giovedì 29 novembre 2018

IL MISTERO DI ETTORE GRANDE - VI


Primo episodio 
Secondo episodio 
Terzo episodio 
Quarto episodio 
Quinto episodio 
Settimo episodio 
Ottavo episodio 
Conclusione 



Ettore rimase in segregazione cellulare per centocinquanta giorni, sottoposto a interminabili interrogatori. Quando si era trattato di procedere al suo arresto, il giudice istruttore di Torino che si occupava dell’affare di Bangkok si era rifiutato di firmare il suo mandato di cattura. Così era stato sostituito ed Ettore si era trovato di fronte a un nuovo magistrato.

I risultati della perizia, coi suoi quattro colpi, gli erano stati nuovamente contestati, e allora Ettore per la prima volta aveva ammesso che ormai, anche secondo lui, l’ipotesi del suicidio doveva venire scartata, che c’era da pensare a un delitto, e che in questo caso era lui stesso che sollecitava la scoperta del colpevole. Si indusse a dichiarare che questa soluzione poteva essere accolta con qualche probabilità, che la scala alla camera dove si trovava sua moglie era piuttosto agevole, che nel solaio della villa chiunque avrebbe potuto penetrare e nascondersi e che finalmente gli sembrava di aver veduto, in quei giorni, aggirarsi degli sconosciuti intorno al bungalow.

Si credette allora che Ettore fosse sulla via della confessione e quando, in un secondo tempo, invece egli ritornò a parlare di suicidio l’unico risultato per lui fu di aver irrimediabilmente compromesso la propria posizione.

In una lettera del carcere scritta a suo padre dopo qualche mese di detenzione Ettore dice: “La spossatezza di nervi è talora completa, eppure nel periodo istruttorio mi tocca ancora sostenere interrogatori per confutare delle calunnie, per distruggere artificiose e diaboliche montature. Se il magistrato conoscesse ciò nella realtà per averlo provato egli stesso, capirebbe certo in quale condizione psicologica e mentale si trova un infelice”.

In realtà Ettore era caduto spesso in gravi e incomprensibili contraddizioni. Aveva detto, per esempio, che quando si trovava nella camera da bagno, a otto o dieci metri dal luogo dove sua moglie si trovava, aveva inteso gli spari egli stava lavandosi, poi disse che stava radendosi, che era sotto la doccia e infine che si stava asciugando. Anche sul periodo di tempo da lui trascorso nella stanza da bagno dopo aver udito il primo colpo era stato impreciso, e aveva detto dapprima che si trattava di una mezz’ora, poi di un quarto d’ora e infine di pochi minuti addirittura.

Quando gli era stato chiesto di fare un ritratto di sua moglie, egli dipinse Vincenzina, la prima volta, come un’alcoolizzata e un’isterica. Disse che a bordo del Conte Rosso aveva pagato più di tremila lire in sole bevande, che aveva veduto nella sua cabina tre bottiglie di liquore e di averla colta perfino mentre beveva acqua di colonia. Poi si era accorto di aver esagerato e aveva detto che quei dati di fatto da lui riferiti dovevano essere intesi come attenuanti al suicidio e non come calunnia alla memoria di Vincenzina. Proseguendo a parlare di lei, aveva usato dei termini moderati ma vaghi, come se da altri e non da lui stesso si dovesse attendere la spiegazione che aveva condotto a quel tragico epilogo.

Sul tavolo del giudice istruttore si costruiva intanto la storia della sua vita di funzionario, rappresentata dai rapporti che giungevano dalle sedi consolari presso le quali Ettore era stato addetto, ma questa vita non rivelava nulla di interessante e ci si rivolse allora alla sua intimità di uomo privato e di scapolo, che venne esaminata con uno scrupolo e una diligenza feroce. Così, da Tunisi, venne fuori una vecchia storia: Ettore aveva allora ventisette anni e avrebbe voluto sposare una signora che ne contava quarantotto, ricca e separata dal marito. Ettore, anzi, aveva pregato un avvocato suo amico perché iniziasse le pratiche per ottenere il divorzio, pratiche che non furono neppure avviate perché tutto si risolse in un epilogo da operetta, quando l’amico scoperse che la signora era la madre della propria fidanzata.

