INTORNO AL CASO MONTESI
Articolo di Luigi Cavicchioli da “Oggi” n. 14 dell’8
aprile 1954
Il “Caso
Montesi” è diventato il più colossale romanzo a fumetti che sia mai stato
scritto, un romanzo a fumetti che appassiona le sartine e i professori
d’università, le dattilografe e gli intellettuali. Si tratta di un fenomeno
senza precedenti: un fatto di cronaca nera, in fondo abbastanza banale, ha
assunto via via proporzioni gigantesche, assurde, ha sconvolto tutto il Paese,
ha suscitato ondate travolgenti di morbosa curiosità, ha dato ai comunisti un
pretesto per mettere in stato di accusa il governo, la democrazia cristiana, il
Vaticano, tutta la classe dirigente, tutta la borghesia. I giornali, anche i
più seri, si sono lasciati trascinare in una ridda sfrenata di rivelazioni,
di ipotesi, di catastrofiche illazioni, mescolando il reale e il fantastico,
confondendo ogni giorno di più l’opinione pubblica.
Di
concreto, in questa vicenda, ci sono gli affari poco chiari di Ugo Montagna, le
sue evasioni fiscali, i suoi non limpidi precedenti penali e, cosa più grave, i
suoi rapporti di amicizia e di interesse con tre o quattro importanti
personaggi. Tutto il resto ha il tipico sapore del grande romanzo a fumetti:
vizio e stupefacenti; bellissime ragazze uccise da uomini potenti e tenebrosi;
una intrepida fanciulla (Anna Maria Caglio) che, innamorata di un perfido
avventuriero, andava agli appuntamenti con la borsetta piena di lamette da
barba per difendere la propria vita in pericolo; un’altra ragazza (Adriana
Bisaccia) che dovrebbe essere a conoscenza di chi sa quali orrendi segreti ma
il terrore le cuce la bocca; colombe e falchi; amore e morte; corruzione e
redenzione. Questi romanzeschi ingredienti, assai più che le concrete evasioni fiscali
di Ugo Montagna, hanno fatto colpo su una parte dell’opinione pubblica, hanno
eccitato la fantasia di molta gente.
In questa strana vicenda si sono inseriti, o hanno
cercato di inserirsi, innumerevoli pazzi, esaltati, mitomani, maniaci, timidi
che per tutta la vita hanno sognato di essere protagonisti di clamorose
avventure, esibizionisti in cerca di celebrità, speculatori in cerca di
quattrini.
Silvano Muto, Anna Maria Caglio, Adriana Bisaccia, gli
avvocati, i giudici e soprattutto i giornalisti, hanno ricevuto, in queste
settimane, centinaia e centinaia di lettere, quasi sempre anonime, che
promettevano rivelazioni sensazionali, che segnalavano persone “immischiate nel
Caso Montesi”. Anche a noi ne sono giunte parecchie: “Vi informo che la
signorina C.S. faceva affari col Montagna e andava a Capocotta con la Bisaccia
e la Montesi; questa è la verità, abbiate il coraggio di dirla. Firmato: uno
che sa molte cose ma non può parlare perché ci tiene alla pelle”. “Il dottor
P.M. e la signorina N.R., nota ragazza squillo, sanno tutta la verità sulla
morte di Wilma Montesi: informate la polizia”. “La signora T., che ha una doppia
vita ed è cocainomane, ha visto morire la Montesi perché era presente alle orge
di Capocotta: fatela cantare”. In tutti questi messaggi, dove noi abbiamo messo
discrete iniziali, ci sono nomi, cognomi, indirizzi, numeri di telefono. “Grida
questi tre nomi al processo (seguono nomi e indirizzi di tre noti
professionisti di Torino) e vedrai Silvano Muto impallidire”, dice uno dei
tanti messaggi ricevuti da Adriana Bisaccia.
