mercoledì 27 febbraio 2019

I FRATI ESTORSORI


IL DIAVOLO CON LA TONACA IN PROVINCIA DI CALTANISSETTA


Articolo di Salvatore Brancati da “Oggi” n. 9 del 3 marzo 1960





“L’Italia con San Francesco ha dato il più santo dei santi al Cristianesimo e all’umanità”.



Leggevamo queste parole scritte sul muro di calce con mano incerta durante il periodo fascista, mentre attendevamo a Mazzarino che qualcuno venisse ad aprire la vecchia porta del convento dei Cappuccini.


Bussammo ancora e i rintocchi della vecchia campana, un po’ sordi, si confusero col rumore dei chiavistelli che il famulo si apprestava a togliere. I suoi occhi, quando videro il flash che il fotografo aveva portato con sé, ebbero un lampo e divennero cattivi. L’uomo, alto poco più di un pigmeo, dalle braccia tozze e corte, dal viso rude di contadino incorniciato da una barba riccia e nera, ci ricacciò indietro e ci sbatté in faccia la porta. Solo più tardi, in seguito alle nostre insistenze, ci fu possibile entrare e parlare col padre provinciale.


Che cosa era successo in realtà fra le mura del vecchio convento?


Occorre riassumere brevemente i fatti. Poco dopo le 21 del 16 febbraio, un funzionario della squadra mobile di Caltanissetta, accompagnato da alcuni agenti e da un militare della polizia giudiziaria dei carabinieri, bussò al convento dei cappuccini. Sulla strada che unisce la campagna al piccolo paese, sostava una camionetta. Il commissario aveva quattro mandati di cattura da eseguire, spiccati tutti dal giudice istruttore del tribunale di Caltanissetta.


Superando il disagio, proprio del singolare arresto, il funzionario di polizia parlò chiaro. Disse di avere scelto quell’ora tarda perché nessuno vedesse i quattro frati, tra cui il padre guardiano del convento, salire sulla camionetta per essere tradotti al carcere di Malaspina. L’accusa, sebbene non abbia trovato ancora, per l’istruttoria in corso, una sua precisa rubricazione, tuttavia non lasciava posto ad equivoci: estorsioni, lettere minatorie, omicidio, ferimenti. Non che i quattro monaci ne fossero materialmente gli autori, ma secondo la polizia avevano gravi responsabilità in ordine a questi reati.


Padre Vittorio, guardiano del monastero (al secolo Ugo Bonvissuto, di 40 anni, da Gela), frate Carmelo (Luigi Galizia, di 81 anni, da Mazzarino), frate Agrippino (Antonio Ialuna, di 35 anni, da Mineo) e frate Benanzio (Liborio Marotta, di 36 anni, da Mazzarino), annodarono il rosario al cordiglio, presero il breviario e si avviarono fra i poliziotti.


Alla fioca luce di una lampada ad olio, che ardeva ai lati dell’altar maggiore, gli altri monaci trascorsero tutta la notte in chiesa, pregando per i fratelli dinanzi ai quali si spalancava la porta di una cella ben diversa da quella per cui essi, rinunciando al mondo, avevano indossato il saio.


Tutto aveva avuto inizio alle 19 del 5 novembre 1956. I frati studiavano nelle loro celle. Nel silenzio che avvolgeva la vecchia abbazia, frate Agrippino, diplomato a Roma in dogmatica, sentì dei passi venire dal corridoio. La porta della sua cella era socchiusa. “Chi è?”, chiese il religioso, turbato per l’inconsueto rumore in un’ora dedicata alla meditazione. Ma la sua voce non ebbe risposta e lo scalpiccio si fece più distinto ed affrettato. Il frate ripeté la domanda e, allarmato per il persistente silenzio, si alzò per uscire sul corridoio. Ma proprio in quel momento, le canne di una doppietta si inserirono nello spiraglio tra la porta e lo stipite, rimanendovi incastrate per la pressione che il cappuccino fece sulla porta stessa. 



L’uomo, che dall’esterno teneva l’arma, lasciò partire due colpi che andarono a conficcarsi nel muro, vicino al tavolo presso il quale il frate studiava; poi ritirò l’arma e fuggì.