Furono interrogati, durante l’inchiesta, duecentosettantacinque testimoni. Forse per riflesso dei dissidi che esistevano a Bangkok, le deposizioni degli italiani che risiedevano nel Siam al momento della tragedia furono sempre unilaterali. Il ministro e il personale della legazione interpretarono i fatti a favore del suicidio, gli altri connazionali a favore dell’omicidio. La signora Valenzani ricordò che una volta Vincenzina le aveva mostrato delle casse di armi che dovevano servire a Ettore per la caccia grossa. In quell’occasione ella aveva chiesto all’amica: “Te ne intendi?” e Vincenzina aveva risposto: “Per carità!”. Si ritenne così che la vittima non avesse pratica di armi e che non potesse averne avuta in particolar modo di una Browning, che è una rivoltella difficile da maneggiare e fornita di tre sicurezze.

La signora Umiltà disse che Vincenzina, pochi giorni prima di morire, a proposito di un’attrice americana che si era suicidata, aveva esclamato: “Se proprio sapessi come si sta all’aldilà forse…”, e non aveva finito la frase. Ma queste e altre deposizioni, contraddittorie tra loro, anziché chiarire maggiormente l’affare non fecero che complicarlo. Anzi, le testimonianze degli amici delle due parti o dei loro nemici finirono con l’alterare le figure dei due protagonisti e spostare il dilemma dai limiti entro i quali doveva essere considerato.

Ettore, intanto, scriveva memoriali, lettere al giudice, ad alti funzionari del ministero degli esteri e perfino al conte Ciano. Più lo stato di segregazione durava e più il suo riserbo, il suo modo di fare naturalmente compassato veniva meno.

Con l’incriminazione di Ettore la sua figura, i suoi atteggiamenti, che fino a questo momento erano stati così avari di suggerimenti per definire la sua personalità, divennero in un certo senso più comprensibili. Si ha l’impressione, leggendo i suoi memoriali, che Ettore senta per la prima volta una specie di congiura della società contro di lui, e via via che prosegue, che i giorni di segregazione si sommano, il tono delle sue parole diventa sempre maggiormente angosciato, vi si sente tremare dentro la sua disperazione e talvolta i caratteri più riposti della sua intimità.

“È enorme”, esclama in uno di questi suoi sfoghi, “che si possa dubitare che io abbia ucciso mia moglie, io che l’ho amata, io che ho fatto un mondo di spese per lei, indebitandomi con mio padre di circa centomila lire, consumando tutti i miei risparmi per questo matrimonio, per mettere su la casa, per fare un lussuoso viaggio, per offrirle tutti i conforti. Io che l’ho onorata in morte affrontando anche spese eccessive, io che ho perduto, con la sua morte, anche i vantaggi economici della dote e della forte eredità che le sarebbe spettata alla morte del padre”.

In queste poche righe non si parla che di spese, di vantaggi economici, di risparmi, di dote e di eredità: tutta la sua vita triste, amara di sgobbone, di ragazzo sempre povero e di scolaro modello, sembrano risalire come un singhiozzo da queste esclamazioni. Queste sue parole ci riportano al significato della sua vita e sembrano riassumerla, a partire da quando i compagni, per dispetto al suo zelo di scolaro, lo chiamavano “fausson”, o quando trovandosi a Parigi per uno dei suoi viaggi d’istruzione e rimasto senza denaro, era diventato per non chiedere altro aiuto alla famiglia, l’accenditore dei fanali della Torre Eiffel. E il piccolo lampionaio di Parigi, diventato console di seconda classe a trentacinque anni e con l’incarico di grado superiore e la prospettiva di diventare ambasciatore, scopriva nell’agitata sincerità della sua disperazione la sua vera natura, il rancore per la sua vita e la sua carriera spezzata.

Erano frattanto passati cinque mesi dall’arresto e verso la fine di agosto giunsero i rapporti sul supplemento dell’inchiesta siamese che era stata richiesta dalla magistratura di Torino. Poiché Ettore dichiarava di non aver riconosciuto la natura del colpo che aveva udito, dal punto della stanza da bagno dove egli avrebbe dovuto trovarsi, venne eseguito un esperimento: tre funzionari della polizia siamese, Pombejara, il console Bovo e il console Perego, che sostituiva Umiltà a Bangkok, si recarono sul luogo dove era avvenuta la tragedia, esplodendo un colpo di pistola nel punto dove presumibilmente Vincenzina era stata colpita, mantenendo una volta chiuso il rubinetto della doccia e una volta lasciando che l’acqua scorresse. In entrambi i casi si udirono distintamente nella stanza da bagno i colpi sparati. Accluso a questo supplemento d’indagine c’erano le prime deposizioni dei boys e gli esami medico-legali del cadavere, le cui conclusioni non differivano molto dalla perizia Romanese-Busatto.