Chi sono gli autori delle innumerevoli lettere anonime
che giungono a Roma da ogni parte d’Italia? A volte gli stessi individui
citati: maniaci che si struggono dal desiderio di vedere il proprio nome sui
giornali, ragazze esaltate che sognano il cinema e invidiano la celebrità
conquistata da Anna Maria Caglio e Adriana Bisaccia. A volte sono i soliti
malvagi, che tentano ingenuamente di danneggiare un “nemico”, o almeno sperano
di procurargli qualche seccatura. Ma in un caso o nell’altro queste lettere
anonime non raggiungono lo scopo, perché nessuno ovviamente le prende in
considerazione.
Ma c’è anche chi ha osato uscire dall’anonimo e ha voluto
entrare a viso scoperto nella clamorosa vicenda. Il genovese Luigi Bruzzone,
all’inizio del processo Muto, mandò lettere firmate all’imputato e alla Caglio.
Diceva di avere le prove inconfutabili della colpevolezza di Montagna, di Piero
Piccioni e di Pavone nel traffico di stupefacenti: citava ditte di Milano e
Torino alle quali avrebbe fatto capo la losca attività. Le lettere di Bruzzone,
lette al processo, ebbero un effetto sensazionale. Ma il giorno dopo si seppero
cose amene sul conto del giovane genovese. Era stato condannato a quattro anni
per tentata estorsione; chiuso due volte in manicomio, era stato espulso dal
partito comunista. L’episodio più pittoresco del suo curriculum vitae è questo:
la mattina del 9 agosto 1952 riuscì a introdursi nell’ufficio, ancora deserto,
del procuratore della repubblica di Genova; sedette alla scrivania, suonò tutti
i campanelli, radunò nella sua stanza i magistrati, gli uscieri, i carabinieri;
quindi iniziò una conferenza sul tema “La legge è uguale per tutti”. Dapprima
fu scambiato per un alto funzionario e ascoltato rispettosamente, ma poi, a
causa delle parole insensate che andava dicendo, qualcuno pensò bene di uscire
in punta di piedi dalla stanza e di telefonare al manicomio: giunsero poco dopo
due infermieri che trascinarono via il conferenziere. Ora Luigi Bruzzone è
venuto a Roma: voleva a tutti i costi deporre come teste al processo Muto, ma
ancora una volta i magistrati si sono rifiutati di ascoltare le sue
dissertazioni sul tema “La legge è uguale per tutti”.
Poi è venuto alla ribalta Antonio Uliano, un signore di
Prata (paese di Adriana Bisaccia), timidissimo e “non molto intelligente”, come
lei lo ha definito al processo. Uliano, scoperto da un giornalista dell’Unità,
aveva dichiarato di aver udito la Bisaccia confidare alla madre di essere stata
presente alla “festa” durante la quale era morta Wilma Montesi. Si sa come è
andata a finire la faccenda.
Uliano ha infatti confessato di avere rilasciato quelle
false dichiarazioni all’Unità perché pagato da un noto comunista di Avellino.
Quando Uliano, dopo l’udienza, ha incontrato Adriana Bisaccia in un corridoio
del palazzo di giustizia, le ha detto con aria candida e voce piagnucolosa:
“Questa mattina ti ho salutata e tu non mi hai risposto: sei arrabbiata con
me?”
Le rivelazioni più sensazionali le prometteva però il
minatore Piero Pierotti. Costui ha trentun anni, è mingherlino, ha occhi da
allucinato. Lavorava in Lussemburgo: di là si è messo in contatto, tramite un
conoscente romano, con Silvano Muto. Gli ha raccontato una storia
straordinaria. Nell’inverno dell’anno scorso – ha detto – era venuto in Italia
per un breve soggiorno: in quell’occasione conobbe Wilma Montesi; la ragazza
gli domandò se fosse disposto a “lavorare” per certi suoi amici influenti, e il
lavoro consisteva in questo: portare in Italia, attraverso la frontiera, in
occasione di qualche suo viaggio futuro, un sacchetto con dieci chili di
cocaina.
