martedì 27 novembre 2018

LA MAGA DI SAN BARONTO




Giorni fa, in una strada di Pistoia, il parroco di San Baronto, don Lastrucci, si imbatté nel parroco di Comeana, don Antonio Sarnesi. Vedendo l’altro sacerdote don Lastrucci esclamò, fingendosi allegro: “Eh, padre, bel regalo mi ha fatto! Da quando Ebe Giorgini è venuta ad abitare dalle mie parti, le cose vanno di male in peggio. Speravo che, con la salita che c’è da fare per raggiungere casa sua, i pazienti la abbandonassero. Macché! Arrivano con i motorini, con le motociclette, con le automobili da noleggio!”.

L’Ebe Giorgini, cui alludeva preoccupato il parroco di San Baronto, è una “guaritrice”, una sposa di ventiquattro anni dall’aspetto florido di contadina, ma dall’espressione a volte ispirata. Parlando di lei, si usano gli appellativi più disparati: è stata ribattezzata “quella santa” dai miracolandi che essa riceve quattro volte la settimana; “quella che medica” dai contadini dubbiosi; “santona” dagli scettici; “ciarlatana” dalla polizia, che le ha contestato una serie di contestazioni e diffide. La Chiesa soltanto non ha usato appellativi, ma il vescovo di Pistoia, Mario Longo Dorni, ha diffidato ufficialmente i fedeli dal ricorrere alla “guaritrice”, ed ha privato la donna dei Sacramenti.

Ebe Giorgini ha cominciato a far parlare di sé, quando aveva dodici anni ed abitava nella campagna pratese. Penultima di quattro figli, era una bambina “tutta casa e chiesa”, che sognava di prendere il velo come la sorella maggiore, suor Adele delle Minime dell’Addolorata. Ma “una mattina,” racconta la “guaritrice” tratteggiandosi un ritratto alquanto edificante, “mi trovavo in chiesa, quando sentii pronunciare chiaramente il mio nome. Era la Madonna la quale mi chiedeva di soffrire per l’umanità peccatrice e di fare del bene”. Ebe si affrettò a comunicare quella richiesta al suo confessore, padre Ubaldo, ma il sacerdote non credette né alla storiella né alle confessioni che seguirono. Ebe, infatti, gli raccontò in varie riprese di aver operato guarigioni con le sue preghiere, e di aver ricevuto dal Signore nientemeno che le stigmate. Erano stigmate strane, perché non si vedevano affatto. La ragazza aveva soltanto le estremità enfiate, tanto è vero che i genitori pensavano soffrisse di diabete.

All’età giusta Ebe entrò a lavorare in una fabbrica a Prato: faceva l’operaia tessile. Era ormai una bella ragazza, alta, con due occhioni languidi e un sorriso malizioso. Fosco Ugolini, un contadino grande e grosso che lavorava ai telai della medesima fabbrica, prese a seguirla per strada: nel giugno 1953 si celebrarono le sue nozze con Ebe Giorgini.

La coppia andò ad abitare in casa Ugolini nel podere “Consuma” di Loretino.  La casa degli Ugolini è una classica casa colonica toscana dalle stanze fumose, piene di mosche e polli. Il lavoro, come in ogni podere, non manca: sennonché la sposina si ammalò presto. Era una malattia strana, i medici non ci capivano nulla. La suocera, una donna piccola e grassa, dai capelli bianchi arruffati, si arrabbiava: “Non ti dovevi sposare se non eri sana”, era il suo ritornello. Ebe languiva nel letto matrimoniale, confortandosi con la preghiera, e riprese ad avere visioni soprannaturali: “Mi apparve la Madonna”, afferma, “e mi disse che per guarire dovevo andare al Santuario”. Ebe si recò da Padre Pio. Guarita, prese a curare la gente in nome del famoso frate di Pietrelcina, finché una lettera del padre provinciale di Foggia la diffidò ad usare il nome e il prestigio del sacerdote.

