venerdì 15 marzo 2019

L'INNAMORATO TIMIDO



PRIGIONIERA PER 105 GIORNI 
DI UN INNAMORATO TIMIDO

articolo di "Oggi" n. 18 del 2 maggio 1957




“Le indagini proseguono”. Con questa frase il portavoce della polizia londinese ha eluso le domande che da due giorni i più abili reporter della capitale britannica vanno facendo ai funzionari di Scotland Yard riguardo a uno dei più curiosi fatti di cronaca che siano avvenuti in questi anni. Per quindici settimane, infatti, una ragazza di ventotto anni, tale Marjorie Jordan, è stata tenuta prigioniera in una profonda buca scavata sotto un vecchio rifugio antiaereo; ma la cosa curiosa è che Marjorie, se proprio avesse voluto, non avrebbe avuto difficoltà a fuggire. Per quale ragione restò in balia del suo persecutore, E perché mai questi scelse proprio Marjorie per compiere le sue stranezze? È quanto appunto la polizia sta cercando di spiegare.

La storia della signorina Jordan, che abita a Beckenham, un sobborgo di Londra nei pressi di Croydon, cominciò la notte tra il 7 e l’8 gennaio.



“Qualcuno scuoteva il letto”, racconta la ragazza, “così mi svegliai. Nella semioscurità della stanza vidi uno sconosciuto. Mi disse con voce dura che se mi fossi ribellata ai suoi ordini mi avrebbe presa a pugni. Poi, indicando i miei abiti che stavano su una sedia, mi impose di vestirmi. Quando fui pronta mi chiuse la bocca con un pezzo di cerotto e mi fece uscire in giardino dalla finestra. Accanto al cancello vi era una motocicletta sulla quale mi obbligò a salire: appena si fu assicurato che ero bene in sella partì di gran carriera. Nella notte girammo per le più strette vie di Londra e finalmente giungemmo ad una piccola villa. Mi fece entrare in casa e di lì mi condusse in un misero giardino in mezzo al quale sorgeva ancora uno dei vecchi rifugi antiaerei fatti di lamiera ondulata”.

A questo punto il comportamento del rapitore divenne inesplicabile. Con la massima gentilezza egli spiegò alla ragazza di chiamarsi John e di averla portata con lui perché aveva bisogno di aiuto per un importante lavoro. Sotto il rifugio, spiegò, egli aveva scavato una stanza sotterranea. “Come vedrete”, disse gentilmente, “questa stanza è un po’ piccola e ancora molto in disordine. Sono sicuro che proverete il massimo piacere nel metterla in ordine”.

Così dicendo aprì una botola nel pavimento del rifugio e attraverso di essa, lungo una scala a pioli, fece discendere Marjorie nella famosa stanza. In realtà non si trattava altro che di una specie di cantina, scavata nell’argilla, dove era stata sistemata una branda e dal cui soffitto pendeva una lampadina elettrica. “La faremo più grande e più bella”, disse John accennando all’antro in cui aveva condotto la ragazza. “Adesso vi preparo una buona tazza di tè e domattina cominceremo subito il lavoro”. E così fece.

Dopo pochi giorni Marjorie perse il senso del tempo. Laggiù non si vedeva né la luce del sole né il buio della notte. Con un piccolo badile scavava continuamente e riempiva di argilla, uno dopo l’altro, dei grandi cesti che John portava su in giardino. Un giorno, stanca di questa vita, Marjorie decise di fuggire. Salì nel rifugio, ma purtroppo John si accorse di lei e le diede uno spintone buttandola a terra. “Guai se vi riproverete a farlo ancora”, disse con il suo solito tono cortese, “sarei costretto a finire da solo l’arredamento della cantina”.

Un altro giorno, in vena di confidenza, passò un braccio intorno alla vita della ragazza, la quale lo respinse dicendogli: “Queste cose non mi interessano”. “Scusatemi”, rispose John, “avete ragione. L’unica cosa importante è quella di mettere a posto la nostra cantina”.