La moglie di Muto è andata a prelevare il prezioso
minatore, lo ha potato a Roma in aereo. Per alcuni giorni Pierotti, al quale
decine di cronisti davano la caccia, è stato irreperibile: gli avvocati di Muto
lo custodivano gelosamente. Poi ha concesso interviste “esplosive” ai giornali
di estrema sinistra, che dapprima hanno dato enorme risalto alle dichiarazioni
del Pierotti. Egli ha fornito minuziosi particolari del suo incontro con Wilma
Montesi, che sarebbe avvenuto alla stazione di Ostia; in seguito si videro
altre due o tre volte. Orgoglioso dell’amicizia di quella bellissima ragazza,
Pierotti la presentò a parecchi conoscenti e amici: “Tentai anche di baciarla,
ma lei mi respinse senza tuttavia adirarsi”, ha detto. Poi la ragazza, saputo
che lui viaggiava abbastanza spesso fra l’Italia e il Lussemburgo, gli propose
appunto di entrare nel traffico degli stupefacenti; infine vide un giorno Wilma
Montesi salire sull’automobile di un signore alto, autoritario, elegante, con
pochi capelli grigi (i connotati corrispondono con quelli di Ugo Montagna).
Questo è quanto ha raccontato Piero Pierotti, il
personaggio che sembrava avere in pugno le chiavi dell’allucinante mistero. Ma
poi hanno cominciato a smentirlo tutti i suoi amici e conoscenti di Ostia da
lui tirati in ballo: “Mai visto Pierotti in compagnia di una bella ragazza”,
hanno dichiarato all’unanimità. Non si sa cosa abbia detto ai magistrati lo
strano minatore, ma sembra ormai certo che la sua deposizione sia destinata a
crollare nel ridicolo. I giornali di estrema sinistra, infatti, che sanno tutto
di lui, e che in un primo tempo hanno dato enorme importanza alle sue
“rivelazioni”, a un tratto hanno cambiato stranamente rotta, hanno cominciato a
mettere in dubbio le affermazioni e a fare oscure insinuazioni sul suo conto.
Ed ecco entrare in scena un altro sconcertante
personaggio: Francesco Tannoia, radiotecnico. Ha già reso la sua deposizione
davanti ai magistrati. Si tratta di un giovane timidissimo, pieno di complessi.
Il suo racconto sembra preso di sana pianta da un album di avventure a fumetti.
“Nel marzo 1953”, egli dice, “mi trovavo a Roma in
occasione di uno dei miei frequenti viaggi di affari tra Verona, dove
risiedevo, e la capitale. Ero fermo con la mia vettura in via XX Settembre. A
un tratto giunse di corsa una ragazza che mi fissò con gli occhi pieni di
terrore e mi disse: “Per favore, la supplico, mi porti lontano, sono
inseguita”. La feci salire. Partii in direzione di Porta Pia. Durante il
tragitto la ragazza mi disse di chiamarsi Wilma Montesi, e mi disse anche:
“Beato lei che abita lontano da Roma; cosa pagherei per andarmene. Qui piano
piano mi fanno morire”. Continuando il suo racconto Tannoia asserisce che fece
poi scendere Wilma a Porta Pinciana; in quel preciso momento giunse una 1400
che evidentemente li aveva seguiti, ne smontò un signore elegante, autoritario,
con uno sguardo magnetico. Wilma, in preda a viva agitazione, lo presentò a
Tannoia dicendo che era un suo amico e si chiamava Giulio; poi Wilma e Giulio
se ne andarono.
Tannoia tornò a Verona. Passarono alcuni mesi, quindi
Tannoia si trasferì a Roma. Intanto Wilma era morta ma il giovane, che dice di
non leggere i giornali, non lo sapeva. Un giorno della scorsa estate chi
incontra il Tannoia in un bar di Nettuno? Lui, il misterioso Giulio dallo
sguardo magnetico. “Lo chiamai e gli chiesi notizie di Wilma; mi rispose: “Non
pensi più a quella ragazza, ha rapporti con personalità e lei farebbe bene a
dimenticarla”. Wilma allora era già morta da alcuni mesi, ma io non lo sapevo”.