Fra tutte le deposizioni dei boys la più importante rimaneva quella di Nai Kia Hong, il primo cameriere. Erano sorte sul suo conto delle strane dicerie: il boy avrebbe omesso di raccontare alla polizia che, quando era giunto al piano superiore, egli era entrato nella camera della signora, l’aveva veduta tutta insanguinata che si lamentava, e che Ettore appena lo vide lo aveva scacciato. Ma queste voci non vennero confermate ed Ettore d’altra parte negò non soltanto quest’ultima circostanza, ma disse che non c’era da credere neppure alle deposizioni dei servi circa il numero dei colpi, perché evidentemente essi si confondevano o non dicevano il vero. E per provarlo raccontò un episodio occorso a lui personalmente: quando aveva assunto al suo servizio i boys aveva fatto loro giurare di essere tutti scapoli e Nai Kia Hong per garanzia aveva giurato per loro. Più tardi aveva saputo che, di sette, sei erano sposati e uno perfino bigamo.

Ma il consigliere Caccia non sembrava di questo parere e attribuiva invece una grande importanza alle deposizioni dei servi, le quali, sia pure con qualche contraddizione nei particolari, concordavano nell’insieme, ammettendo tre o quattro colpi sparati a distanza.

Alla fine di marzo del 1940, cioè sedici mesi dopo la morte di Vincenzina, Nai Kia Hong venne nuovamente interrogato dalle autorità siamesi e rese un’importante deposizione. Dopo aver smentito che Ettore lo avesse cacciato dalla camera matrimoniale mentre Vincenzina agonizzava, Hong dichiarò che trovandosi nell’anticamera alla sommità delle scale, mentre Ettore gli ordinava di correre alla ricerca di Bovo, aveva udito la signora che lo chiamava con queste parole: “Boy, boy!”

A questa nuova contestazione Ettore ribadì che Hong mentiva, oppure aveva frainteso: forse Vincenzina, lamentandosi, aveva gridato: “Ohi, ohi!”

Intanto i legali di Ettore avevano fatto eseguire una loro perizia dai professori Biondi e Moriani. I due professori dell’Università di Roma dichiararono che gli spari, contrariamente a quanto era stato ritenuto dai periti d’ufficio, dovevano considerarsi tre e non quattro, fondando il loro giudizio sulla possibilità che il proiettile, entrato per la ferita nella parte anteriore del collo, fosse uscito per la ferita in basso sul lato sinistro e fosse rientrato ancora nel collo a cagione di una piega della pelle determinata dal capo reclinato, provocando un’altra ferita che si trovava, come si ricorderà, un po’ più in alto sempre sul lato sinistro del collo. I consulenti della difesa dimostrarono, inoltre, che a loro giudizio la ferita alla nuca non poteva assolutamente considerarsi come il foro d’ingresso di un proiettile, perché i capelli intorno a quel foro non erano stati bruciacchiati dal colpo, e mancava l’alone lasciato in genere dallo sparo, l’infiltrazione sanguigna e le tracce di capelli in esso.

Ma la considerazione più importante era questa: il proiettile che si riteneva proveniente dal foro alla nuca si trovava infisso nella quinta vertebra cervicale, conclusione assurda, essendo le quattro vertebre sovrastanti ancora integre. Ma il perito d’ufficio al quale furono sottoposte queste obiezioni dichiarò, soprattutto in merito all’ultima che era la più importante, che Vincenzina al momento dello sparo avrebbe potuto trovarsi con il capo rovesciato all’indietro e quindi la ferita alla nuca doveva necessariamente provocare la frattura della seconda e terza vertebra. Furono considerazioni che ebbero un peso decisivo per il rinvio a giudizio di Ettore.

Dopo due anni di istruttoria il magistrato inquirente (il terzo che si alternava di fronte all’imputato) trasmise gli atti al procuratore generale della corte d’assise di Torino, quel dottor Quinto che sarà poi pubblico ministero nei due dibattimenti successivi contro Grande e diventerà il suo più severo e convinto accusatore. Il processo si svolse ai primi d’aprile nel 1941 ed ebbe scarsa risonanza perché i giornali, secondo le leggi di allora, non se ne poterono occupare.