Quando frate Agrippino si riebbe dallo spavento, si trovò circondato dagli altri monaci accorsi agli spari. Qualcuno andò al telefono per informare i carabinieri dell’accaduto, ma il filo risultò tagliato, ed i militi giunsero quando fu possibile avvertirli con un biglietto, poiché nessuno trovò il coraggio sufficiente per attraversare a quell’ora la buia e solitaria strada di campagna.


Qualche giorno dopo Carmelo Lo Bartolo, un uomo sulla cinquantina, nativo del luogo, e che da circa dieci anni coltivava l’orto del convento e godeva della fiducia dei cappuccini, si avvicinò a frate Agrippino e gli disse di avere saputo da alcuni banditi, confidenzialmente, che i due colpi di fucile erano diretti contro frate Agatino, un altro membro della comunità. “È mala gente”, aggiunse l’ortolano, “disposta a tutto. Sono molti e vogliono qualcosa… almeno per le sigarette”.


“Posso dare duemila lire”, rispose il cappuccino mettendo la mano in tasca.

“No… non si contentano di così poco. Ce ne vogliono almeno settantamila”.

“E io dove le prendo?” fece preoccupato il religioso, sapendo che tutto il denaro liquido del monastero nasceva dalle elemosine di una zona tutt’altro che ricca.

“Bisogna trovarle”, sentenziò l’ortolano allontanandosi, “perché è gente che non perdona”.


Lo stesso discorso fu fatto ad altri frati e tutti, chiedendo alle proprie famiglie e arrangiandosi alla meglio, cominciarono a versare in varie riprese nelle mani dell’astuto Lo Bartolo somme di denaro per l’ammontare complessivo di oltre un milione di lire. Ma il lestofante, che con la complicità di altri malfattori era riuscito a mettere i frati in uno stato di autentico terrore, non era uomo da accontentarsi. E un giorno, sempre dicendo ai cappuccini di essere stato avvicinato dai banditi, riferì che gli stessi avevano manifestato l’intenzione di estorcere del denaro a un medico del luogo, il dottor Ernesto Colajanni, proprietario di una farmacia gestita dalla moglie. “È desiderio della banda”, aggiunse Lo Bartolo, “che due monaci si rechino dal dottor Colajanni e si facciano consegnare due milioni in biglietti da diecimila lire. Fate attenzione e dite al medico che, se non pagherà subito, la banda rapirà il suo bambino”.

Il denaro, poi, dalle mani dei frati sarebbe passato in quelle dell’ortolano, il quale avrebbe provveduto a consegnarlo ai banditi. I religiosi stettero molti giorni in uno stato d’animo angoscioso, ma l’ortolano, che aveva capito la loro debolezza, incalzava con continue minacce e alla fine frate Agrippino e un altro si recarono in casa del dottor Colajanni, che ascoltò ogni cosa senza troppo scomporsi. Era il 2 marzo del 1957. Quindici giorni dopo, nottetempo, un incendio fu appiccato alla farmacia del dottore, che attribuì il gesto a qualche pazzo.


“Soltanto la mattina dopo”, ci ha raccontato l’anziano farmacista, accanto al quale era la moglie, “quando tornarono i monaci per dirmi che si era trattato di una rappresaglia dei banditi, decisi, per non correre altri rischi, di anticipare un milione”.

“Eravamo certi”, prosegue il dottor Colajanni, “eravamo certi che i banditi ci avrebbero lasciati in pace: ma non fu così. Esattamente un anno dopo tornarono alla carica con una lettera nella quale era scritto “di consegnare a chi lei sa” il denaro richiesto. Fummo proprio noi stavolta a chiamare i frati, ai quali consegnammo mezzo milione. Dopo circa dieci giorni mi giunse un’altra lettera, nella quale era scritto che se volevo vivere tranquillo dovevo saldare il conto. E fu così che, proprio nel giorno di giovedì santo dell’anno scorso, consegnai ai cappuccini altre cinquecentomila lire. La vicenda, che è durata due anni, durante i quali ci è parso di vivere come in un incubo, certo non sarebbe finita se tutto non fosse stato scoperto dalla polizia”.


“A mio parere i frati”, ha proseguito Colajanni, “sono stati delle vittime. Ebbero paura di ribellarsi al Lo Bartolo che li teneva ormai in soggezione. Del resto anche noi avevamo paura e mai tentammo di ribellarci. Segnammo soltanto la serie dei biglietti da diecimila lire che fummo costretti a sborsare, ma nessuna indagine venne fatta perché noi non denunciammo mai la cosa ai carabinieri, non avendo alcuna fiducia nel maresciallo dell’epoca”.