In seguito Giulio propose a Tannoia di lavorare per lui, cioè di custodirgli
in casa misteriosi pacchi legati con filo di ferro. Egli portava di notte quei
pacchi e di notte li veniva a riprendere: per questi servizi compensava Tannoia
con piccole somme. Da quando il caso Montesi è clamorosamente scoppiato,
Tannoia incontra spesso, nei luoghi più disparati, quell’ossessionante signor Giulio, il quale lo fissa in silenzio, coi suoi terribili occhi da
ipnotizzatore, che sembrano dirgli: “Guai a te se parli”.
Tannoia dice: “Quando quegli occhi mi guardano mi sento
soggiogato e terrorizzato: capisco perché Wilma aveva tanta paura”. Questo è il
racconto di Francesco Tannoia, uomo timidissimo e pieno di complessi, che forse
da anni sognava segretamente di trovarsi al centro di drammatiche avventure
Rivelazioni non meno clamorose e sensazionali di quelle
di Pierotti e di Tannoia siamo in grado di farle noi, ora, per primi. Siamo in
possesso di un memoriale autografo della scrittrice Maddalena Caramello, più
nota come Michelina Riviere, abitante a Roma, in via Lorenzo il Magnifico. Il
memoriale contiene affermazioni di estrema gravità.
La Caramello, tra l’altro, dichiara testualmente: “Nella
primavera del ’52, in diverse riprese, ho visto Wilma Montesi in compagnia di
Ugo Montagna arrivare in automobile in via del Viminale, scendere, entrare
nell’albergo Impero. Altre volte ho visto Wilma arrivare sola in taxi, pagare
la corsa, entrare nella hall del medesimo albergo. E’ dunque evidente che Wilma
Montesi e Ugo Montagna si conoscevano bene. Sono certa di quanto dichiaro:
identificai il Montagna fin da quell’epoca perché ebbi modo di notare il suo
comportamento spavaldo e sicuro di sé. Un giorno chiesi a un mio conoscente, il
commendator Lovatelli, che si trovava con me sulla terrazza del caffè “Valente”,
chi fosse quel signore dall’aria spavalda: il commendatore rispose che era Ugo
Montagna, da lui ben conosciuto. Non seppi a quell’epoca il nome della ragazza,
restai tuttavia molto colpita dalla sua sobria eleganza e dal suo incedere
quasi maestoso. Indossava spesso magliette di lana nera e tailleur di ottimo
taglio. Notai inoltre il suo particolare modo di acconciarsi i capelli. Quando,
dopo la tragica morte di Wilma Montesi, i giornali pubblicarono le sue
fotografie, io non ebbi alcun dubbio: si trattava della medesima ragazza che
varie volte avevo visto all’albergo Impero in compagnia di Montagna”.
Il memoriale di Maddalena Caramello continua tirando in
ballo Piero Piccioni e una sua “cricca” non meglio precisata. Dice infatti il
documento: “Nel medesimo periodo ho avuto modo di vedere spesso Piero Piccioni
passeggiare sul marciapiedi, in via del Viminale tra l’albergo Impero e
l’albergo Fiore. Egli aspettava l’arrivo di Ugo Montagna col quale poi si
intratteneva a parlare sommessamente. Di Piero Piccioni mi colpì l’aria
spiritata con la quale un giorno mi fissò dopo essersi fermato davanti a me
che, come al solito, stavo seduta sulla terrazza del caffè “Valente”. Forse gli
era stato riferito che io avevo risposto con asprezza a un componente della sua
“cricca” che mi aveva fatto strane offerte, e precisamente di portare
misteriosi messaggi a individui stranieri, lavoro per il quale avrei dovuto
spostarmi tra Roma e Napoli e tra Roma e Genova, dietro compenso di lire
diecimila giornaliere più il rimborso delle spese di viaggio e di soggiorno in
albergo”.