I risultati delle perizie fatte dai professori Busatto e Romanese ebbero un peso determinante, la teoria della ferita alla nuca come foro di uscita non venne presa seriamente in considerazione. Si parlò di interferenze politiche, di pressioni che avrebbero sfavorevolmente influenzato la corte, ma nulla a questo proposito sembra accertato. Il procuratore generale, di fronte all’ostacolo di trovare un movente all’azione di Grande, disse che non lui ma Ettore stesso lo avrebbe dovuto spiegare.

L’ imputato, la sua famiglia, il suo passato non vennero certamente risparmiati, e si riudì nel dibattimento un’accusa che già vagamente circolava a Bangkok poco dopo la tragedia, che cioè Ettore fosse impotente o addirittura un invertito. Tra i motivi della sentenza si legge che grande peso, nella decisione della corte di escludere l’ipotesi del suicidio, aveva avuto la mancanza di qualunque scritto di Vincenzina che alludesse alla sua intenzione di sopprimersi.

Ettore venne così condannato, l’undici aprile, a ventiquattro anni di reclusione per uxoricidio.

Erano ormai trentasei mesi che si trovava in prigione, ma dopo il primo periodo di segregazione durante l’istruttoria, aveva potuto avere l’incarico di bibliotecario delle carceri e ventidue lire al mese di stipendio. Da quel momento, però, Ettore si trasformava in un prigioniero qualsiasi, cessava di essere il dottor Grande e diventava un numero. Tuttavia la sua serenità non venne meno: confidava nel ricorso in appello presentato dai suoi legali e continuava a dichiararsi innocente. La guerra intanto cominciava proprio allora a farsi sentire e il caso Grande venne rapidamente dimenticato.

Ettore rimase a Torino alle carceri Nuove fino al 1942, sperando sempre meno che la Cassazione potesse presto prendere in esame il proprio ricorso. A causa dei bombardamenti i prigionieri delle Nuove vennero smistati, e grande fu assegnato alla casa di pena di Fossano. Qui, dopo un primo periodo tristissimo, venne reintegrato nelle sue mansioni presso la biblioteca; poi, nel ’43, cominciò un periodo avventuroso. Diede la sua opera alla Resistenza favorendo l’evasione di prigionieri politici e di partigiani; contemporaneamente, per la sua conoscenza del tedesco, fu di prezioso aiuto per i dirigenti della casa durante i frequenti contrasti con le autorità germaniche. Ettore riuscì sovente a risolvere situazioni delicate e difficili, ponendosi a contatto direttamente coi tedeschi che ignoravano la sua condizione di prigioniero.

Nel ’44, in occasione di invasione armata, tutti i prigionieri furono liberati e nella casa di pena rimasero solamente in sei: quattro che erano dimenticati nei cubicoli di segregazione, uno paralitico e lo stesso Grande, che pur avendolo potuto si era rifiutato di evadere. Fu questo forse il periodo più sereno della sua detenzione, perché gli faceva quasi dimenticare la tragedia di cui era stato protagonista, poi, a liberazione avvenuta, ricominciò a sperare nell’immediato svolgimento del secondo processo.

Infatti fin dal 1943 la corte di Cassazione aveva annullato la sentenza di Torino e rinviato l’imputato a nuovo giudizio.

Il processo venne fissato a Novara per i primi d’ottobre del 1946. In una delle sue ultime lettere alla famiglia egli scrive: “Ho contato le settimane che ancora mi dividevano dal processo, da un po’ di tempo i qua conto i giorni e adesso sommo le ore, ho una tabella tutta quadrettata dove ogni ora corrisponde a un quadretto: devo ancora riempirne duecentoquaranta e poi mi toccherà l’estremo affronto di sedere per la seconda volta sul banco degli accusati”.


Inchiesta di Enrico Roda da “Oggi” 1949



IL MISTERO DI ETTORE GRANDE - V


Primo episodio
Secondo episodio
Terzo episodio
Quarto episodio
Sesto episodio
Settimo episodio
Ottavo episodio
Conclusione


Il giorno stesso della tragedia la polizia siamese avrebbe voluto, come si è detto, interrogare Ettore Grande. 

Il maggiore Pombejara aveva riferito che il diplomatico “rispondeva alle volte in inglese, alle volte in francese, alle domande delle autorità” per indicare probabilmente lo stato di agitazione in cui Ettore si trovava. 