Ma l’attenzione dei banditi non si era polarizzata tutta sul dottor Colajanni. Le lettere, contenenti gravi minacce se non fossero state soddisfatte le richieste di danaro, cominciarono a pervenire pure al ricco possidente Angelo Cannata, che anch’egli sul principio non vi dette alcun peso.


Un giorno che, insieme alla moglie e al figliolo, viaggiando sulla propria automobile, Angelo Cannata tornava in paese dalla campagna, trovò la strada sbarrata. L’auto si arrestò ed improvvisamente comparvero alcuni uomini mascherati i quali, trascinato a viva forza il possidente nei pressi di un ulivo saraceno, lo uccisero sotto gli occhi atterriti dei congiunti, costretti ad assistere impotenti all’esecuzione.


Dopo tale episodio, che la gente ricorda ancora con raccapriccio, nessuno a Mazzarino osò più sfidare la gang, ed il “lavoro” per i frati crebbe notevolmente. Lo Bartolo aveva infatti “agganciato” alcuni monaci fino a costituire quel quartetto di cui frate Agrippino era stato il primo strumento ed involontario correo dei banditi. E perché le richieste venissero evase con prontezza non si mancò di uccidere qualche bovino o di bruciare del frumento per rappresaglia.


A concludere la losca attività degli ignoti malviventi doveva essere, inconsapevolmente, la guardia giurata Giovanni Stuppia, ferita da un colpo di fucile per aver fatto qualche confidenza ai carabinieri.


Dopo quest’ultimo episodio di sangue subito collegato all’uccisione del possidente Cannata e ad altri crimini, pubblica sicurezza e carabinieri di Caltanissetta presero in mano le redini dell’indagine e in poco tempo i pesci caddero nella rete. L’ortolano dei frati, vistosi in difficoltà, decise di tagliare la corda e di rifugiarsi presso un cognato a Genova, dove poi venne tratto in arresto.


“È una povera vittima anche lui”, dicevano i monaci, che si convinsero della diabolica doppiezza di Carmelo Lo Bartolo soltanto dopo che il criminale si tolse la vita, impiccandosi nel carcere di Malaspina. A tutti il vecchio ortolano era riuscito a far credere che la banda (pochi miserabili che non è il caso di ricordare) avrebbe distrutto il convento se i frati non si fossero prestati a far da intermediari. Un giorno, la comunità religiosa stava festeggiando il venticinquesimo di sacerdozio di un confratello. C’erano molti invitati; a un tratto, trafelato, venne il Lo Bartolo a dire sottovoce al padre guardiano che la banda aveva circondato il convento, pronta a uccidere tutti se non si versavano subito dei soldi. “Non abbiamo niente in questo momento”, disse sgomento padre Vittorio e l’ortolano, che sapeva come spesso le casse del convento fossero vuote, rispose: “Non aprite le finestre e state calmi… vado io a convincerli, perché vogliono far saltare in aria l’altar maggiore e distruggere il monastero”.


Il vecchio ortolano aveva le chiavi del convento e questo spiega perché in fondo a un pozzo sono state trovate alcune armi, che probabilmente appartengono ai banditi. Né deve meravigliare il fatto che le lettere d’estorsione siano state scritte con la macchina dei frati, dal momento che il Lo Bartolo aveva facoltà di entrare dovunque, essendo considerato alla pari di qualunque altro membro della comunità religiosa.


Che oltre agli altri difetti, il maresciallo dei carabinieri dell’epoca fosse anche un po’ pavido, lo conferma il provinciale dei cappuccini, che nella forzata assenza del padre guardiano regge adesso le sorti del convento. Nella sua stanzetta disadorna, il religioso ammette tuttavia che ai quattro frati incriminati ha fatto difetto il coraggio. Ma subito aggiunge: “Anche nel nostro ambiente, talvolta, qualcuno può sbagliare. I quattro fratelli che si trovano in carcere hanno avuto paura di esporsi, poiché bastava denunciare qualcosa ai carabinieri per essere colpiti dalla vendetta dei banditi, assai prima che le forze della legge ci potessero proteggere. D’altra parte, perché non hanno reagito il farmacista Colajanni e il possidente Cannata? I frati sono stati i primi a pagare… oltre un milione hanno versato al Lo Bartolo in poco meno di un anno”.