Nel frattempo le stigmate prima invisibili erano spuntate: si trattava di escoriazioni alle mani, ai piedi, al costato, alla fronte. Ebe, a suo dire, divenne cieca. “Mi si seccò il nervo ottico”, dice, “anche ora sono cieca. Ma ho sempre l’angelo custode al mio fianco per guidarmi”. Sparivano intanto gli ultimi scrupoli: “Prima temevo di essere chiamata stregona, ma quattro anni fa non me ne importò più. Volli soltanto fare del bene come mi era stato ordinato” dichiara Ebe. Le prime “guarigioni” fecero epoca per la campagna, e le donarono una fama quale nessun “guaritore” aveva mai conquistato nel Pistoiese. Si disse che un “indemoniato”, benedetto e unto da lei per benino con olio santo, aveva sputato un enorme rospo. Poi si disse che aveva guarito un bambino balbuziente. E l’aia di Loretino divenne meta di pellegrinaggi religioso-terapeutici. Gente disperata si arrampicava per quel sentiero da buoi: bambini poliomielitici e bambini deficienti portati sulle braccia da madri straziate, adulti neurotici, isterici, ossessivi, epilettici.

I devoti cominciavano ad arrivare all’alba. C’erano persone sull’aia fino a notte alta. Tutti aspettavano tranquillamente il proprio briciolo di speranza sulle prode dei campi, sotto gli alberi, seduti sulle stanghe di un barroccio, se brillava il sole; nella fumosa cucina se tirava vento o pioveva. Per disciplinare tutte quelle visite, fu necessario distribuire i numeri delle precedenze. Il paziente entrava nella stanza della cura: una camera da letto-santuario con immagini sacre che tappezzavano le pareti fino al soffitto, candele, lumini, una grande statua che qualche fedele ricordava di aver venerato nella chiesa di Sant’Angelo a Lecore. La statua, la Madonna del Buon Pastore, riluceva di ori: cinque chilogrammi di preziosi. Una quantità imprecisata di altri ex-voto adornava le pareti. Unici tocchi profani, i formaggi e le mele a maturare sull’armadio, e una scritta in terracotta a capo del letto: “Signore, benedici chi non mi fa perdere tempo”.

In questo ambiente si muoveva una donna giovane, tutt’altro che brutta, con un corpo florido avvolto in una vestaglia. Sorridente, cordiale, la santona di Loretino accoglieva i devoti mettendo in mostra i mezzi guanti di filo, e raccomandando preghiere e comunioni. Le unzioni si svolgevano rapidamente. Anche duecento persone il giorno passavano tra le mani della Giorgini. Ai pazienti la “guaritrice” non chiedeva denaro. Accettava soltanto oboli, polli, prosciutti, formaggi. La gente mormorò stupita, quando Ebe dette una dimostrazione pratica della bontà del suo mestiere acquistando una “millequattro” per le visite a domicilio, e il marito prese la patente di guida.

Le uniche voci contrarie a questa attività miracolistica si levarono dalla Chiesa. Ebe aveva appena cominciato la sua carriera, quando fu fatto parroco di Comeana Don Antonio Sernesi, un giovane prete che conosce molto bene la credulità che alberga nelle campagne. Don Antonio fece più di una visita alla pecora smarrita, ma alla fine si arrese, contentandosi di predicare in chiesa. A qualcosa servì: quando Ebe, avvolta in un manto azzurro e coi capelli sciolti organizzò una processione all’oratorio di Loretino, la gente meno credula del poggio e i ragazzini sani come pesci si raccolsero ai lati del sentiero. Una grandinata di fischi fece disperdere il corteo. Il parroco si recò diverse volte a Pistoia chiedendo consiglio al vescovo, e questi intervenne con tutta la sua autorità. In certi casi la Chiesa assume un atteggiamento di estrema riservatezza: ma nel caso di Ebe Giorgini non vi furono dubbi di sorta. Il vescovo le tolse i Sacramenti e la benedizione della casa.

Ma l’afflusso dei devoti non si fermò. Intanto la casa colonica aveva acquistato nuovi ospiti. C’erano alcune ragazze, converse di un ordine che la “santa” aveva cercato di fondare, c’era un giovanotto, Giorgio Milan, un “frate” laico nativo di Vicenza che aveva vissuto in un eremitaggio dell’Aquila. Milan la sapeva lunga in fatto di diavoli e diavolerie: era un assistente ideale per Ebe Giorgini. Nell’aia era comparso anche un tipo con gli occhiali (un direttore d’albergo poliglotta) il quale, non si sa se richiesto o meno, fece per un certo periodo da “cerimoniere” alla “guaritrice”: quando l’autorità giudiziaria intervenne egli fu una preziosa fonte di informazioni.

