giovedì 13 dicembre 2018

IL CASO MONTESI - V




LA FIERA DELLA FOLLIA

INTORNO AL CASO MONTESI


Articolo di Luigi Cavicchioli da “Oggi” n. 14 dell’8 aprile 1954



Il “Caso Montesi” è diventato il più colossale romanzo a fumetti che sia mai stato scritto, un romanzo a fumetti che appassiona le sartine e i professori d’università, le dattilografe e gli intellettuali. Si tratta di un fenomeno senza precedenti: un fatto di cronaca nera, in fondo abbastanza banale, ha assunto via via proporzioni gigantesche, assurde, ha sconvolto tutto il Paese, ha suscitato ondate travolgenti di morbosa curiosità, ha dato ai comunisti un pretesto per mettere in stato di accusa il governo, la democrazia cristiana, il Vaticano, tutta la classe dirigente, tutta la borghesia. I giornali, anche i più seri, si sono lasciati trascinare in una ridda sfrenata di rivelazioni, di ipotesi, di catastrofiche illazioni, mescolando il reale e il fantastico, confondendo ogni giorno di più l’opinione pubblica.


Di concreto, in questa vicenda, ci sono gli affari poco chiari di Ugo Montagna, le sue evasioni fiscali, i suoi non limpidi precedenti penali e, cosa più grave, i suoi rapporti di amicizia e di interesse con tre o quattro importanti personaggi. Tutto il resto ha il tipico sapore del grande romanzo a fumetti: vizio e stupefacenti; bellissime ragazze uccise da uomini potenti e tenebrosi; una intrepida fanciulla (Anna Maria Caglio) che, innamorata di un perfido avventuriero, andava agli appuntamenti con la borsetta piena di lamette da barba per difendere la propria vita in pericolo; un’altra ragazza (Adriana Bisaccia) che dovrebbe essere a conoscenza di chi sa quali orrendi segreti ma il terrore le cuce la bocca; colombe e falchi; amore e morte; corruzione e redenzione. Questi romanzeschi ingredienti, assai più che le concrete evasioni fiscali di Ugo Montagna, hanno fatto colpo su una parte dell’opinione pubblica, hanno eccitato la fantasia di molta gente.



In questa strana vicenda si sono inseriti, o hanno cercato di inserirsi, innumerevoli pazzi, esaltati, mitomani, maniaci, timidi che per tutta la vita hanno sognato di essere protagonisti di clamorose avventure, esibizionisti in cerca di celebrità, speculatori in cerca di quattrini.


Silvano Muto, Anna Maria Caglio, Adriana Bisaccia, gli avvocati, i giudici e soprattutto i giornalisti, hanno ricevuto, in queste settimane, centinaia e centinaia di lettere, quasi sempre anonime, che promettevano rivelazioni sensazionali, che segnalavano persone “immischiate nel Caso Montesi”. Anche a noi ne sono giunte parecchie: “Vi informo che la signorina C.S. faceva affari col Montagna e andava a Capocotta con la Bisaccia e la Montesi; questa è la verità, abbiate il coraggio di dirla. Firmato: uno che sa molte cose ma non può parlare perché ci tiene alla pelle”. “Il dottor P.M. e la signorina N.R., nota ragazza squillo, sanno tutta la verità sulla morte di Wilma Montesi: informate la polizia”. “La signora T., che ha una doppia vita ed è cocainomane, ha visto morire la Montesi perché era presente alle orge di Capocotta: fatela cantare”. In tutti questi messaggi, dove noi abbiamo messo discrete iniziali, ci sono nomi, cognomi, indirizzi, numeri di telefono. “Grida questi tre nomi al processo (seguono nomi e indirizzi di tre noti professionisti di Torino) e vedrai Silvano Muto impallidire”, dice uno dei tanti messaggi ricevuti da Adriana Bisaccia.


Chi sono gli autori delle innumerevoli lettere anonime che giungono a Roma da ogni parte d’Italia? A volte gli stessi individui citati: maniaci che si struggono dal desiderio di vedere il proprio nome sui giornali, ragazze esaltate che sognano il cinema e invidiano la celebrità conquistata da Anna Maria Caglio e Adriana Bisaccia. A volte sono i soliti malvagi, che tentano ingenuamente di danneggiare un “nemico”, o almeno sperano di procurargli qualche seccatura. Ma in un caso o nell’altro queste lettere anonime non raggiungono lo scopo, perché nessuno ovviamente le prende in considerazione.