“Complici?”. E come per dare una risposta a sé stesso il provinciale prosegue: “Ma si è mai visto un complice cooperare nei misfatti senza tenere di vista il proprio utile? Oh, certo, essi dovevano denunciare tutto. Ma una volta denunciammo due colpi di fucile sparati contro la cella di un frate. Ebbene, che cosa fece la giustizia? Ecco perché i nostri fratelli hanno accettato tutto con rassegnazione: per non assumersi la responsabilità delle vendette dei banditi. La loro colpa principale rimane in fondo un atto di carità cristiana”.


A carico dei quattro sacerdoti l’autorità ecclesiastica non ha preso per ora alcun provvedimento ed essi celebrano ogni mattina nella cappella del carcere.


L’attesa per la conclusione dell’istruttoria è vivissima e la gente, pur ammettendo l’innocenza dei frati, tuttavia non riesce a non pensare a quel fra’ Cristoforo del Manzoni che fu ben altro campione di nobiltà e di coraggio, mentre i monaci di Mazzarino hanno soltanto offerto un pietoso spettacolo di umana vigliaccheria, più grave (per rimanere in termini manzoniani) di quella del povero Don Abbondio.

venerdì 22 febbraio 2019

L'ALTRA FIGLIA DELLO ZAR



LA PRIMOGENITA DELLO ZAR RISUSCITA SUL LAGO DI COMO?


Articolo di Mariagrazia Cucco da “Oggi” n. 7 del 18 febbraio 1960




Chi è la misteriosa signora che vive a Menaggio in una piccola villa vicino al lago, sulla strada che conduce a Nobiallo? Non è alta ma ha il portamento maestoso, veste alla russa con lunghe giacche e cappelli simili a colbacchi, si circonda di una piccola corte, fa sfoggio, a volte, di bracciali e spille che recano impressa una minuscola corona imperiale. Due cani lupo dall’aspetto inquietante difendono la sua casa dagli estranei e chi si avvicina al cancello del giardino viene accolto da latrati rabbiosi che si prolungano sin che sulla soglia non appare uno di casa.



Sui documenti di viaggio della signora, nei registri del comune, figura il nome di Marga Boodts, ma la signora dice – e con lei lo ripetono alcuni amici fedeli – che gliene spetta uno assai più suggestivo: Olga Romanov. Ella, infatti, afferma di essere la figlia primogenita dell’ultimo zar di Russia Nicola II e della zarina Alessandra, prodigiosamente sfuggita al massacro di Ekaterinburg nella notte tra il 16 e il 17 luglio del 1918.



Non è da oggi che Marga Boodts rivendica il titolo di discendente dello zar. A Menaggio e nei paesi vicini si parla comunemente di lei come della “granduchessa Olga” e già negli anni passati giornali e riviste ebbero modo di interessarsi del suo caso.

Perché torna oggi alla ribalta il suo nome? E perché proprio ora Marga Boodts si dichiara decisa ad andare in fondo per ottenere il riconoscimento della sua identità? Il motivo è semplice: la signora ha saputo che il tribunale di Amburgo si dispone a dire una parola definitiva sull’intricata vicenda di cui è protagonista Anna Anderson, la donna che da quasi quarant’anni va proclamando di essere la granduchessa Anastasia, terzogenita dello zar.

“Ho taciuto fino ad ora”, dichiara in questi giorni Marga Boodts, “ma davanti al pericolo che un’avventuriera abbia successo nel tentativo di farsi passare come una mia sorella, voglio dire chiaro e forte che solo io, Olga Nicolajevna, sono sopravvissuta alla strage di Ekaterinburg”.