Finalmente, una fredda mattina del febbraio scorso, scese nell’aia di Loretino la polizia. L’arrivo delle macchine a sirena spiegata mise in fuga fra la mota dei campi molte persone. Un gruppetto di coraggiosi rimase, deciso a non lasciarsi defraudare della propria porzione di speranza. Occhi ostili osservarono scendere dalla “millenove” il dottor Finocchiaro, capo della divisione giudiziaria della questura di Firenze. Due vecchiette incartapecorite, vedendolo salire la scala, presero a borbottare orazioni quasi si trattasse di belzebù in persona. Il dottor Finocchiaro trovò la “santona” a letto, bendata come una mummia alla testa e alle mani: non si lasciò commuovere e disse chiaro e tondo alla Giorgini che non era più il caso di ricevere gente perché l’articolo 121 del testo unico di pubblica sicurezza vieta il “mestiere di ciarlatano”. La “santa” incrociò le braccia come una massaia che sia per litigare col macellaio per il taglio della bistecca. “Non faccio nulla di male”, disse risentita, “come non ne fanno i miei parenti. La gente viene a trovarmi spontaneamente. Non chiedo nulla a nessuno. Cerco soltanto di alleviare le sofferenze del prossimo”. E, non appena allontanatosi il funzionario, riprese con energia le sue benedizioni. Il giorno dopo il maresciallo dei carabinieri di Poggio a Caiano la mandò a chiamare per un interrogatorio.

L’aria di Loretino si faceva sempre più pesante. Il dottor Finocchiaro contestò altre contravvenzioni e diffide, e un venerdì, mentre la “santa” era occupata in una visita a domicilio, arrivarono le camionette degli agenti. Sotto gli sguardi inorriditi di devote donnette, tutte le immagini della camera da letto-santuario furono sequestrate, caricate sulle macchine e portate via. Chili di ex voto finirono nella cassaforte del maresciallo di Poggio a Caiano: le immagini furono chiuse sotto chiave in una stanza della caserma. Rimase soltanto la Madonna del Buon Pastore.

Ebe decise di andare in esilio. Di quella che essa definisce persecuzione, approvava soltanto un argomento: che la casa colonica dei suoi suoceri era poco igienica per i suoi malati, senza contare il problema dello spazio divenuto di capitale importanza con l’aumentare degli assistiti.

Così la “santona” firmò un contratto che la rendeva legittima proprietaria di una bella villa sulle montagne pistoiesi, a pochi chilometri da una nota località climatica. Il nome, San Baronto, non era suggestivo come Loretino, ma poteva andare.

I primi di maggio Ebe entrò in clinica per sottoporre le stigmate a perizia medico-legale: naturalmente fu di venerdì. Ma a parte la crisi semi-catalettica e le parole bibliche, non una stilla di sangue sbocciò dalle escoriazioni. Quella sera stessa, riconfortati gli stanchi spiriti con un caffè e una lauta cenetta, l’ex “santona” di Loretino prese la via dell’esilio, apprestandosi a diventare “santona di San Baronto”.

La cornice ora è cambiata, ma i riti sono i medesimi anche laggiù. Chi cammina sulla strada ode da lontano le grida di qualche “indemoniato” che si agita vicino a tanta santità. E la gente attende il proprio turno.

Poi Ebe arriva, sorridente, avvolta in vestaglie di un gusto impossibile, con i mezzi guanti di filo e i lunghi capelli raccolti a coda di cavallo da una spilla dorata ultima moda. Bacia i bambini, carezza la spalla ai poveretti che la guardano col cuore pieno di speranza. Entra in una stanzetta sulla quale spicca il cartello “Parlatorio”. Sui due lettini di ferro celeste qualcuno è già in attesa. Il primo “devoto” prende posto sulla seggiola, Ebe gli circonda il collo con una corona del rosario, ride. Intanto si versa dell’olio sulle dita da una boccetta d’aranciata. Lava con quello la faccia del miracolando. Siccome al contatto dell’olio, evidentemente, il diavolo scivola, lo insegue qua e là per la persona. Il paziente lascia il suo obolo, Ebe si allontana con gesto stanco i capelli dalle stigmate, e con voce gentile mormora: “Avanti”.

Un altro infelice fa il suo ingresso nella stanza.

Articolo di Neera Ferreri da “Oggi” del 1957

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