Intanto il tempo passava e John diventava di giorno in giorno più cortese. La ragazza scriveva su un foglio di carta la lista delle vivande e il giovanotto si affrettava ad andare a far la spesa nei migliori negozi di Londra. Ritornava con la sporta colma e si chiudeva in cucina a preparare ottimi manicaretti che poi portava alla ragazza e divideva con lei, laggiù nella cantina, a quattro metri sotto il livello del suolo.
Finalmente i lavori di scavo giunsero alla fine; allora, preparato del cemento, John e Marjorie intonacarono la cantina e ne tappezzarono le pareti con vecchi giornali. Ogni tanto egli la faceva salire nella sua casa dove la ragazza poteva lavarsi. “Ciò avveniva sempre di notte”, racconta Marjorie. “C’era un gran silenzio e io avevo paura di chiamare aiuto”.

Un bel giorno, stanca di restare sempre sotto terra, Marjorie decise di fare lo sciopero della fame per cercare di commuovere il suo carceriere: dopo una settimana, però, visto che John non la lasciava libera, la ragazza si convinse che non c’era niente da fare e si mise di nuovo a mangiare le buone cose che egli preparava per lei. Quale compenso per queste sue prestazioni gastronomiche John la pregò di farle un panciotto a maglia, cosa che Marjorie di buon grado fece con grande soddisfazione dello strano aguzzino. Ma a dispetto di questi buoni rapporti intercorrenti fra carceriere e schiava, Marjorie era sempre più stanca di vivere come una talpa. Un giorno provò a forzare la botola, ma non riuscì’ a smuoverla neppure di un millimetro; allora, su pezzi sporchi di carta, scrisse messaggi di aiuto, che poi nascondeva nella terra che John portava continuamente alla superficie. Infatti il giovanotto, non contento di aver rafforzato con il cemento le pareti della cantina, preso da furore costruttivo aveva cominciato a scavare una seconda caverna sotto la prima.



Questi messaggi, però, non giunsero mai in mani fidate, finché un giorno, trovandosi sola, Marjorie riuscì a salire nel rifugio, il quale, vecchio e sgangherato, aveva delle fessure attraverso cui si poteva scorgere un pezzetto di giardino. La ragazza scrisse di nuovo un altro messaggio e lo gettò all’esterno: un fortunato colpo di vento portò il messaggio nel contiguo giardino di una signora che raccolse il pezzo di carta. Le parole drammatiche le fecero dapprima credere a uno scherzo di ragazzi, ma poi si convinse a chiamare la polizia.

E la polizia arrivò. Quando John sentì gli agenti bussare alla sua porta, discese immediatamente nella stanza sotterranea e con aria triste disse alla ragazza: “Il gioco è finito: c’è la polizia”.

A questo punto verrebbe logico pensare che John (John Bridal, come fu poi stabilito, un ingegnere ventiseienne disoccupato) sia un pazzo. In realtà pare che il giovane sia perfettamente sano di mente e che nel suo strano comportamento si debba più che altro vedere gli effetti di una grande timidezza.
“Non è vero”, ha dichiarato John alla polizia, “che io tenessi prigioniera la signorina Jordan. Ne avevo bisogno per i miei esperimenti segretissimi. Andai a casa di Marjorie e buttai un po’ di ghiaia contro le finestre della camera in cui dormiva: si svegliò, si affacciò e mi fece entrare in casa. La pregai allora di venire con me: dapprima disse no, ma infine, senza che io le facessi nessuna violenza, si decise a salire con me sulla motocicletta. Come avrei potuto infatti obbligarla a salire sulla motocicletta? Forse turandole la bocca con il cerotto? Quando poi Marjorie fu nella cantina si adattò benissimo a quella vita. I primi giorni, è vero, protestò un poco, ma poi le passò. È vero che la porta del rifugio era chiusa, ma se proprio la ragazza avesse tenuto alla sua libertà certamente avrebbe potuto fuggire”.

“Del resto, io, quando la chiusi nella stanza, mi aspettai, lo confesso, una reazione violenta: Marjorie, invece, non disse nulla. Un giorno cercò di andarsene, ma io la presi per le spalle e la pregai di restare, cosa che fece. E inoltre, non mi confezionò forse questo bellissimo panciotto a maglia? Ciò significa che la ragazza era contenta del suo stato. Del resto io feci il possibile per farla star bene. Le portai una radio e andavo persino alla biblioteca circolante a prenderle i libri che desiderava; e poi non la facevo lavorare molto. Sono molto seccato di averla perduta, era la migliore aiutante che abbia mai avuto”.