L’interrogatorio venne perciò rimandato e per quel giorno si udirono le deposizioni dei boys, prima di tutti Nai Kia Hong, il quale era considerato una specie di primo cameriere. Nai Kia Hong stava occupandosi della pulizia del piano terreno quando, verso le sette del mattino, aveva udito due colpi provenire dalla camera superiore: “Bang, bang” aveva precisato, tuttavia non si era arrischiato a salire perché l’accesso all’appartamento del padrone era proibito ai boys a meno che non ne avessero ricevuto l’ordine.

Nai Kia Hong era rimasto a guardare in su per qualche minuto, finché Ettore lo aveva chiamato. Ettore era in pigiama, non piangeva e appena vide il servo gli ordinò di correre in cerca del console Bovo e del medico tedesco. Hong non aveva veduto alcuna arma nelle mani del padrone, né avrebbe potuto dire se il pigiama che indossava era schizzato di sangue.

Aveva immediatamente disceso le scale e all’angolo della casa si era imbattuto in una donna siamese, moglie di un impiegato alla legazione, che faceva la lavandaia. Passando, le aveva gridato che la signora si era sparata, poi era uscito correndo a cercare Bovo, il quale abitava al circolo britannico.

Nai Kia Hong non era stato il solo a udire gli spari. La lavandaia, mentre compiva il breve tratto di strada tra la fermata dell’omnibus e il cancello della villa, aveva udito una detonazione. A confermare queste deposizioni si aggiungeva anche quella dell’uomo di fatica, un cinese di nome Nay Fuyang, che anch’egli si trovava al piano terreno quando erano stati esplosi i primi due colpi. La lavandaia, l’uomo di fatica e un terzo boy si riunirono nel giardino e rimasero insieme a far congetture su quanto poteva essere accaduto, forse per cinque, forse per dieci minuti; quindi echeggiarono due nuove detonazioni, che furono udite dai tre testimoni riuniti.

Così la polizia siamese, prima ancora di interrogare Ettore, era a conoscenza di queste circostanze che, per chiarezza, possono essere riassunte così: il primo boy e l’uomo di fatica percepiscono due detonazioni; a sua volta e presumibilmente nello stesso istante, la lavandaia ne percepisce una sola (trovandosi a pochi metri dall’omnibus si potrebbe pensare che una delle due sia stata sommersa dal fracasso del motore). Circa dieci minuti dopo echeggiano due nuovi colpi e questa volta le deposizioni risultano concordi, li hanno uditi la lavandaia, l’uomo di fatica e il terzo boy sopraggiunto.

In definitiva, l’unico testimone che potesse affermare di aver udito a distanza quattro detonazioni era Nay Fuyang, il facchino. Costui aveva però dichiarato di non essere in grado di contare né le ore né i minuti; riferì inoltre che poco prima dell’arrivo della polizia il dottor Gotschlich gli aveva ordinato di lavare il pavimento in mezzo ai due letti, e si spiegava così la presenza degli stracci inzuppati di sangue rinvenuti nello spogliatoio di Ettore.

Quando Ettore venne interrogato non fece cenno al terzo colpo che, come aveva riferito al dottor Gotschlich, gli era sembrato di udire; tuttavia, sebbene tra le sue dichiarazioni e quelle dei boys esistesse un evidente contrasto, la polizia siamese non gli fece alcuna contestazione. Fu anzi Ettore stesso a domandare spiegazione delle voci che già incominciavano a circolare nella colonia europea sulla morte di sua moglie, voci che erano state persino riferite da un giornale locale.

Pombejara gli aveva risposto che non se ne desse pensiero, che la polizia siamese sapeva in quale considerazione avrebbero dovuto essere tenute le chiacchiere dei cinesi e quelle dei giornali. Ma Pombejara non doveva dire la verità, come dimostra il rapporto conclusivo sull’inchiesta dove si afferma che “stante la dichiarazione dei testimoni la conclusione potrebbe non essere quella di suicidio”, e che comunque ci si rimetteva “alla considerazione dei superiori”.

Chiusa l’inchiesta, le opinioni, fra i membri della colonia europea di Bangkok, continuavano a rimanere discordi: la faccenda dei tre o più colpi era divenuta di dominio pubblico e la morte della signora Grande l’argomento del giorno. Si diceva che la salma di Vincenzina, appena conclusa l’inchiesta sommaria della polizia, era rimasta sola nel bungalow abbandonato, affidata esclusivamente alle cure del console Bovo il quale, per la vestizione, era ricorso all’aiuto dei due medici che avevano imbalsamato il cadavere.