Ma c’è anche chi ha osato uscire dall’anonimo e ha voluto entrare a viso scoperto nella clamorosa vicenda. Il genovese Luigi Bruzzone, all’inizio del processo Muto, mandò lettere firmate all’imputato e alla Caglio. Diceva di avere le prove inconfutabili della colpevolezza di Montagna, di Piero Piccioni e di Pavone nel traffico di stupefacenti: citava ditte di Milano e Torino alle quali avrebbe fatto capo la losca attività. Le lettere di Bruzzone, lette al processo, ebbero un effetto sensazionale. Ma il giorno dopo si seppero cose amene sul conto del giovane genovese. Era stato condannato a quattro anni per tentata estorsione; chiuso due volte in manicomio, era stato espulso dal partito comunista. L’episodio più pittoresco del suo curriculum vitae è questo: la mattina del 9 agosto 1952 riuscì a introdursi nell’ufficio, ancora deserto, del procuratore della repubblica di Genova; sedette alla scrivania, suonò tutti i campanelli, radunò nella sua stanza i magistrati, gli uscieri, i carabinieri; quindi iniziò una conferenza sul tema “La legge è uguale per tutti”. Dapprima fu scambiato per un alto funzionario e ascoltato rispettosamente, ma poi, a causa delle parole insensate che andava dicendo, qualcuno pensò bene di uscire in punta di piedi dalla stanza e di telefonare al manicomio: giunsero poco dopo due infermieri che trascinarono via il conferenziere. Ora Luigi Bruzzone è venuto a Roma: voleva a tutti i costi deporre come teste al processo Muto, ma ancora una volta i magistrati si sono rifiutati di ascoltare le sue dissertazioni sul tema “La legge è uguale per tutti”.


Poi è venuto alla ribalta Antonio Uliano, un signore di Prata (paese di Adriana Bisaccia), timidissimo e “non molto intelligente”, come lei lo ha definito al processo. Uliano, scoperto da un giornalista dell’Unità, aveva dichiarato di aver udito la Bisaccia confidare alla madre di essere stata presente alla “festa” durante la quale era morta Wilma Montesi. Si sa come è andata a finire la faccenda.

 
Uliano ha infatti confessato di avere rilasciato quelle false dichiarazioni all’Unità perché pagato da un noto comunista di Avellino. Quando Uliano, dopo l’udienza, ha incontrato Adriana Bisaccia in un corridoio del palazzo di giustizia, le ha detto con aria candida e voce piagnucolosa: “Questa mattina ti ho salutata e tu non mi hai risposto: sei arrabbiata con me?”

Le rivelazioni più sensazionali le prometteva però il minatore Piero Pierotti. Costui ha trentun anni, è mingherlino, ha occhi da allucinato. Lavorava in Lussemburgo: di là si è messo in contatto, tramite un conoscente romano, con Silvano Muto. Gli ha raccontato una storia straordinaria. Nell’inverno dell’anno scorso – ha detto – era venuto in Italia per un breve soggiorno: in quell’occasione conobbe Wilma Montesi; la ragazza gli domandò se fosse disposto a “lavorare” per certi suoi amici influenti, e il lavoro consisteva in questo: portare in Italia, attraverso la frontiera, in occasione di qualche suo viaggio futuro, un sacchetto con dieci chili di cocaina.


La moglie di Muto è andata a prelevare il prezioso minatore, lo ha potato a Roma in aereo. Per alcuni giorni Pierotti, al quale decine di cronisti davano la caccia, è stato irreperibile: gli avvocati di Muto lo custodivano gelosamente. Poi ha concesso interviste “esplosive” ai giornali di estrema sinistra, che dapprima hanno dato enorme risalto alle dichiarazioni del Pierotti. Egli ha fornito minuziosi particolari del suo incontro con Wilma Montesi, che sarebbe avvenuto alla stazione di Ostia; in seguito si videro altre due o tre volte. Orgoglioso dell’amicizia di quella bellissima ragazza, Pierotti la presentò a parecchi conoscenti e amici: “Tentai anche di baciarla, ma lei mi respinse senza tuttavia adirarsi”, ha detto. Poi la ragazza, saputo che lui viaggiava abbastanza spesso fra l’Italia e il Lussemburgo, gli propose appunto di entrare nel traffico degli stupefacenti; infine vide un giorno Wilma Montesi salire sull’automobile di un signore alto, autoritario, elegante, con pochi capelli grigi (i connotati corrispondono con quelli di Ugo Montagna).



Questo è quanto ha raccontato Piero Pierotti, il personaggio che sembrava avere in pugno le chiavi dell’allucinante mistero. Ma poi hanno cominciato a smentirlo tutti i suoi amici e conoscenti di Ostia da lui tirati in ballo: “Mai visto Pierotti in compagnia di una bella ragazza”, hanno dichiarato all’unanimità. Non si sa cosa abbia detto ai magistrati lo strano minatore, ma sembra ormai certo che la sua deposizione sia destinata a crollare nel ridicolo. I giornali di estrema sinistra, infatti, che sanno tutto di lui, e che in un primo tempo hanno dato enorme importanza alle sue “rivelazioni”, a un tratto hanno cambiato stranamente rotta, hanno cominciato a mettere in dubbio le affermazioni e a fare oscure insinuazioni sul suo conto.