Dietro queste curiose, per non dire sconcertanti, dichiarazioni, si cela con molta probabilità un dramma della timidezza e delle buone maniere inglesi. John Bridal era un innamorato timido (a volte sembrava completamente istupidito per troppo amore", ha dichiarato Marjorie) che non seppe trovare altro modo di confessare il suo sentimento che quello di rapire la ragazza e tenerla prigioniera in casa sua; d’altra parte la ragazza, timida a sua volta e ben educata, non seppe ribellarsi alla strana situazione in cui era venuta a trovarsi. Per noi italiani questa può sembrare una storia pazzesca ma per gli inglesi è meno curiosa di quanto sembri. Comunque sia, si tratta di una vicenda i cui profondi moventi psicologici non potranno mai essere svelati, anche se la polizia, come burocraticamente ha annunciato il portavoce di Scotland Yard, “sta continuando le sue indagini”.

martedì 12 marzo 2019

IL CASO MONTESI - PRECISAZIONI




Nel nostro lavoro di redazione, spulciando le pagine dei settimanali, ci siamo resi conto di quanto il Caso Montesi sia intricato e di difficile comprensione, soprattutto oggi dopo più di sessant’anni dall’epoca dei fatti.


Abbiamo trovato in un numero di “Oggi” del 1960, oltre ad un’intervista con lo Zio Giuseppe, un utile riassunto dei fatti che seguirono il rinvio a giudizio dei tre principali imputati, e lo riportiamo qui di seguito, pensando di fare cosa gradita ai nostri lettori, anche se non è esattamente in ordine cronologico rispetto agli articoli che via via andiamo pubblicando.


MI HANNO RUBATO SEI ANNI 
DELLA MIA VITA

Articolo di Lugi Cavicchioli da “Oggi” n. 47 del 24 novembre 1960






“Mi hanno rubato”, dice Giuseppe Montesi, “sei anni della mia vita. Ero ottimista, ingenuo, fiducioso: per questo mi sono inguaiato, come uno stupido, senza nemmeno rendermene conto. Quando mi sentii dire per la prima volta, da un certo giornalista, che il responsabile della morte di Wilma potevo essere io, pensai che volesse scherzare. Non mi passava neppure per la mente l’idea che qualcuno potesse prendere sul serio un’ipotesi del genere. Ero lontano le mille miglia dall’immaginare che razza di trabocchetto stava per aprirsi sotto i miei piedi. Ero come un ragazzino che gioca con un ordigno esplosivo, convinto che sia una innocentissima palla”.


“Per restare nella metafora: mi dica, con tutta franchezza, se l’ordigno ritiene di averlo trovato per caso o se crede che qualcuno glielo abbia messo di proposito a portata di mano”.

“Non so, non capisco più nulla. Ma credo, voglio credere, di averlo trovato per caso, per un capriccio del destino, per un complesso di allucinanti coincidenze. Non posso pensare che esista qualcuno capace di ordire una così diabolica macchinazione”.

“Cos’ha fatto per vivere in questi ultimi tempi?”

“Che cosa vuole che abbia fatto? Mi sono arrangiato, alla meno peggio, con qualche lavoretto o affaruccio, tenendo la contabilità di qualche azienda. Ma non è certo quello che sognavo. Avevo dei progetti, speravo di fare strada nella vita, di conquistare una buona posizione economica, di impiantare una florida azienda commerciale. Ero convinto di avere i numeri per riuscire: ora mi sento un fallito. Non so più sorridere, non so più parlare con la gente, non so più essere cordiale e simpatico: tutte cose essenziali per quel genere di lavoro. Non ho più fiducia in me stesso, non posso quindi pretendere di ispirarne agli altri. Recentemente, in un ritorno di ottimismo, ho chiesto un prestito, assai modesto, per concludere un affare sicuramente vantaggioso: una normale operazione finanziaria, una facilitazione che un altro, al mio posto, avrebbe ottenuto senza difficoltà. A me il prestito è stato negato. Del resto, siamo giusti: che fiducia può riscuotere uno come me, ancora inguaiato in una vicenda giudiziaria che non si sa come andrà a finire?”


