “entrambi piemontesi appartenenti a
famiglie distinte, quella della Virando assai cospicua per censo”, come scrive
il magistrato romano. È una vicenda che, nonostante le revolverate e il sangue
del finale, piace al pubblico delle Assise perché gli lascia intravvedere un
mondo che desta la sua invidia e ammirazione: diplomatici eleganti e belle
signore che si corteggiano, si divertono e si calunniano con molto stile, in un
paese di favola dove la lavandaia si può chiamare Nang Somchitra Thae Chen, e
dove un bianco può tenere sette servi per un villino solo, senza che il suo
vicino si meravigli.
La sentenza della Cassazione, che ha annullato il
giudizio di Novara e ha rinviato Grande davanti alla magistratura bolognese, si
inizia infatti, come un racconto ottocentesco, con una descrizione di quei
luoghi remoti. “Premesso in fatto”, è scritto nell’opuscolo giallo che gli
avvocati hanno ora aggiunto ai trenta volumi del processo, “che a Bangkok,
capitale del Siam, sul fiume Me-Nam, sita sul tredicesimo parallelo a nord
dell’equatore, con clima prevalentemente caldo umido, abitavano in una villetta
con giardino, nel novembre del 1938, i coniugi Ettore Guglielmo Grande primo
segretario presso quella Legazione d’Italia e Vincenzina Virando…”.
Un’altra novità del terzo processo è rappresentata da un
plastico color rosa e verdino che riproduce il piano superiore del bungalow dei
Grande: la camera degli sposi con due minuscoli lettini avvolti dentro una
zanzarierina scura di pochi centimetri e il vestibolo, il bagno, la doccia, la
veranda, l’armadio, l’attaccapanni, ogni cosa è in proporzioni minime ma
perfette. I fotografi hanno fotografato da ogni lato questa casetta da bambola
e i giudici popolari, in piedi, l’hanno toccata come si tocca un giocattolo per
gente ricca e capricciosa. Grande intanto si era curvato sopra il banco del
presidente e la veniva illustrando, stanza per stanza, con sufficiente
disinvoltura.
“Qui avevo pensato di mettere l’impianto per l’aria
condizionata”, diceva con la voce un po’ stridula, che somigliava a momenti a
quella di Galeazzo Ciano. “Volevo che la mia povera Nina fosse felice, che
avesse il suo nido”. Prima di rientrare nella gabbia si volse verso il plastico
con gli occhi pieni di lacrime. Pochi minuti avanti la Corte, che egli aveva
idealmente accompagnato in visita alla villetta con giardino, gli aveva ancora
una volta negato la libertà provvisoria, con una ordinanza che ha scontentato
tutti, dalla difesa alla parte civile.
Il plastico ha interessato molto più della
Browning 6.35, da cui partirono i colpi che uccisero Vincenzina Virando e che
hanno generato diciotto perizie, una copiosissima letteratura sul dente
dell’epistrofeo e sui fori d’ingresso e d’uscita, oltre a una guerra decennale
tra i periti medico-legali di quattro o cinque università.
Come a Torino nel 1941 e a Novara nel 1946, anche a
Bologna Ettore Grande ha proclamato la propria innocenza. “Non sono un
assassino e nemmeno mi considero un imputato. Voglio essere un collaboratore
della giustizia”, e ha citato più volte il proprio “anelito di giustizia,
bisogno infinito di libertà”. Il presidente Gervasio, un magistrato dall’aria
bonaria e dalla voce profonda, lo ha ascoltato, senza interromperlo, per due
ore.
Il giorno dopo Gervasio ha aperto bocca e per tre ore
Grande è stato sottoposto al tormento di ogni imputato: la serie delle
contestazioni. A Bologna, tuttavia, l’aria è sembrata subito più calma che nel
Piemonte del 1941 o del 1946, quando i “grandiani” e i “virandiani” si
fronteggiavano con ostilità irriducibile. Il terzo processo (detto anche “del
doppio tempo” giacché da Grande ai suoi avversari tutti ammettono ormai gli
spari in due riprese) non doveva essere, secondo le previsioni comuni, se non
una feroce e subdola battaglia attorno al cranio e agli ossicini di una povera
morta.
E invece, invecchiando, il processo si è moderato: Grande
polemizza meno coi Virando, i Virando gli augurano di provare la sua innocenza
e le facce degli avvocati sono più distese. Assolvere Grande significava, sino
a ieri, nei clans dei tifosi, diffamare Vincenzina Virando, e al contrario
condannare Grande equivaleva a riparare alle offese all’onore di Vincenzina.
Qualunque possa essere lo scioglimento di questo annoso
romanzo orientale, è certo che il buonsenso e la misura ritornano a prevalere.
Articolo di Giorgio Vecchietti da “Oggi” n. 44 del 1951
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