IL DIAVOLO CON LA TONACA IN PROVINCIA DI CALTANISSETTA
Articolo di Salvatore Brancati da “Oggi” n. 9 del 3 marzo
1960
“L’Italia con San Francesco ha dato il più santo dei santi
al Cristianesimo e all’umanità”.
Leggevamo queste parole scritte sul muro di calce con mano
incerta durante il periodo fascista, mentre attendevamo a Mazzarino che
qualcuno venisse ad aprire la vecchia porta del convento dei Cappuccini.
Bussammo ancora e i rintocchi della vecchia campana, un po’
sordi, si confusero col rumore dei chiavistelli che il famulo si apprestava a
togliere. I suoi occhi, quando videro il flash che il fotografo aveva portato
con sé, ebbero un lampo e divennero cattivi. L’uomo, alto poco più di un
pigmeo, dalle braccia tozze e corte, dal viso rude di contadino incorniciato da
una barba riccia e nera, ci ricacciò indietro e ci sbatté in faccia la porta.
Solo più tardi, in seguito alle nostre insistenze, ci fu possibile entrare e
parlare col padre provinciale.
Che cosa era successo in realtà fra le mura del vecchio
convento?
Occorre riassumere brevemente i fatti. Poco dopo le 21 del
16 febbraio, un funzionario della squadra mobile di Caltanissetta, accompagnato
da alcuni agenti e da un militare della polizia giudiziaria dei carabinieri,
bussò al convento dei cappuccini. Sulla strada che unisce la campagna al
piccolo paese, sostava una camionetta. Il commissario aveva quattro mandati di
cattura da eseguire, spiccati tutti dal giudice istruttore del tribunale di
Caltanissetta.
Superando il disagio, proprio del singolare arresto, il
funzionario di polizia parlò chiaro. Disse di avere scelto quell’ora tarda
perché nessuno vedesse i quattro frati, tra cui il padre guardiano del
convento, salire sulla camionetta per essere tradotti al carcere di Malaspina.
L’accusa, sebbene non abbia trovato ancora, per l’istruttoria in corso, una sua
precisa rubricazione, tuttavia non lasciava posto ad equivoci: estorsioni,
lettere minatorie, omicidio, ferimenti. Non che i quattro monaci ne fossero
materialmente gli autori, ma secondo la polizia avevano gravi responsabilità in
ordine a questi reati.
Padre Vittorio, guardiano del monastero (al secolo Ugo
Bonvissuto, di 40 anni, da Gela), frate Carmelo (Luigi Galizia, di 81 anni, da
Mazzarino), frate Agrippino (Antonio Ialuna, di 35 anni, da Mineo) e frate
Benanzio (Liborio Marotta, di 36 anni, da Mazzarino), annodarono il rosario al
cordiglio, presero il breviario e si avviarono fra i poliziotti.
Alla fioca luce di una lampada ad olio, che ardeva ai lati
dell’altar maggiore, gli altri monaci trascorsero tutta la notte in chiesa, pregando
per i fratelli dinanzi ai quali si spalancava la porta di una cella ben diversa
da quella per cui essi, rinunciando al mondo, avevano indossato il saio.
Tutto aveva avuto inizio alle 19 del 5 novembre 1956. I frati
studiavano nelle loro celle. Nel silenzio che avvolgeva la vecchia abbazia,
frate Agrippino, diplomato a Roma in dogmatica, sentì dei passi venire dal
corridoio. La porta della sua cella era socchiusa. “Chi è?”, chiese il
religioso, turbato per l’inconsueto rumore in un’ora dedicata alla meditazione.
Ma la sua voce non ebbe risposta e lo scalpiccio si fece più distinto ed
affrettato. Il frate ripeté la domanda e, allarmato per il persistente
silenzio, si alzò per uscire sul corridoio. Ma proprio in quel momento, le
canne di una doppietta si inserirono nello spiraglio tra la porta e lo stipite,
rimanendovi incastrate per la pressione che il cappuccino fece sulla porta
stessa.
L’uomo, che dall’esterno teneva l’arma, lasciò partire due
colpi che andarono a conficcarsi nel muro, vicino al tavolo presso il quale il
frate studiava; poi ritirò l’arma e fuggì.
Quando frate Agrippino si riebbe dallo spavento, si trovò
circondato dagli altri monaci accorsi agli spari. Qualcuno andò al telefono per
informare i carabinieri dell’accaduto, ma il filo risultò tagliato, ed i militi
giunsero quando fu possibile avvertirli con un biglietto, poiché nessuno trovò
il coraggio sufficiente per attraversare a quell’ora la buia e solitaria strada
di campagna.