Il memoriale fa poi alcuni gravi accenni a pretesi
tentativi di avvelenamento di cui la Caramello sarebbe stata vittima, a mezzo
di vari caffè che le vennero serviti da un certo barman; dice che una volta fu
costretta a recarsi in una farmacia di via Torino, e che il medico e la giovane
cassiera di quella farmacia, ai quali denunciò la cosa, affermano ora di
ricordare perfettamente l’episodio. Dichiara di aver quindi parlato apertamente
al barman in questione, esortandolo a “non rovinare la sua giovane esistenza
per assecondare l’interesse di loschi avventurieri”, e infatti il barman,
qualche tempo dopo, diede retta ai suoi suggerimenti e cercò lavoro altrove. La
Caramello conclude il suo memoriale affermando che si riserva di fare altre
dichiarazioni se lo riterrà opportuno.
Il documento è da lei scritto e firmato, inoltre la donna
ci ha rilasciato una dichiarazione nella quale afferma di “essere pienamente
consapevole delle conseguenze alle quali mi esporrei nel caso che le mie
informazioni risultassero infondate”.
Maddalena Caramello ha sessant’anni. E’ nata a Saluzzo,
da una famiglia di commercianti che emigrò in Francia quando lei era bambina.
Ha viaggiato tutta l’Europa: ha pubblicato articoli e novelle specialmente su
giornali francesi: subito dopo la prima guerra mondiale divenne sostenitrice
del movimento federalista europeo, ora ha la tessera dei Cittadini del Mondo.
Ha trascorso vari anni nell’America del Sud; nel ’34 tornò in Italia, dal ’35
al luglio ’43 fu confinata politica a Ventotene per avere svolto propaganda in
favore dell’idea federalista. Dopo la liberazione lavorò per qualche tempo
presso gli uffici romani dell’ONU, nel ’46 partecipò, con Piovene e altri
scrittori, alla fondazione di una rivista culturale. Conosce varie personalità
politiche: attualmente vive modestamente dando lezioni di francese, inglese e
spagnolo, lingue che conosce alla perfezione.
Rendiamo note le gravi dichiarazioni di Maddalena
Caramello perché questo è nostro preciso dovere, ma evitiamo di farne un “caso
giornalistico sensazionale” come altri senza dubbio avrebbero fatto. Ci
limitiamo a segnalare, con le più ampie riserve, questa nuova teste le cui
rivelazioni non sono meno sensazionali di quelle del Pierotti, del Tannoia o
della stessa Anna Maria Moneta-Caglio.
Ma altre figure secondarie si muovono in questa specie di
“festival della follia” che è diventato il caso Montesi. Un altro personaggio
ameno è capitato nei giorni scorsi nella redazione di un settimanale milanese
(che ovviamente non è il nostro). Si trattava di un giovane sparuto, di circa
trent’anni. Aveva un’aria molto misteriosa. Ha chiesto di parlare al direttore
e ha dichiarato, senza preamboli: “Sono in grado di procurarvi una fotografia
di Ugo Montagna in compagnia di Wilma Montesi. Vi interessa?”. Il direttore del
settimanale ha fatto un balzo sulla sedia. Cercando di dominare l’emozione, ha
balbettato: “Sì, direi di sì. Può interessare”. Pubblicare una fotografia di
Montagna e della Montesi insieme significherebbe sciogliere finalmente ogni
enigma: sarebbe uno dei più grossi colpi giornalistici del secolo. Il
giovanotto ha continuato flemmaticamente: “Posso procurarvi la foto nel giro di
due o tre giorni: devo però andare a Roma, dove mi incontrerò con la persona
che deve consegnarmela. Non vi chiedo nemmeno una lira di compenso: soltanto,
com’è naturale, pagherete voi le spese di viaggio e di soggiorno”.