“Al processo di Venezia la sua vita fu buttata in piazza senza reticenze. Si seppe che lei, fidanzato ufficialmente con Mariella Spissu, aveva nello stesso tempo una relazione sentimentale con la sorella di costei, Rossana, dalla quale ha avuto un figlio. Le cose sono rimaste come allora o in questi ultimi tempi ha deciso di regolarizzare in qualche modo questa situazione?”


“Finché dura questo incubo, come si fa a parlare di fidanzata, di moglie, di relazione sentimentale? Certo i miei sentimenti non sono mutati. Ma chi vuole che in tempo di guerra, durante i bombardamenti, pensasse a costruirsi una casetta? Ho il mio bambino, per fortuna, al quale ho dato il mio nome: ha cinque anni e mezzo, va già a scuola, è molto intelligente. Oggi è lui la mia sola ragione di vita. Se, dopo questo processo, riuscirò a trovare la forza e la serenità per ricominciare da capo e mettere ordine nella mia esistenza, il merito sarà soltanto suo”.

Giuseppe Montesi è ora sul banco degli imputati. La sua situazione è sconcertante: egli non deve rispondere soltanto del reato di calunnia, ma per vie traverse, con una procedura quanto meno insolita, il “povero Zio Giuseppe” potrà essere additato all’opinione pubblica come responsabile della morte di Wilma, cioè reo di un delitto che non si sa neppure se è stato commesso.

Perché il lettore si orienti in quella intricata e misteriosa giungla che fu per anni il Caso Montesi, sarà forse utile ricordare che l’inizio della vicenda risale al 9 aprile 1953, allorché Wilma Montesi esce di casa alle 17; alle 21 non è ancora rientrata e la madre, in apprensione, telefona ai parenti, poi denuncia la scomparsa della ragazza alla polizia; per tutta notte si fanno ricerche affannose, alle quali partecipa attivamente lo zio Giuseppe. L’11 aprile il cadavere di Wilma sarà ritrovato sulla spiaggia di Torvaianica.

Il 21 settembre 1954 il giudice Sepe, dopo sei mesi di indagini, forse influenzato dalla morbosa impazienza dell’opinione pubblica, prese una decisione drastica: fece arrestare Piero Piccioni e Ugo Montagna. Pochi giorni dopo, precisamente il 28 settembre, il direttore (Franco Biagetti) e tre dipendenti (Leo Leonelli, Mario Garzoli, Lia Brusin) della tipografia Casciani, andarono spontaneamente in questura a dichiarare che il 9 aprile 1953 Giuseppe Montesi, a quell’epoca impiegato presso la loro stessa tipografia, aveva abbandonato l’ufficio alle 17, cioè all’ora esatta in cui Wilma uscì di casa per andare incontro alla sua tragica fine; precisarono che se n’era andato in gran fretta, subito dopo aver ricevuto una telefonata, dicendo che doveva recarsi a Ostia per un affare urgente; la Brusin aggiunse inoltre di averlo sentito varie volte, prima di quel giorno, telefonare dall’ufficio ad una certa Wilma.

Erano accuse circostanziate e gravissime, ma Sepe non le giudicò attendibili, anzi gli apparvero come un indizio di colpevolezza a carico di Piccioni e Montagna. Prima di tutto risultò che il più autorevole dei quattro accusatori, Franco Biagetti, conosceva Piccioni; a Sepe sembrò quindi strano che quella sensazionale rivelazione arrivasse proprio in quel momento, cioè pochi giorni dopo l’arresto di Piccioni e Montagna. Da un anno e mezzo l’opinione pubblica era ossessionata dal Caso Montesi; la giustizia cercava affannosamente di scoprire come e con chi Wilma aveva trascorso le ore precedenti la sua morte: tutti i pazzi e i visionari correvano a fare le loro brave rivelazioni. E i quattro della tipografia, che sapevano cose tanto importanti, se ne stavano zitti.

Anzi, poche settimane dopo la morte di Wilma, quando un maresciallo dei carabinieri incaricato di fare normali accertamenti su tutti coloro che conoscevano la vittima andò alla tipografia Casciani a chiedere informazioni sul conto dello Zio Giuseppe, i quattro futuri accusatori ne diedero di ottime.