Qualche giorno dopo Carmelo Lo Bartolo, un uomo sulla
cinquantina, nativo del luogo, e che da circa dieci anni coltivava l’orto del
convento e godeva della fiducia dei cappuccini, si avvicinò a frate Agrippino e
gli disse di avere saputo da alcuni banditi, confidenzialmente, che i due colpi
di fucile erano diretti contro frate Agatino, un altro membro della comunità. “È
mala gente”, aggiunse l’ortolano, “disposta a tutto. Sono molti e vogliono
qualcosa… almeno per le sigarette”.
“Posso dare duemila lire”, rispose il cappuccino mettendo la
mano in tasca.
“No… non si contentano di così poco. Ce ne vogliono almeno settantamila”.
“E io dove le prendo?” fece preoccupato il religioso,
sapendo che tutto il denaro liquido del monastero nasceva dalle elemosine di
una zona tutt’altro che ricca.
“Bisogna trovarle”, sentenziò l’ortolano allontanandosi,
“perché è gente che non perdona”.
Lo stesso discorso fu fatto ad altri frati e tutti,
chiedendo alle proprie famiglie e arrangiandosi alla meglio, cominciarono a
versare in varie riprese nelle mani dell’astuto Lo Bartolo somme di denaro per
l’ammontare complessivo di oltre un milione di lire. Ma il lestofante, che con la
complicità di altri malfattori era riuscito a mettere i frati in uno stato di
autentico terrore, non era uomo da accontentarsi. E un giorno, sempre dicendo
ai cappuccini di essere stato avvicinato dai banditi, riferì che gli stessi
avevano manifestato l’intenzione di estorcere del denaro a un medico del luogo,
il dottor Ernesto Colajanni, proprietario di una farmacia gestita dalla moglie.
“È desiderio della banda”, aggiunse Lo Bartolo, “che due monaci si rechino dal
dottor Colajanni e si facciano consegnare due milioni in biglietti da diecimila
lire. Fate attenzione e dite al medico che, se non pagherà subito, la banda
rapirà il suo bambino”.
Il denaro, poi, dalle mani dei frati sarebbe passato in
quelle dell’ortolano, il quale avrebbe provveduto a consegnarlo ai banditi. I
religiosi stettero molti giorni in uno stato d’animo angoscioso, ma l’ortolano,
che aveva capito la loro debolezza, incalzava con continue minacce e alla fine
frate Agrippino e un altro si recarono in casa del dottor Colajanni, che
ascoltò ogni cosa senza troppo scomporsi. Era il 2 marzo del 1957. Quindici
giorni dopo, nottetempo, un incendio fu appiccato alla farmacia del dottore,
che attribuì il gesto a qualche pazzo.
“Soltanto la mattina dopo”, ci ha raccontato l’anziano
farmacista, accanto al quale era la moglie, “quando tornarono i monaci per
dirmi che si era trattato di una rappresaglia dei banditi, decisi, per non
correre altri rischi, di anticipare un milione”.
“Eravamo certi”, prosegue il dottor Colajanni, “eravamo
certi che i banditi ci avrebbero lasciati in pace: ma non fu così. Esattamente
un anno dopo tornarono alla carica con una lettera nella quale era scritto “di
consegnare a chi lei sa” il denaro richiesto. Fummo proprio noi stavolta a
chiamare i frati, ai quali consegnammo mezzo milione. Dopo circa dieci giorni
mi giunse un’altra lettera, nella quale era scritto che se volevo vivere
tranquillo dovevo saldare il conto. E fu così che, proprio nel giorno di
giovedì santo dell’anno scorso, consegnai ai cappuccini altre cinquecentomila
lire. La vicenda, che è durata due anni, durante i quali ci è parso di vivere
come in un incubo, certo non sarebbe finita se tutto non fosse stato scoperto
dalla polizia”.
“A mio parere i frati”, ha proseguito Colajanni, “sono stati
delle vittime. Ebbero paura di ribellarsi al Lo Bartolo che li teneva ormai in
soggezione. Del resto anche noi avevamo paura e mai tentammo di ribellarci.
Segnammo soltanto la serie dei biglietti da diecimila lire che fummo costretti
a sborsare, ma nessuna indagine venne fatta perché noi non denunciammo mai la
cosa ai carabinieri, non avendo alcuna fiducia nel maresciallo dell’epoca”.
Ma l’attenzione dei banditi non si era polarizzata tutta sul
dottor Colajanni. Le lettere, contenenti gravi minacce se non fossero state
soddisfatte le richieste di danaro, cominciarono a pervenire pure al ricco
possidente Angelo Cannata, che anch’egli sul principio non vi dette alcun peso.
Un giorno che, insieme alla moglie e al figliolo, viaggiando
sulla propria automobile, Angelo Cannata tornava in paese dalla campagna, trovò
la strada sbarrata. L’auto si arrestò ed improvvisamente comparvero alcuni
uomini mascherati i quali, trascinato a viva forza il possidente nei pressi di
un ulivo saraceno, lo uccisero sotto gli occhi atterriti dei congiunti,
costretti ad assistere impotenti all’esecuzione.