Il giovanotto e un redattore del settimanale sono partiti
immediatamente per Roma. Qui giunti, il giovanotto se ne è andato a zonzo per
la città: il redattore si è chiuso in albergo, col telefono a portata di mano,
in attesa di ricevere l’annuncio del felice esito della missione. Per tre
giorni il giovanotto non si è più fatto vivo: il giornalista lo attendeva
passeggiando nervosamente nella sua camera d’albergo. Ogni tanto telefonava il
direttore da Milano. “Ancora nulla, ma lo attendo di minuto in minuto”,
rispondeva il giornalista. Finalmente, sabato sera, 27 marzo, il giovanotto si
ripresentò. “Dov’è la fotografia?” gli fu chiesto. Lui allargò le braccia
sconsolato: “Non posso più averla: quel tale che ne era in possesso l’ha
venduta a Lauro per quindici milioni”. Il giovanotto è stato accompagnato
allora negli uffici romani del settimanale e sottoposto, per alcune ore, a
stringente interrogatorio; alla fine è scoppiato in singhiozzi e ha confessato
di avere inventato di sana pianta tutta la faccenda. Perché? Da molto tempo
desiderava di fare un viaggio a Roma spesato di tutto.
Un’altra notizia che, per alcuni giorni, ha fatto restare
l’opinione pubblica col fiato sospeso è giunta da Avellino. Un avvocato di
quella città era entrato in possesso di una fotografia di Wilma Montesi e di
Adriana Bisaccia a braccetto. Anche una fotografia di questo genere sarebbe
stata un documento d’enorme valore, una prova decisiva in questo “caso” nel
quale, finora, esistono soltanto voci e supposizioni. Anche i giornali più seri
hanno dato un certo credito alla notizia: gli inviati speciali sono partiti
d’urgenza per Avellino. Si è parlato di cifre colossali offerte per l’acquisto
della fotografia: dieci milioni, venti milioni. Ma poi l’individuo che aveva
fatto circolare la notizia, messo alle strette, ha dichiarato candidamente di
avere inventato di sana pianta ogni cosa. Perché? “Perché volevo vedere quanti
milioni erano disposti a sborsare i giornali comunisti per impadronirsi di una
fotografia come quella”, ha detto.
Di milioni si fa un gran parlare in tutta questa vicenda.
Anna Maria Moneta-Caglio ha detto che le sono stati offerti cinquanta milioni
per interpretare un film, ma lei avrebbe rifiutato. Prima che scoppiasse lo
scandalo, quando era ancora in buoni rapporti con Ugo Montagna, Anna Maria
Caglio pagò centomila lire per avere pubblicato una sua fotografia sulla
copertina di un modestissimo periodico romano. Erano i tempi in cui cercava di
farsi strada nel teatro, nel cinema, alla radio, e aveva bisogno di un po’ di
pubblicità. Poi scoppiò il “Caso Montesi”. Quando l’avvocato d’Angelantonio
rinunciò a difendere la Caglio si lasciò sfuggire, a quanto si dice, questa
frase: “Io faccio l’avvocato, non l’agente di pubblicità”. Ora Anna Maria ha
avuto più pubblicità di qualsiasi diva del cinema, tutti i giornali hanno
pubblicato e pubblicano, naturalmente gratis, le sue fotografie.
Anche Adriana Bisaccia ha detto che un produttore le ha
offerto una grossa cifra, da lei rifiutata, per interpretare una parte di primo
piano in un film ispirato al “Caso Montesi”. Ha accettato invece una particina
nel film I tre ladri, con Totò: è stata compensata con 150 mila lire, altre 200
mila le ebbe per memoriali e interviste. Un quotidiano di Roma le pagò la
permanenza di parecchi giorni in un grande albergo. Questo è quanto ha fruttato
complessivamente ad Adriana Bisaccia il “Caso Montesi”, ma molta gente è
convinta che la ragazza di Avellino abbia ricevuto “per tacere” somme favolose:
in realtà la Bisaccia, che quando ha un po’ di denaro lo getta via con
straordinaria prodigalità, è costantemente in lotta col problema del vitto e
dell’alloggio quotidiano. Ora è andata con la madre a Prata, un tranquillo
paesello in provincia di Avellino, per rimettere in sesto i nervi rovinati. Ha
deciso di scrivere un romanzo autobiografico.