Il funerale era avvenuto il giorno seguente, parve con una certa precipitazione, e si era potuto ottenere l’autorizzazione per le esequie religiose solo mediante la dichiarazione che Vincenzina aveva agito in uno stato di esaltazione mentale.

Ettore intanto viveva alla legazione, ospite del ministro. Al dottor Gandini, che era stato a trovarlo, disse: “Non era la Nina che potesse compiere un simile gesto, in quel momento non era lei”. Sembrava prostrato e Umiltà, scrivendo al padre di Grande, diceva: “Cerchiamo di tenere Ettore più calmo possibile”.

Nei giorni seguenti il ministro cercò di sapere qualcosa di più sulle ragioni che avrebbero potuto indurre Vincenzina al suicidio. Giunse anche a chiedergli, un po’ rudemente, se in fondo a quella nostalgia tanto ostinata per Torino, per le sue strade, per i suoi monumenti, non ci fosse stato “un paio di pantaloni”. Ma Ettore rispose che per quanto ne sapeva lui non gli pareva probabile e, del resto, non era disposto a pensarlo.

A Torino, intanto, la famiglia Virando aveva dato l’annuncio della morte di Nina “per una caduta da cavallo”, versione che era stata concordata con la famiglia dello sposo. Il fratello Nino, poi, premeva per partire: avrebbe voluto servirsi dell’aereo per giungere più presto, ma venne soprattutto dissuaso dal padre Grande, il quale manifestò anche la sua disapprovazione al successivo progetto di un viaggio della famiglia Virando a Bangkok, che giudicava inutile e disagevole.

Il padre di Ettore era senza dubbio in buona fede, ma questo suo atteggiamento fu in seguito giudicato sospetto per le circostanze che seguirono. È questa una delle prove, tra le tante, della tendenza da ambo le parti di interpretare ogni minimo particolare a favore della propria tesi, rendendo il compito ancora più difficile a chi tenta, in questa strana storia, di separare il vero dal falso.

I Virando partirono il 7 dicembre, imbarcandosi sul Conte Rosso. Giunti a Singapore una sorpresa li attendeva: al pontile di sbarco si trovava Ettore che, dopo averli abbracciati, esclamò: “La Nina è qui”.

Fu una frase infelice perché riaccese per un istante la speranza nell’animo dei Virando, speranza assurda ma abbastanza comprensibile, del resto Nina era veramente lì, le sue spoglie per lo meno, perché Ettore aveva lasciato Bangkok con il triste bagaglio senza attendere l’arrivo del cognato e dei suoceri. Si era disfatto della casa, dei servi che aveva licenziato senza una lira di mancia, e di una parte dei mobili. Aveva esaurito tutte le complicate formalità per il passaggio nei vari stati malesi del corpo della moglie, e aveva disposto le cose in modo di raggiungere Singapore in tempo per partire con il Conte Biancamano.

L’incontro con i congiunti di Nina era avvenuto il giorno 24; Ettore aveva ricevuto l’anuncio del loro arrivo soltanto il giorno 16, per mezzo di una lettera di suo padre, quando oramai aveva già tutto prenotato per la partenza. Ai suoceri egli aveva spiegato che il suo ritorno era improrogabile dovendo partecipare a Roma a un concorso; inoltre non aveva voluto abusare dell’ospitalità del ministro, e finalmente Bangkok, col peso dei suoi ricordi, gli era divenuta ormai intollerabile. Ma queste spiegazioni non erano destinate a persuadere i Virando, anzi non fecero che rinsaldarli nei loro propositi.

Ettore non lo capì e si oppose al viaggio a Bangkok: aveva già acquistato i biglietti per il ritorno, era difficile ottenere una proroga di soggiorno per il feretro, depositato in una sala del consolato italiano. La villa era stata affittata, le cause della morte erano state fornite ripetutamente da lui, a che scopo rinnovare un inutile dolore?

Furono forse questi ragionamenti a fornire i primi sospetti. Nino e sua madre, lasciati Ettore e il padre Virando a Singapore, partirono per Bangkok dove si fermarono meno di due giorni. Qui tuttavia ebbero modo di parlare con quasi tutti gli italiani residenti nella capitale. Ettore aveva loro raccomandato di affidarsi alla legazione italiana, di trascurare i civili e di diffidare specialmente di qualche persona da lui indicata: istintivamente di Virando fecero tutto il contrario, evitarono gli Umiltà, il console Bovo e preferirono ascoltare le voci che a Bangkok circolavano sulla morte della Nina.