Ed ecco entrare in scena un altro sconcertante personaggio: Francesco Tannoia, radiotecnico. Ha già reso la sua deposizione davanti ai magistrati. Si tratta di un giovane timidissimo, pieno di complessi. Il suo racconto sembra preso di sana pianta da un album di avventure a fumetti.


“Nel marzo 1953”, egli dice, “mi trovavo a Roma in occasione di uno dei miei frequenti viaggi di affari tra Verona, dove risiedevo, e la capitale. Ero fermo con la mia vettura in via XX Settembre. A un tratto giunse di corsa una ragazza che mi fissò con gli occhi pieni di terrore e mi disse: “Per favore, la supplico, mi porti lontano, sono inseguita”. La feci salire. Partii in direzione di Porta Pia. Durante il tragitto la ragazza mi disse di chiamarsi Wilma Montesi, e mi disse anche: “Beato lei che abita lontano da Roma; cosa pagherei per andarmene. Qui piano piano mi fanno morire”. Continuando il suo racconto Tannoia asserisce che fece poi scendere Wilma a Porta Pinciana; in quel preciso momento giunse una 1400 che evidentemente li aveva seguiti, ne smontò un signore elegante, autoritario, con uno sguardo magnetico. Wilma, in preda a viva agitazione, lo presentò a Tannoia dicendo che era un suo amico e si chiamava Giulio; poi Wilma e Giulio se ne andarono.



Tannoia tornò a Verona. Passarono alcuni mesi, quindi Tannoia si trasferì a Roma. Intanto Wilma era morta ma il giovane, che dice di non leggere i giornali, non lo sapeva. Un giorno della scorsa estate chi incontra il Tannoia in un bar di Nettuno? Lui, il misterioso Giulio dallo sguardo magnetico. “Lo chiamai e gli chiesi notizie di Wilma; mi rispose: “Non pensi più a quella ragazza, ha rapporti con personalità e lei farebbe bene a dimenticarla”. Wilma allora era già morta da alcuni mesi, ma io non lo sapevo”. In seguito Giulio propose a Tannoia di lavorare per lui, cioè di custodirgli in casa misteriosi pacchi legati con filo di ferro. Egli portava di notte quei pacchi e di notte li veniva a riprendere: per questi servizi compensava Tannoia con piccole somme. Da quando il caso Montesi è clamorosamente scoppiato, Tannoia incontra spesso, nei luoghi più disparati, quell’ossessionante signor Giulio, il quale lo fissa in silenzio, coi suoi terribili occhi da ipnotizzatore, che sembrano dirgli: “Guai a te se parli”.


Tannoia dice: “Quando quegli occhi mi guardano mi sento soggiogato e terrorizzato: capisco perché Wilma aveva tanta paura”. Questo è il racconto di Francesco Tannoia, uomo timidissimo e pieno di complessi, che forse da anni sognava segretamente di trovarsi al centro di drammatiche avventure

Rivelazioni non meno clamorose e sensazionali di quelle di Pierotti e di Tannoia siamo in grado di farle noi, ora, per primi. Siamo in possesso di un memoriale autografo della scrittrice Maddalena Caramello, più nota come Michelina Riviere, abitante a Roma, in via Lorenzo il Magnifico. Il memoriale contiene affermazioni di estrema gravità.


La Caramello, tra l’altro, dichiara testualmente: “Nella primavera del ’52, in diverse riprese, ho visto Wilma Montesi in compagnia di Ugo Montagna arrivare in automobile in via del Viminale, scendere, entrare nell’albergo Impero. Altre volte ho visto Wilma arrivare sola in taxi, pagare la corsa, entrare nella hall del medesimo albergo. E’ dunque evidente che Wilma Montesi e Ugo Montagna si conoscevano bene. Sono certa di quanto dichiaro: identificai il Montagna fin da quell’epoca perché ebbi modo di notare il suo comportamento spavaldo e sicuro di sé. Un giorno chiesi a un mio conoscente, il commendator Lovatelli, che si trovava con me sulla terrazza del caffè “Valente”, chi fosse quel signore dall’aria spavalda: il commendatore rispose che era Ugo Montagna, da lui ben conosciuto. Non seppi a quell’epoca il nome della ragazza, restai tuttavia molto colpita dalla sua sobria eleganza e dal suo incedere quasi maestoso. Indossava spesso magliette di lana nera e tailleur di ottimo taglio. Notai inoltre il suo particolare modo di acconciarsi i capelli. Quando, dopo la tragica morte di Wilma Montesi, i giornali pubblicarono le sue fotografie, io non ebbi alcun dubbio: si trattava della medesima ragazza che varie volte avevo visto all’albergo Impero in compagnia di Montagna”.