Di questo avvenimento, com’è noto, esiste una versione ufficiale, universalmente accettata, secondo la quale l’esecuzione della famiglia imperiale sarebbe stata eseguita per iniziativa degli agenti della Ceka che avevano in custodia i Romanov. Nel luglio del 1918 Ekaterinburg, una cittadina degli Urali che oggi ha cambiato il nome in quello di Sverdlovsk, stava per essere raggiunta e conquistata dall’armata dei russi bianchi al comando dell’ammiraglio Kolciak. Temendo che i bianchi, fedeli alla causa monarchica, potessero liberare lo zar e la sua famiglia, Yurowski, commissario della Ceka, si assunse la responsabilità di ordinarne l’immediato sterminio. Lo zar, la zarina, le quattro granduchesse e il piccolo zarevic Alessio vennero condotti nella cantina della casa in cui abitavano e qui furono trucidati a colpi d’arma da fuoco e di baionetta. I loro corpi vennero rapidamente e sommariamente sepolti e quando di lì a pochi giorni l’ammiraglio Kolciak occupò la zona non poté che constatare la morte dell’infelice famiglia imperiale.


L’atto di inutile barbarie commosse tutta l’Europa e per anni e anni le vicende che si svolsero in quella notte furono oggetto di indagini pazienti e accurate. Fin dai primi giorni, del resto, Kolciak aveva ordinato in loco una grande inchiesta cui aveva presieduto il giudice Sokolov: ogni particolare venne scrupolosamente vagliato, molti miseri resti dei Romanov furono identificati, mentre nel frattempo le responsabilità dell’eccidio venivano palleggiate tra un esponente e l’altro del movimento rivoluzionario.

La conclusione ufficiale, sia dalla parte bianca che da quella bolscevica, fu che neppure uno degli infelici membri della famiglia imperiale era scampato alla strage.

Ben diverso è il racconto di Marga Boodts. Solo apparentemente, spiega la signora, le cose si svolsero come tutti sanno. La morte dei Romanov non fu voluta né dal governo di Mosca né dagli agenti della Ceka che, anzi, avevano avuto l’ordine di vegliare sulla sicurezza della famiglia imperiale. Secondo la versione fornita da Marga Boodts, a ordinare la feroce esecuzione sarebbero stati addirittura alcuni membri dell’armata bianca, e precisamente certi granduchi che, per aver partecipato ad una congiura di palazzo al tempo in cui Nicola II regnava, ne temevano la vendetta. Secondo la versione dell’entourage di Marga Boodts – versione piuttosto paradossale e assurda, come ognuno vede – i granduchi traditori avrebbero prezzolato gli agenti della Ceka perché compissero l’eccidio. Ma c’è di più: proprio a un agente della Ceka e non, come si potrebbe credere, a un fedele monarchico dovrebbe la sua vita la sedicente granduchessa Olga.

Infatti, dopo aver visto cadere i genitori e i fratelli (“Ricordo bene”, dice la signora Boodts, “come morì Anastasia: stava pregando in ginocchio quando un sicario la colpì”), Olga avrebbe riconosciuto in uno degli uomini che assistevano all’esecuzione un giovane che un tempo aveva fatto parte del reggimento degli Ussari di cui essa era stata nominata colonnello onorario. Olga rivolse un’occhiata supplichevole al giovane (nel racconto di Marga Boodts egli figura sempre come Dimitri) e questi le assestò sulla fronte un piccolo colpo con il calcio della rivoltella. Evidentemente, argomenta la donna, aveva intenzione di stordirla perché tutti la credessero morta e non infierissero su di lei.




Due giorni dopo la granduchessa si risvegliò in una isba nei dintorni di Ekaterinburg dove Dimitri l’aveva trasportata nascondendola in un sacco di fieno e facendola viaggiare a bordo di un carrello a pedali, di quelli in uso presso i casellanti per spostarsi lungo le linee ferroviarie. Olga aveva una febbre fortissima e solo a fatica riuscì a riprendersi dallo choc della notte fatale. Quando si fu rimessa si accinse ad attraversare, sempre accompagnata da Dimitri, tutta la Siberia da Ekaterinburg a Vladivostok. Il viaggio fu compiuto parte a piedi e parte a bordo delle vetture della Transiberiana, e durò complessivamente una decina di mesi.

A Vladivostok Olga si fece rilasciare dalle autorità cittadine – quella parte della Russia era ancora in mano ai bianchi – una dichiarazione da cui risultava che ella era, senz’ombra di incertezza, la figlia primogenita dello zar. Forte di questo documento Olga si sarebbe più tardi presentata al Kaiser Guglielmo II che, dopo la sconfitta, viveva esule in Olanda. L’ex imperatore avrebbe accolto a braccia aperte la ragazza, affidandola a una dama di corte, la baronessa Elisabeth von Schaewenbach, figlia di un alto ufficiale del servizio segreto, facendole giurare che il segreto sull’identità di Olga sarebbe sempre stato mantenuto.