Il bungalow era stato affittato da Ettore al console Bovo che era in procinto di andarlo ad abitare, ma per il momento era vuoto. Nino fece un sopralluogo nella camera matrimoniale, calcolò la distanza tra la doccia e il letto di Vincenzina che era circa di dieci metri; riportò inoltre negli ambienti ufficiali una sensazione indefinibile di insincerità, contro la quale gli sembrava di urtare, quasi che intorno a lui esistesse una specie di congiura per nascondergli la verità.

Gli parve perfino che i suoi colloqui con gli italiani estranei alla legazione fossero sorvegliati, e in questo stato di diffidenza venne in realtà mantenuto da alcuni connazionali: gli dissero che, essendo il fatto accaduto alle sette, la polizia era intervenuta solamente dopo le nove, si accusava il console Bovo di aver voluto nascondere la verità per evitare uno scandalo e di aver raccontato a tutti che Vincenzina si era uccisa con un solo colpo di pistola. Quanto al contegno di Ettore c’era perfino chi assicurava che al funerale non aveva dimostrato alcuna commozione.

Finalmente, oltre alle dicerie, Nino fece una scoperta cui fin d’allora attribuì una grande importanza. In una delle ultime lettere alla famiglia Vincenzina diceva: “Ho scritto a Nino, abita bene vicino a Ebe?”. Ebe era il nome di una cugina dei Virando che risiedeva all’appartamento che Nino aveva affittato nel periodo successivo al matrimonio della sorella. Ma questa lettera non gli era mai pervenuta. Ora, la signora Umiltà gli aveva fatto cenno di uno scritto di sua sorella indirizzato a lui e rimasto incompiuto, che Ettore, il giorno della tragedia, le aveva mostrato. La signora Umiltà assicurò anzi di averne preso visione ma che non conteneva nulla di importante.

Che la lettera non pervenuta e quest’altra neppure spedita fossero da identificarsi era possibile, ma poco probabile. La Nina, infatti, aveva detto “Ho scritto” e il riferimento a Ebe sembrava fatto per assicurarsi di non aver sbagliato indirizzo.

Nino Virando attribuiva molta importanza a queste lettere che egli non aveva ricevuto. Doveva ricordarsi, probabilmente, della promessa fattagli in privato da sua sorella prima di partire, e cioè che se qualche ragione di scontento ci fosse stata nei riguardi della sua nuova vita, ella non avrebbe esitato di avvertirlo; in particolare, egli aveva rilevato che, prima d’allora, la Nina non aveva mai pensato di scrivergli personalmente, il che dava una forza maggiore ai suoi sospetti. Per quanto riguardava, invece, la lettera rimasta incompleta cui aveva fatto cenno la signora Umiltà, Nino ne parlò a suo cognato appena di ritorno a Singapore. Ettore promise che l’avrebbe cercata, ma poi disse che si doveva essere smarrita nel trasloco.

Così le diffidenze, a Singapore, si tramutarono in sospetti, e per quanto i Virando fossero d’accordo nel volerli nascondere a Ettore fino al loro ritorno in Italia, qualche episodio dovette sembrargli significativo.

Una volta, infatti, il vecchio Virando esclamò: “Niente ci dimostra che là dentro (nel feretro) si trovi la Nina”. “Come”, domandò Ettore stupefatto, “ne dubitate?”. I Virando non risposero e l’incidente parve chiuso. Ma intanto da Singapore essi avevano scritto ad una cugina perché chiedesse l’autopsia del cadavere. Il 27 gennaio 1939 approdarono a Venezia: quattro giorni dopo l’autorità giudiziaria concesse il permesso dell’autopsia.

Ettore, nel frattempo, per quanto i termini del concorso a cui doveva partecipare fossero ormai scaduti, si era recato a Roma. Ottenne un congedo e si recò a Torino in casa di suo padre; tra le due famiglie, intanto, i rapporti non erano cessati completamente e i primi ripicchi, le prime manifestazioni di quello che stava per avvenire si ebbero a proposito di alcune pendenze legali.