Il memoriale di Maddalena Caramello continua tirando in ballo Piero Piccioni e una sua “cricca” non meglio precisata. Dice infatti il documento: “Nel medesimo periodo ho avuto modo di vedere spesso Piero Piccioni passeggiare sul marciapiedi, in via del Viminale tra l’albergo Impero e l’albergo Fiore. Egli aspettava l’arrivo di Ugo Montagna col quale poi si intratteneva a parlare sommessamente. Di Piero Piccioni mi colpì l’aria spiritata con la quale un giorno mi fissò dopo essersi fermato davanti a me che, come al solito, stavo seduta sulla terrazza del caffè “Valente”. Forse gli era stato riferito che io avevo risposto con asprezza a un componente della sua “cricca” che mi aveva fatto strane offerte, e precisamente di portare misteriosi messaggi a individui stranieri, lavoro per il quale avrei dovuto spostarmi tra Roma e Napoli e tra Roma e Genova, dietro compenso di lire diecimila giornaliere più il rimborso delle spese di viaggio e di soggiorno in albergo”.


Il memoriale fa poi alcuni gravi accenni a pretesi tentativi di avvelenamento di cui la Caramello sarebbe stata vittima, a mezzo di vari caffè che le vennero serviti da un certo barman; dice che una volta fu costretta a recarsi in una farmacia di via Torino, e che il medico e la giovane cassiera di quella farmacia, ai quali denunciò la cosa, affermano ora di ricordare perfettamente l’episodio. Dichiara di aver quindi parlato apertamente al barman in questione, esortandolo a “non rovinare la sua giovane esistenza per assecondare l’interesse di loschi avventurieri”, e infatti il barman, qualche tempo dopo, diede retta ai suoi suggerimenti e cercò lavoro altrove. La Caramello conclude il suo memoriale affermando che si riserva di fare altre dichiarazioni se lo riterrà opportuno.


Il documento è da lei scritto e firmato, inoltre la donna ci ha rilasciato una dichiarazione nella quale afferma di “essere pienamente consapevole delle conseguenze alle quali mi esporrei nel caso che le mie informazioni risultassero infondate”.


Maddalena Caramello ha sessant’anni. E’ nata a Saluzzo, da una famiglia di commercianti che emigrò in Francia quando lei era bambina. Ha viaggiato tutta l’Europa: ha pubblicato articoli e novelle specialmente su giornali francesi: subito dopo la prima guerra mondiale divenne sostenitrice del movimento federalista europeo, ora ha la tessera dei Cittadini del Mondo. Ha trascorso vari anni nell’America del Sud; nel ’34 tornò in Italia, dal ’35 al luglio ’43 fu confinata politica a Ventotene per avere svolto propaganda in favore dell’idea federalista. Dopo la liberazione lavorò per qualche tempo presso gli uffici romani dell’ONU, nel ’46 partecipò, con Piovene e altri scrittori, alla fondazione di una rivista culturale. Conosce varie personalità politiche: attualmente vive modestamente dando lezioni di francese, inglese e spagnolo, lingue che conosce alla perfezione.


Rendiamo note le gravi dichiarazioni di Maddalena Caramello perché questo è nostro preciso dovere, ma evitiamo di farne un “caso giornalistico sensazionale” come altri senza dubbio avrebbero fatto. Ci limitiamo a segnalare, con le più ampie riserve, questa nuova teste le cui rivelazioni non sono meno sensazionali di quelle del Pierotti, del Tannoia o della stessa Anna Maria Moneta-Caglio.


Ma altre figure secondarie si muovono in questa specie di “festival della follia” che è diventato il caso Montesi. Un altro personaggio ameno è capitato nei giorni scorsi nella redazione di un settimanale milanese (che ovviamente non è il nostro). Si trattava di un giovane sparuto, di circa trent’anni. Aveva un’aria molto misteriosa. Ha chiesto di parlare al direttore e ha dichiarato, senza preamboli: “Sono in grado di procurarvi una fotografia di Ugo Montagna in compagnia di Wilma Montesi. Vi interessa?”. Il direttore del settimanale ha fatto un balzo sulla sedia. Cercando di dominare l’emozione, ha balbettato: “Sì, direi di sì. Può interessare”. Pubblicare una fotografia di Montagna e della Montesi insieme significherebbe sciogliere finalmente ogni enigma: sarebbe uno dei più grossi colpi giornalistici del secolo. Il giovanotto ha continuato flemmaticamente: “Posso procurarvi la foto nel giro di due o tre giorni: devo però andare a Roma, dove mi incontrerò con la persona che deve consegnarmela. Non vi chiedo nemmeno una lira di compenso: soltanto, com’è naturale, pagherete voi le spese di viaggio e di soggiorno”.