Elisabeth von Schaewenbach è tuttora vivente e spesso si reca a Menaggio con la figlia Birgitte von Harrach per far visita a Marga Boodts. Lo stesso Guglielmo II avrebbe scelto per la granduchessa russa il nome con cui essa è tuttora conosciuta, nome di suono inglese appartenuto a una donna realmente vissuta.

Sempre protetta e aiutata dalla baronessa tedesca, la sedicente figlia dello zar avrebbe vissuto successivamente a Berlino, sulla Costa Azzurra, a Tremezzo. Da Tremezzo, dopo un breve periodo in Svizzera, si trasferì a Menaggio nel 1946, affittò la villetta in cui abita tuttora ed acquistò per sua difesa personale Teufel, un feroce cane lupo già appartenente ad un “SS”.

Che documenti porta a sostegno di questa stupefacente storia la signora Boodts? Intanto la dichiarazione di Vladivostok, poi una dichiarazione scritta in italiano e in tedesco firmata dalla baronessa von Schaewenbach, poi un’altra dichiarazione vidimata dal console tedesco della Costarica e firmata dal principe Sigismondo di Prussia che afferma in essa di riconoscere come cugina Marga Boodts. Un’altra prova cui fanno molto caso i sostenitori della identificazione di Marga con Olga consiste in una cicatrice che la donna reca alla sommità del capo, identica a quella che la primogenita dello zar avrebbe avuto.

Naturalmente anche alla mente del più superficiale osservatore si presentano a questo punto obiezioni elementari. Olga-Marga e i suoi sostenitori sanno dare con disinvoltura una risposta a quasi tutto.

La prima cosa che ci si chiede è come mai non sia stata notata l’assenza del cadavere di Olga: la signora spiega che Dimitri, subito dopo l’eccidio dei Romanov, avrebbe scoperto una cameriera intenta a spogliare i cadaveri: uccise anche lei e ne aggiunse il cadavere al mucchio in cui già erano stati raccolti i corpi dello zar, della moglie e dei figli. Ecco perché il conto tornava.

E perché, ci si chiede inoltre, Dimitri non viene lui stesso a suffragare con la sua testimonianza la veridicità delle asserzioni di Marga? Dimitri, si ribatte, ha oggi una posizione che non gli permette di farsi avanti: egli occupa un altissimo grado della gerarchia militare sovietica.

C’è anche chi, avendo osservato che i capelli della signora Boodts sono in parte bianchi in parte biondi, ricorda che le granduchesse russe li avevano scuri; la signora risponde senza imbarazzo che i suoi capelli trascolorarono per il grande spavento provato durante l’eccidio.

Ad un’altra obiezione, però, la “granduchessa Olga” trova più difficile rispondere. Ella non parla il russo. Ce l’ha rivelato una signora nativa di Pietroburgo, che ha sposato un italiano e da moltissimi anni vive a Rezzonico, a pochi chilometri da Menaggio. Due anni fa la signora volle recarsi a rendere omaggio alla “granduchessa”.

“È stata molto gentile”, dice nel suo italiano ancora incerto, “Era bella, elegante, con una splendida vestaglia rosa. Io le ho subito parlato in russo ma lei mi ha fermato: “Non parlo più il russo”, mi ha detto. È stata assai gentile e mi ha detto di tornare ancora a visitarla. Sono tornata tre o quattro volte ma mi dicevano che non c’era mai: era a passeggio oppure a letto ammalata. Dicono che sia proprio la figlia del nostro zar. Ha la mia età ed è venuta via dalla Russia lo stesso ano in cui sono fuggita io. Io, però, il russo non l’ho dimenticato…”



N.d.R.
Marga Boodts non è che una dei tanti personaggi che, nel corso degli anni, sostennero di essere membri della famiglia imperiale salvatisi miracolosamente; nel 1991 e nel 2007, però, furono ritrovati nei pressi di Ekaterinburg alcuni scheletri che, sottoposti al test del DNA, hanno rivelato un’altissima probabilità di appartenere allo zar e alla sua famiglia.