Anche il pittore Duilio Francimei, l’ex fidanzato di
Adriana Bisaccia, ha concluso un modesto affaruccio. E’ giunto a Roma e ha
cercato di “piazzare” il suo memoriale. Un intermediario ce lo ha offerto,
chiedendoci una “grossa cifra”, non precisata. La faccenda non ci interessava e
non trattammo: in seguito il memoriale di Francimei è stato venduto a un
settimanale di cronaca nera, si dice per centomila lire.
Anche Adelmina Marri, ex padrona di casa di Anna Maria
Moneta-Caglio, ci offrì per mezzo di un intermediario il suo memoriale.
Chiedeva mezzo milione, leggemmo il documento e lo trovammo privo di interesse.
Non trattammo. Il memoriale fu poi venduto a un altro settimanale per 250.000
lire, più 50.000 all’intermediario. La Marri già in quella occasione ci disse
che era in suo possesso un testamento spirituale di Anna Maria, definendolo
“esplosivo”, ma aggiunse che non lo avrebbe venduto nemmeno per venti milioni.
Questo testamento ha una storia curiosa. Già due mesi or
sono una persona si recò dalla famiglia Piccioni e parlò di quel testamento,
riferì ciò che conteneva e le gravissime, esplicite accuse che rivolgeva a
Montagna e a Piero Piccioni. L’individuo offrì alla famiglia Piccioni di “far
sparire” l’importantissimo documento: la famiglia rifiutò indignata la sia pure
amichevole proposta. Lo stesso Piero disse: “Le accuse della Caglio non mi fanno
né caldo né freddo, e non mi importa nulla che il suo testamento venga
pubblicato”.
Martedì 16 marzo la copia fotografica del testamento di
Anna Maria Moneta-Caglio, di cui la magistratura ignorava ancora l’esistenza,
ci fu offerta (non dalla Marri) per un milione di lire. Poteva essere un buon
colpo giornalistico, ma avremmo commesso una grave scorrettezza pubblicando,
per fini scandalistici, un documento tanto importante e compromettente senza
l’autorizzazione della Caglio e prima che la magistratura ne venisse a
conoscenza. Rifiutammo l’offerta.
Martedì 23 marzo, quando il Pierotti, appena giunto in
Italia, era assolutamente irreperibile, riuscimmo a metterci in contatto coi
parenti del giovane minatore, precisamente con la sorella e il marito di lei.
Chiedemmo fotografie del Pierotti, di cui nessuno conosceva ancora i connotati.
Dopo lunghissime tergiversazioni ci offrirono una fotografia formato tessera
del minatore (capelli imbrillantinati, cravatta a farfalla) e ci chiesero come
compenso due milioni. Restammo trasecolati. Il cognato di Pierotti, molto
sostenuto, ci disse: “Paese-Sera ha pagato due milioni la fotografia di Scelba
e Montagna insieme, come testimoni, al matrimonio del figlio di Spataro: questa
è l’unica fotografia esistente di Piero Pierotti e vale altrettanto”. Gli
facemmo osservare che non si sa quanto sia stata pagata esattamente la
fotografia di Scelba e Montagna insieme (c’è anzi chi dice che il fotografo che
la possedeva, non avendone compreso il valore, l’abbia ceduta per sole 15.000
lire): inoltre quella fotografia poteva rappresentare, per la propaganda
comunista, un’ottima carta da sfruttare per speculazioni politiche. L’immagine
di Pierotti, al contrario, valeva soltanto come curiosità. I parenti del
minatore non si convinsero e la riposero gelosamente in una scatola, convinti
di possedere un piccolo tesoro che tutti i giornali sarebbero corsi a
contendersi a suon di milioni. Ma le loro illusioni sono sfumate ben presto: lo
stesso Piero Pierotti ha provocato la disastrosa svalutazione quando, due
giorni dopo, non ha saputo resistere alla tentazione di vedere la sua immagine
sui giornali e si è fatto fotografare da tutti.