Il giovanotto e un redattore del settimanale sono partiti immediatamente per Roma. Qui giunti, il giovanotto se ne è andato a zonzo per la città: il redattore si è chiuso in albergo, col telefono a portata di mano, in attesa di ricevere l’annuncio del felice esito della missione. Per tre giorni il giovanotto non si è più fatto vivo: il giornalista lo attendeva passeggiando nervosamente nella sua camera d’albergo. Ogni tanto telefonava il direttore da Milano. “Ancora nulla, ma lo attendo di minuto in minuto”, rispondeva il giornalista. Finalmente, sabato sera, 27 marzo, il giovanotto si ripresentò. “Dov’è la fotografia?” gli fu chiesto. Lui allargò le braccia sconsolato: “Non posso più averla: quel tale che ne era in possesso l’ha venduta a Lauro per quindici milioni”. Il giovanotto è stato accompagnato allora negli uffici romani del settimanale e sottoposto, per alcune ore, a stringente interrogatorio; alla fine è scoppiato in singhiozzi e ha confessato di avere inventato di sana pianta tutta la faccenda. Perché? Da molto tempo desiderava di fare un viaggio a Roma spesato di tutto.


Un’altra notizia che, per alcuni giorni, ha fatto restare l’opinione pubblica col fiato sospeso è giunta da Avellino. Un avvocato di quella città era entrato in possesso di una fotografia di Wilma Montesi e di Adriana Bisaccia a braccetto. Anche una fotografia di questo genere sarebbe stata un documento d’enorme valore, una prova decisiva in questo “caso” nel quale, finora, esistono soltanto voci e supposizioni. Anche i giornali più seri hanno dato un certo credito alla notizia: gli inviati speciali sono partiti d’urgenza per Avellino. Si è parlato di cifre colossali offerte per l’acquisto della fotografia: dieci milioni, venti milioni. Ma poi l’individuo che aveva fatto circolare la notizia, messo alle strette, ha dichiarato candidamente di avere inventato di sana pianta ogni cosa. Perché? “Perché volevo vedere quanti milioni erano disposti a sborsare i giornali comunisti per impadronirsi di una fotografia come quella”, ha detto.


Di milioni si fa un gran parlare in tutta questa vicenda. Anna Maria Moneta-Caglio ha detto che le sono stati offerti cinquanta milioni per interpretare un film, ma lei avrebbe rifiutato. Prima che scoppiasse lo scandalo, quando era ancora in buoni rapporti con Ugo Montagna, Anna Maria Caglio pagò centomila lire per avere pubblicato una sua fotografia sulla copertina di un modestissimo periodico romano. Erano i tempi in cui cercava di farsi strada nel teatro, nel cinema, alla radio, e aveva bisogno di un po’ di pubblicità. Poi scoppiò il “Caso Montesi”. Quando l’avvocato d’Angelantonio rinunciò a difendere la Caglio si lasciò sfuggire, a quanto si dice, questa frase: “Io faccio l’avvocato, non l’agente di pubblicità”. Ora Anna Maria ha avuto più pubblicità di qualsiasi diva del cinema, tutti i giornali hanno pubblicato e pubblicano, naturalmente gratis, le sue fotografie.


Anche Adriana Bisaccia ha detto che un produttore le ha offerto una grossa cifra, da lei rifiutata, per interpretare una parte di primo piano in un film ispirato al “Caso Montesi”. Ha accettato invece una particina nel film I tre ladri, con Totò: è stata compensata con 150 mila lire, altre 200 mila le ebbe per memoriali e interviste. Un quotidiano di Roma le pagò la permanenza di parecchi giorni in un grande albergo. Questo è quanto ha fruttato complessivamente ad Adriana Bisaccia il “Caso Montesi”, ma molta gente è convinta che la ragazza di Avellino abbia ricevuto “per tacere” somme favolose: in realtà la Bisaccia, che quando ha un po’ di denaro lo getta via con straordinaria prodigalità, è costantemente in lotta col problema del vitto e dell’alloggio quotidiano. Ora è andata con la madre a Prata, un tranquillo paesello in provincia di Avellino, per rimettere in sesto i nervi rovinati. Ha deciso di scrivere un romanzo autobiografico.


Anche il pittore Duilio Francimei, l’ex fidanzato di Adriana Bisaccia, ha concluso un modesto affaruccio. E’ giunto a Roma e ha cercato di “piazzare” il suo memoriale. Un intermediario ce lo ha offerto, chiedendoci una “grossa cifra”, non precisata. La faccenda non ci interessava e non trattammo: in seguito il memoriale di Francimei è stato venduto a un settimanale di cronaca nera, si dice per centomila lire.