Nell’estate 1955 Sepe concluse finalmente l’inchiesta e rinviò a giudizio gli imputati. Nella sentenza istruttoria le accuse formulate dai quattro della tipografia contro lo Zio Giuseppe furono esplicitamente indicate come una manovra “per deviare il corso della giustizia e scagionare Piccioni”. Giuseppe Montesi, visto come la pensava il giudice istruttore, si sentì autorizzato a querelare per falsa testimonianza i quattro della tipografia, in data 30 agosto 1955.

Si giunse così all’ultimo atto. Nel gennaio 1957 ebbe inizio a Venezia il processo contro Piccioni, Montagna e Polito. Fin dalle prime battute fu evidente che Sepe, malgrado la sua laboriosissima inchiesta, non aveva potuto raccogliere nessun indizio serio e concreto di colpevolezza a carico degli imputati: dopo una serie ben concatenata di colpi di scena, lo Zio Giuseppe, chiamato solo come teste, divenne in pratica, quasi senza rendersene conto, il vero e unico imputato.

Il pubblico ministero puntò contro di lui tutte le sue batterie. Lo Zio Giuseppe, costretto alle corde e suonato come un pugile ormai prossimo al KO, finì per confessare nel corso di una drammatica udienza di avere effettivamente lasciato il lavoro in anticipo, il 9 aprile 1953, dopo aver ricevuto una telefonata: i quattro della tipografia, dunque, su questo punto avevano detto il vero. Giuseppe disse che si era ostinato a negare d’aver ricevuto la telefonata e di essere uscito in anticipo per non svelare un segreto increscioso della sua vita privata: infatti era uscito (non però alle 17, ma alle 18 o forse alle 18.30) per incontrare Rossana Spissu, sorella della sua fidanzata, con la quale aveva una relazione intima.

Rossana confessò: gli aveva telefonato alle 17.30 e lo aveva poi incontrato dopo le 18. Ma ecco giungere, tre giorni dopo, una nuova teste volontaria: la signora Piastra, la quale demolì l’alibi di Giuseppe Montesi dichiarando che il 9 aprile 1953 non poteva essere uscito dalla tipografia per incontrare Rossana Spissu, dal momento che Rossana in quel lasso di tempo aveva accompagnato lei e un’altra signora alla stazione Termini. Rossana, però, rimase ferma alla sua versione.

Il processo di Venezia si concluse, com’era logico, con la piena assoluzione di Piccioni, Montagna e Polito. Ma il più appassionante romanzo giallo del secolo non poteva sgonfiarsi in un finale insulso e deludente. Lo Zio Giuseppe salvò il finale, assumendo il ruolo di indiziato permanente, in modo da lasciare uno spiraglio aperto a qualsiasi congettura. Ha dovuto fare l’identica via crucis già percorsa da Piccioni: i sospetti, le accuse non suffragate da prove, gli interrogatori, il carcere. Piccioni, almeno, ne è uscito completamente riabilitato da una inequivocabile sentenza: la situazione dello Zio Giuseppe è anche più ingrata.

I quattro della tipografia, subito dopo il processo di Venezia, denunciarono Giuseppe Montesi per calunnia (a causa della sua precedente querela per falsa testimonianza). Fu aperto un procedimento a suo carico: l’8 agosto 1957 lo Zio Giuseppe fu arrestato e rimase in carcere per tre mesi (trattamento di estremo rigore per un reato che non comporta quasi mai il carcere preventivo). Il 4 agosto 1959 fu rinviato a giudizio per calunnia unitamente a Rossana Spissu per falsa testimonianza. La sentenza di rinvio a giudizio riguardava esclusivamente il reato di calunnia, ma con una procedura singolarissima si è voluto lasciare su di lui l’ombra di un sospetto terribile.

I giudici del processo di Venezia sentenziarono che è impossibile dire con certezza se Wilma Montesi sia morta per disgrazia o in conseguenza di un fatto criminoso, ma nella sentenza che ha rinviato a giudizio Giuseppe è detto che se esistesse la prova che Wilma è morta in seguito a un fatto criminoso, il colpevole sarebbe inequivocabilmente lui soltanto.

Solo una circostanziata sentenza di assoluzione al processo in corso, dunque (ma è un processo per calunnia che può anche risolversi con una lieve condanna senza il minimo aggancio con la morte di Wilma) potrebbe rendere giustizia a Giuseppe Montesi, liberandolo da un sospetto che altrimenti gli peserà sul capo per tutta la vita.