Dopo tale episodio, che la gente ricorda ancora con
raccapriccio, nessuno a Mazzarino osò più sfidare la gang, ed il “lavoro” per i
frati crebbe notevolmente. Lo Bartolo aveva infatti “agganciato” alcuni monaci
fino a costituire quel quartetto di cui frate Agrippino era stato il primo
strumento ed involontario correo dei banditi. E perché le richieste venissero
evase con prontezza non si mancò di uccidere qualche bovino o di bruciare del
frumento per rappresaglia.
A concludere la losca attività degli ignoti malviventi
doveva essere, inconsapevolmente, la guardia giurata Giovanni Stuppia, ferita
da un colpo di fucile per aver fatto qualche confidenza ai carabinieri.
Dopo quest’ultimo episodio di sangue subito collegato all’uccisione
del possidente Cannata e ad altri crimini, pubblica sicurezza e carabinieri di Caltanissetta
presero in mano le redini dell’indagine e in poco tempo i pesci caddero nella
rete. L’ortolano dei frati, vistosi in difficoltà, decise di tagliare la corda
e di rifugiarsi presso un cognato a Genova, dove poi venne tratto in arresto.
“È una povera vittima anche lui”, dicevano i monaci, che si
convinsero della diabolica doppiezza di Carmelo Lo Bartolo soltanto dopo che il
criminale si tolse la vita, impiccandosi nel carcere di Malaspina. A tutti il
vecchio ortolano era riuscito a far credere che la banda (pochi miserabili che
non è il caso di ricordare) avrebbe distrutto il convento se i frati non si
fossero prestati a far da intermediari. Un giorno, la comunità religiosa stava
festeggiando il venticinquesimo di sacerdozio di un confratello. C’erano molti
invitati; a un tratto, trafelato, venne il Lo Bartolo a dire sottovoce al padre
guardiano che la banda aveva circondato il convento, pronta a uccidere tutti se
non si versavano subito dei soldi. “Non abbiamo niente in questo momento”,
disse sgomento padre Vittorio e l’ortolano, che sapeva come spesso le casse del
convento fossero vuote, rispose: “Non aprite le finestre e state calmi… vado io
a convincerli, perché vogliono far saltare in aria l’altar maggiore e distruggere
il monastero”.
Il vecchio ortolano aveva le chiavi del convento e questo
spiega perché in fondo a un pozzo sono state trovate alcune armi, che
probabilmente appartengono ai banditi. Né deve meravigliare il fatto che le
lettere d’estorsione siano state scritte con la macchina dei frati, dal momento
che il Lo Bartolo aveva facoltà di entrare dovunque, essendo considerato alla
pari di qualunque altro membro della comunità religiosa.
Che oltre agli altri difetti, il maresciallo dei carabinieri
dell’epoca fosse anche un po’ pavido, lo conferma il provinciale dei cappuccini,
che nella forzata assenza del padre guardiano regge adesso le sorti del
convento. Nella sua stanzetta disadorna, il religioso ammette tuttavia che ai
quattro frati incriminati ha fatto difetto il coraggio. Ma subito aggiunge: “Anche
nel nostro ambiente, talvolta, qualcuno può sbagliare. I quattro fratelli che
si trovano in carcere hanno avuto paura di esporsi, poiché bastava denunciare
qualcosa ai carabinieri per essere colpiti dalla vendetta dei banditi, assai
prima che le forze della legge ci potessero proteggere. D’altra parte, perché non
hanno reagito il farmacista Colajanni e il possidente Cannata? I frati sono
stati i primi a pagare… oltre un milione hanno versato al Lo Bartolo in poco
meno di un anno”.
“Complici?”. E come per dare una risposta a sé stesso il
provinciale prosegue: “Ma si è mai visto un complice cooperare nei misfatti
senza tenere di vista il proprio utile? Oh, certo, essi dovevano denunciare
tutto. Ma una volta denunciammo due colpi di fucile sparati contro la cella di
un frate. Ebbene, che cosa fece la giustizia? Ecco perché i nostri fratelli
hanno accettato tutto con rassegnazione: per non assumersi la responsabilità
delle vendette dei banditi. La loro colpa principale rimane in fondo un atto di
carità cristiana”.
A carico dei quattro sacerdoti l’autorità ecclesiastica non
ha preso per ora alcun provvedimento ed essi celebrano ogni mattina nella
cappella del carcere.
L’attesa per la conclusione dell’istruttoria è vivissima e
la gente, pur ammettendo l’innocenza dei frati, tuttavia non riesce a non
pensare a quel fra’ Cristoforo del Manzoni che fu ben altro campione di nobiltà
e di coraggio, mentre i monaci di Mazzarino hanno soltanto offerto un pietoso
spettacolo di umana vigliaccheria, più grave (per rimanere in termini
manzoniani) di quella del povero Don Abbondio.