Anche Adelmina Marri, ex padrona di casa di Anna Maria Moneta-Caglio, ci offrì per mezzo di un intermediario il suo memoriale. Chiedeva mezzo milione, leggemmo il documento e lo trovammo privo di interesse. Non trattammo. Il memoriale fu poi venduto a un altro settimanale per 250.000 lire, più 50.000 all’intermediario. La Marri già in quella occasione ci disse che era in suo possesso un testamento spirituale di Anna Maria, definendolo “esplosivo”, ma aggiunse che non lo avrebbe venduto nemmeno per venti milioni.


Questo testamento ha una storia curiosa. Già due mesi or sono una persona si recò dalla famiglia Piccioni e parlò di quel testamento, riferì ciò che conteneva e le gravissime, esplicite accuse che rivolgeva a Montagna e a Piero Piccioni. L’individuo offrì alla famiglia Piccioni di “far sparire” l’importantissimo documento: la famiglia rifiutò indignata la sia pure amichevole proposta. Lo stesso Piero disse: “Le accuse della Caglio non mi fanno né caldo né freddo, e non mi importa nulla che il suo testamento venga pubblicato”.


Martedì 16 marzo la copia fotografica del testamento di Anna Maria Moneta-Caglio, di cui la magistratura ignorava ancora l’esistenza, ci fu offerta (non dalla Marri) per un milione di lire. Poteva essere un buon colpo giornalistico, ma avremmo commesso una grave scorrettezza pubblicando, per fini scandalistici, un documento tanto importante e compromettente senza l’autorizzazione della Caglio e prima che la magistratura ne venisse a conoscenza. Rifiutammo l’offerta.


Martedì 23 marzo, quando il Pierotti, appena giunto in Italia, era assolutamente irreperibile, riuscimmo a metterci in contatto coi parenti del giovane minatore, precisamente con la sorella e il marito di lei. Chiedemmo fotografie del Pierotti, di cui nessuno conosceva ancora i connotati. Dopo lunghissime tergiversazioni ci offrirono una fotografia formato tessera del minatore (capelli imbrillantinati, cravatta a farfalla) e ci chiesero come compenso due milioni. Restammo trasecolati. Il cognato di Pierotti, molto sostenuto, ci disse: “Paese-Sera ha pagato due milioni la fotografia di Scelba e Montagna insieme, come testimoni, al matrimonio del figlio di Spataro: questa è l’unica fotografia esistente di Piero Pierotti e vale altrettanto”. Gli facemmo osservare che non si sa quanto sia stata pagata esattamente la fotografia di Scelba e Montagna insieme (c’è anzi chi dice che il fotografo che la possedeva, non avendone compreso il valore, l’abbia ceduta per sole 15.000 lire): inoltre quella fotografia poteva rappresentare, per la propaganda comunista, un’ottima carta da sfruttare per speculazioni politiche. L’immagine di Pierotti, al contrario, valeva soltanto come curiosità. I parenti del minatore non si convinsero e la riposero gelosamente in una scatola, convinti di possedere un piccolo tesoro che tutti i giornali sarebbero corsi a contendersi a suon di milioni. Ma le loro illusioni sono sfumate ben presto: lo stesso Piero Pierotti ha provocato la disastrosa svalutazione quando, due giorni dopo, non ha saputo resistere alla tentazione di vedere la sua immagine sui giornali e si è fatto fotografare da tutti.

IL CASO MONTESI - IV




PROCESSO AL LADRO IGNOTO


Editoriale di Edilio Rusconi (direttore) da "Oggi"  n. 12 del 25 marzo 1954



Giorno per giorno, persona per persona, l’intera nazione italiana sembra incamminata verso la sedia dei testimoni al processo Muto: e mentre è in corso questa specie di censimento della popolazione, aumenta il numero dei memoriali e diminuisce il senso della realtà. Coloro che non hanno mai conosciuto né la Moneta-Caglio, né la Montesi, né il Montagna, né alcuno della vicenda, nemmeno qualche lontano parente della signorina Bisaccia, si sentono davvero mortificati, tanto più che – offrendo i comunisti compensi a chi abbia “rivelazioni” vere o false da fare – viene a mancare quella possibilità di guadagno che è la molla dell’iniziativa privata.


Vediamo di ricordare i confini e le traversie della vicenda. Una ragazza viene trovata morta: la polizia dice e che è morta mentre si bagnava i piedi, e naturalmente raccoglie il credito che raccoglierebbe se dicesse che la ragazza è morta per aver picchiato la testa contro una nuvola bassa. La magistratura archivia la pratica e, come sempre, il mistero produce bisbigli, congetture e fantasie, oltre che una notevole sfiducia verso le qualità investigative della polizia.