Secondo il patto di reversibilità della dote, tutta la somma avrebbe dovuto essere immediatamente restituita ai Virando, ma il professore Grande, per far fronte alle spese sostenute per il matrimonio, era stato costretto a utilizzare anche i buoni di rendita del mese di gennaio, di cui i Virando pretendevano la restituzione. Si faceva anche colpa al professore di aver richiesto al notaio dei Virando, pochi giorni dopo la morte di Vincenzina, una copia dell’atto dotale e di avergli domandato se suo figli “avrebbe ereditato qualcosa”.

Ma si tratta più che altro di malintesi, creati da un’atmosfera di diffidenza che ogni giorno si accentuava.

Ettore non aveva opposto una seria resistenza a che venisse praticata l’autopsia del cadavere: si era mostrato più che altro stupito. Mostrò poi, in seguito, di non attribuirvi grande importanza, e un giorno, mentre stava parlando al telefono con la suocera, vi aveva alluso leggermente, dicendo: “Ma cosa fanno questi medici, un capolavoro?”

La rottura definitiva avvenne solamente allorquando i Virando chiesero a Ettore la restituzione dei regali di nozze. Fu l’unica volta, riferisce un testimone, che il diplomatico apparve indignato.

I risultati dell’autopsia, che era stata eseguita dai professori Busatto e Romanese dell’università di Torino, si presentarono in contrasto con le precedenti dichiarazioni del dottor Gotschlich. Il medico tedesco, quando era stato interrogato dalla polizia siamese, aveva dichiarato di essersi limitato a visitare la parte anteriore del cadavere, di avere veduto anche la parte posteriore ma di non aver rilevato la ferita alla nuca a causa dei capelli, che erano tutti intrisi di sangue. Ora, la perizia di Torino rivelava, invece, che le ferite distribuite attorno al collo di Vincenzina erano sei, e così disposte: una ferita al lato destro del collo; una alla parte anteriore e una al lato sinistro in alto; un’altra, sempre al lato sinistro del collo ma un po’ più in basso. Finalmente una ferita al mento e una alla nuca.

Da questo totale di sei ferite i periti traevano la conclusione, secondo la direzione dei proiettili, che gli spari erano stati quattro, e precisamente: un proiettile entrato dalla ferita che si trovava al lato destro del collo e usciva dal lato sinistro dello stesso; un altro entrato dalla parte anteriore del collo e uscito dalla ferita situata un poco più in basso dell’altro; le altre due ferite, al mento e alla nuca, erano a fondo cieco, e cioè i proiettili erano ancora conficcati nel cadavere.

Dala ferita al mento il proiettile, attraverso la lingua e il palato, era andato a spezzare il midollo spinale, producendo istantaneamente una lesione mortale. Quanto alla ferita alla nuca, verosimilmente doveva trattarsi dell’ultima, a causa dello scarso arrossamento dei tessuti, come avviene di solito quando la lesione è riportata durante l’agonia.

Questi rilievi facevano naturalmente scartare l’ipotesi del suicidio e avvaloravano, al contrario, quella dell’omicidio, a cui faceva pensare anche il numero dei colpi sparati in direzioni diverse e in parti insolite per i suicidi, l’impossibilità per Vincenzina di potersi sparare un colpo alla nuca dalla parte sinistra, non essendo mancina.

Rimanevano così due sole soluzioni possibili: che Vincenzina fosse stata uccisa da suo marito oppure da una terza persona; ma quest’ultima eventualità non venne mai presa in considerazione seriamente né dalla polizia siamese né dalla magistratura di Torino. Prima di tutto Ettore stesso l’aveva sempre escluso, in secondo luogo bisognava ammettere che l’assassino conoscesse il luogo dove si trovava la rivoltella e spiegasse perché si era servito di essa. D’altra parte il bungalow di Bangkok si trovava in mezzo a un prato, i muri della villa erano lisci e di difficile scalata, e nessun estraneo era stato notato dai servi che si trovavano in giardino; inoltre non si trovavano tracce di furto o di scasso.

Così si ritenne che ci fossero elementi sufficienti per ammettere l’uxoricidio.

Emesso un mandato di cattura contro Ettore, la casa del professor Grande venne piantonata da cinque poliziotti che salirono e invitarono Ettore a un colloquio col segretario del prefetto. Il diplomatico venne invece tradotto in questura, dove gli fu comunicato l’ordine di arresto, e di lì condotto alle Nuove. Grande scrisse un messaggio alla famiglia, nel quale diceva che non avrebbe voluto rimanere “più di un’ora in quel luogo”. Ci rimase invece sette anni.

Era il 7 aprile 1939.

Inchiesta di Enrico Roda da “Oggi” 1949