A un certo momento, un giornalista pubblica un articolo con certe sue congetture, la procura della repubblica di Roma dice: “Questo articolo turba l’ordine pubblico”, e si apre così un processo che produce il più grande frastuono del dopoguerra e che turba l’opinione pubblica con un primato tale che non potrà essere uguagliato da nessun altro avvenimento, se non forse dalle nozze dell’on. Scelba con l’on. Jotti, e dalla loro partecipazione al giro d’Italia nel quale dovrebbero battere simultaneamente Fausto Coppi: ma forse ciò non basterebbe ancora. Roma e tutto il resto d’Italia non parlano d’altro che dello “scandalo” e l’eco arriva in ogni parte del mondo abitato: i pubblici poteri si trovano di colpo investiti da un generale e generico J’accuse; il capo della polizia si dimette; il commercio e la borsa si paralizzano di colpo; i comunisti esultano come se finalmente fosse dimostrato che la società libera è interamente corrotta; decine di querele, controquerele, denunce si accavallano per dimostrare che taluni italiani non conoscono molto le vie dell’onore ma moltissimo quelle dei tribunali; la magistratura romana ha davanti a sé lavoro per un anno; i tipi intraprendenti organizzano le prime scommesse sulle vertenze.


Proseguiamo: il giornalista cita due donne come testimoni: una di esse, la Bisaccia, apre uno spiraglio verso il mondo pauroso degli stupefacenti: l’altra, la Moneta-Caglio, denunzia un suo ex-amante, e gli amici dell’ex-amante, e gli amici degli amici dell’ex-amante; la confuta un rapporto dei carabinieri, confidenziale, e perciò letto in pubblico e riprodotto su tutta la stampa: ne derivano denunce a cannocchiale che danno un’idea dell’infinito. 

E la ragazza “terribile” diventa la donna più celebre d’Italia, tema di ogni conversazione: la ente si minaccia scherzosamente, esclamando: “Se non la smetti, chiamo la Moneta”; le riviste teatrali si riempiono di battute sulla Moneta, il valore della Moneta, la Bisaccia per la Moneta che manda il Muto in Montagna: coloro che intrattengono amanti, soprattutto amanti giovani, si mostrano molto gentili con le medesime, e gli appassionati di caccia si accorgono che questo sport è terribilmente pericoloso perché avrebbe potuto portarli a un’innocente partita venatoria a Capocotta e di lì sulle prime pagine dei giornali. Capocotta è diventata intanto una località celebre in tutto il mondo, spiaggia di grande avvenire che sembra promettere aria piena di iodio e di peccato. Ed ecco che via via il processo perde ogni limite, e diventa la ribellione a quanto di corrotto c’è a Roma e anche altrove, diventa il tentativo di smascherare chi mescola politica, amori e furti. Si apre così, quasi da sé, il grande processo al ladro ignoto della vita pubblica italiana.


Quello che le né le varie occupazioni straniere, né la guerra perduta, né l’entusiasmo degli on. Togliatti e Longo avevano ottenuto – ossia lo scotimento di tutto lo Stato italiano – l’ha ottenuto, tra un sorriso e un’alzata di spalle, una ragazza di ventitré anni, una sconcertante, spregiudicata, ostinata ragazza che ha orientato secondo la sua volontà l’attenzione del Paese, del parlamento, del governo, dando contemporaneamente una bandiera di moralizzatore all’on. Togliatti e all’on. Scelba, e che meriterebbe forse la carica di ministro della pulizia nazionale, se si trovasse il modo di impedirle di diventare una autocrate come Elisabetta I d’Inghilterra o Caterina di Russia.


All’inizio può aver contato una certa morbosa curiosità, quando si è parlato di orge, festini, stupefacenti, peccatrici d’ogni categoria, tutti ingredienti per film proibiti agli inferiori di 16 anni. Immaginate per esempio che un film narri la storia della povera ragazza semplice, attratta in un luogo di orge, intontita con alcool o droghe, una povera ragazza che sviene e a cui viene praticata un’iniezione di olio canforato; e immaginate che l’iniezione, “entrata in vena” come dicono i medici, produca la morte, e che la poveretta venga abbandonata su una spiaggia, e che ad abbandonarla sia un personaggio influente: Dio mio, che film! Mare e pineta sullo sfondo, spari e cinghiali, musica sincopata e alcove. Ma la verità?


Ed ecco che la gente s’è dimenticata di quella morta, della pineta, dei cinghiali; e ha improvvisamente intravisto la possibilità di avere rivelazioni su altre corruzioni ancora più gravi perché producono ogni altra corruzione; le corruzioni affaristiche, le colossali evasioni fiscali, quelle porcherie che trovano a Roma il loro terreno di espansione come certe liane tropicali. Con entusiasmo e speranza la gente ha aspettato che il presidente del tribunale, dicendo: “Imputato, alzatevi”, mostrasse a tutti quel personaggio simbolico finora ignoto che è il profittatore, l’intermediario, il mascalzone potente. E’ uno spettacolo commovente, che testimonia che gli italiani puliti sono molti e gli sporchi pochi, e che i molti desiderano eliminare quei pochi.


Finora tutto è stato dunque “colpo di scena”, “sensazionale”, appunto perché il significato viene non tanto dai fatti quanto dall’ansia pubblica, come se fosse l’anima della gente a dare valore e nesso a fatti in sé slegati e confusi. 

Di preciso è risultato che a Capocotta andava a caccia molta gente, che il Montagna ha una fedina penale sporca, che il montagna era amico del capo della polizia: e molti forse per gli stupefacenti, le donne, gli affari non corretti, gli intrighi di personaggi influenti. Molti forse: ma la gente sa che avvengono affari non corretti, intrighi, evasioni fiscali, e non le interessa tanto che in ciò entri il Montagna, quanto che i pubblici poteri dimostrino di essere sani, smascherando chi c’entra e colpendo dovunque sia giusto colpire. 

A lungo la gente ha aspettato che fossero i giornali ad assolvere questo compito che è caratteristico della stampa dei Paesi liberi, ma i giornali hanno potuto ora a malapena mettersi sulle orme della magistratura, perché la legislazione italiana impedisce che assolvano queste funzioni: consente loro l’ingiuria e la falsificazione, ma non consente l’indagine e la rivelazione delle porcherie, e ha aggravato la situazione con l’assurda legge sulla stampa del 1948, che concede a chiunque sia nominato di rettificare, non solo per dire la verità, ma per dire quello che egli ritiene sia la verità, anche se si tratta della più spudorata menzogna (Giuliano avrebbe potuto far pubblicare a tutti i giornali che parlavano di lui una sua dichiarazione con lo scopo di presentarsi come un paladino dell’onestà, amante del tiro al piattello e del lavori all’uncinetto). Quando leggi e consuetudini concorrono a creare misteri e solidarietà inaccettabili, la verità si vendica con sussurri e sospetti, allora il rumore di un sasso dà un rimbombo da giudizio universale e quel fragore indistinto prende esso stesso il posto della verità documentata.


Situazioni del genere sono rivelatrici di un disagio generale. L’on. Scelba dovrà tenerne conto: perché è urgente restituire ai cittadini fiducia verso lo Stato.

Lo Stato italiano, infatti, con le sue leggi, i suoi decreti, i suoi decreti-legge, le sue statizzazioni e i suoi accentramenti, è organizzato apposta per facilitare le azioni scorrette e i raggiri. Dovremmo sbalordirci se non ce ne fossero. Lo Stato italiano è corruttore nella sua struttura, non nei suoi uomini: da molto tempo noi chiediamo l’epurazione delle leggi e degli enti, la bonifica dello Stato, e più autorevolmente di noi ammonisce don Sturzo, il più saggio degli uomini politici italiani. Non i funzionari italiani dunque sono da travolgere in un unico e generico giudizio: i funzionari sono nella loro generalità leali e puliti. Basta però che uno su mille sua corrotto, o sciocco, per compromettere tutta la correttezza delle funzioni statali. Ma soprattutto corrotto è un mondo di speculatori, affaristi, intermediari, prestanome, calati a Roma da ogni parte d’Italia: la galassia degli sporcaccioni. E’ questa la Roma che tutte le persone perbene deplorano. Non dunque i romani, non la Roma vera e propria, ma la Roma “artificiale”, la capitale degli sporcaccioni: gli unni della bustarella e dell’affarone.


Occorre dunque eliminare le tentazioni insite nelle leggi e negli istituti prima ancora che nei costumi. Anche indurre in tentazione, infatti, è una colpa. Si eliminino dunque le migliaia di licenze, controlli, enti, quello statalismo delirante che, nato con lo scopo di controllare e dirigere, concede invece a poche persone un potere discrezionale illimitato, e perciò diventa uno strumento onnipotente di azioni sporche da parte di alcuni furbi a danno di tutta la comunità nazionale. Si riducano al minimo le funzioni statali: si colpiscano duramente i corrotti e i corruttori. Se le leggi non bastano (in questo Paese in cui il traffico e l’uso degli stupefacenti è trattato con tanta indulgenza) si correggano: poche leggi, utili e molto severe. L’uso dei pubblici poteri per scopi illeciti è una colpa di tradimento verso la comunità nazionale e deve essere punita con la massima durezza. I funzionari probi, che sono la maggioranza, sappiano che in questa grande operazione essi sono i combattenti indispensabili: aiutino dunque a eliminare i disonesti dentro e fuori la compagine burocratica.

L’on. Scelba ha davanti a sé un’impresa di bonifica che si può effettuare solo con durezza: se riuscirà – e deve riuscire – potrà aspettarsi di avere monumenti sulle piazze quanti ne ha Garibaldi. Per non rendere inutile lo sbarco di mille audaci a Marsala, è urgente sbarcare mille furfanti in galera.