giovedì 29 novembre 2018

IL MISTERO DI ETTORE GRANDE - VI


Primo episodio 
Secondo episodio 
Terzo episodio 
Quarto episodio 
Quinto episodio 
Settimo episodio 
Ottavo episodio 
Conclusione 



Ettore rimase in segregazione cellulare per centocinquanta giorni, sottoposto a interminabili interrogatori. Quando si era trattato di procedere al suo arresto, il giudice istruttore di Torino che si occupava dell’affare di Bangkok si era rifiutato di firmare il suo mandato di cattura. Così era stato sostituito ed Ettore si era trovato di fronte a un nuovo magistrato.

I risultati della perizia, coi suoi quattro colpi, gli erano stati nuovamente contestati, e allora Ettore per la prima volta aveva ammesso che ormai, anche secondo lui, l’ipotesi del suicidio doveva venire scartata, che c’era da pensare a un delitto, e che in questo caso era lui stesso che sollecitava la scoperta del colpevole. Si indusse a dichiarare che questa soluzione poteva essere accolta con qualche probabilità, che la scala alla camera dove si trovava sua moglie era piuttosto agevole, che nel solaio della villa chiunque avrebbe potuto penetrare e nascondersi e che finalmente gli sembrava di aver veduto, in quei giorni, aggirarsi degli sconosciuti intorno al bungalow.

Si credette allora che Ettore fosse sulla via della confessione e quando, in un secondo tempo, invece egli ritornò a parlare di suicidio l’unico risultato per lui fu di aver irrimediabilmente compromesso la propria posizione.

In una lettera del carcere scritta a suo padre dopo qualche mese di detenzione Ettore dice: “La spossatezza di nervi è talora completa, eppure nel periodo istruttorio mi tocca ancora sostenere interrogatori per confutare delle calunnie, per distruggere artificiose e diaboliche montature. Se il magistrato conoscesse ciò nella realtà per averlo provato egli stesso, capirebbe certo in quale condizione psicologica e mentale si trova un infelice”.

In realtà Ettore era caduto spesso in gravi e incomprensibili contraddizioni. Aveva detto, per esempio, che quando si trovava nella camera da bagno, a otto o dieci metri dal luogo dove sua moglie si trovava, aveva inteso gli spari egli stava lavandosi, poi disse che stava radendosi, che era sotto la doccia e infine che si stava asciugando. Anche sul periodo di tempo da lui trascorso nella stanza da bagno dopo aver udito il primo colpo era stato impreciso, e aveva detto dapprima che si trattava di una mezz’ora, poi di un quarto d’ora e infine di pochi minuti addirittura.

Quando gli era stato chiesto di fare un ritratto di sua moglie, egli dipinse Vincenzina, la prima volta, come un’alcoolizzata e un’isterica. Disse che a bordo del Conte Rosso aveva pagato più di tremila lire in sole bevande, che aveva veduto nella sua cabina tre bottiglie di liquore e di averla colta perfino mentre beveva acqua di colonia. Poi si era accorto di aver esagerato e aveva detto che quei dati di fatto da lui riferiti dovevano essere intesi come attenuanti al suicidio e non come calunnia alla memoria di Vincenzina. Proseguendo a parlare di lei, aveva usato dei termini moderati ma vaghi, come se da altri e non da lui stesso si dovesse attendere la spiegazione che aveva condotto a quel tragico epilogo.

Sul tavolo del giudice istruttore si costruiva intanto la storia della sua vita di funzionario, rappresentata dai rapporti che giungevano dalle sedi consolari presso le quali Ettore era stato addetto, ma questa vita non rivelava nulla di interessante e ci si rivolse allora alla sua intimità di uomo privato e di scapolo, che venne esaminata con uno scrupolo e una diligenza feroce. Così, da Tunisi, venne fuori una vecchia storia: Ettore aveva allora ventisette anni e avrebbe voluto sposare una signora che ne contava quarantotto, ricca e separata dal marito. Ettore, anzi, aveva pregato un avvocato suo amico perché iniziasse le pratiche per ottenere il divorzio, pratiche che non furono neppure avviate perché tutto si risolse in un epilogo da operetta, quando l’amico scoperse che la signora era la madre della propria fidanzata.

Furono interrogati, durante l’inchiesta, duecentosettantacinque testimoni. Forse per riflesso dei dissidi che esistevano a Bangkok, le deposizioni degli italiani che risiedevano nel Siam al momento della tragedia furono sempre unilaterali. Il ministro e il personale della legazione interpretarono i fatti a favore del suicidio, gli altri connazionali a favore dell’omicidio. La signora Valenzani ricordò che una volta Vincenzina le aveva mostrato delle casse di armi che dovevano servire a Ettore per la caccia grossa. In quell’occasione ella aveva chiesto all’amica: “Te ne intendi?” e Vincenzina aveva risposto: “Per carità!”. Si ritenne così che la vittima non avesse pratica di armi e che non potesse averne avuta in particolar modo di una Browning, che è una rivoltella difficile da maneggiare e fornita di tre sicurezze.

La signora Umiltà disse che Vincenzina, pochi giorni prima di morire, a proposito di un’attrice americana che si era suicidata, aveva esclamato: “Se proprio sapessi come si sta all’aldilà forse…”, e non aveva finito la frase. Ma queste e altre deposizioni, contraddittorie tra loro, anziché chiarire maggiormente l’affare non fecero che complicarlo. Anzi, le testimonianze degli amici delle due parti o dei loro nemici finirono con l’alterare le figure dei due protagonisti e spostare il dilemma dai limiti entro i quali doveva essere considerato.

Ettore, intanto, scriveva memoriali, lettere al giudice, ad alti funzionari del ministero degli esteri e perfino al conte Ciano. Più lo stato di segregazione durava e più il suo riserbo, il suo modo di fare naturalmente compassato veniva meno.

Con l’incriminazione di Ettore la sua figura, i suoi atteggiamenti, che fino a questo momento erano stati così avari di suggerimenti per definire la sua personalità, divennero in un certo senso più comprensibili. Si ha l’impressione, leggendo i suoi memoriali, che Ettore senta per la prima volta una specie di congiura della società contro di lui, e via via che prosegue, che i giorni di segregazione si sommano, il tono delle sue parole diventa sempre maggiormente angosciato, vi si sente tremare dentro la sua disperazione e talvolta i caratteri più riposti della sua intimità.

“È enorme”, esclama in uno di questi suoi sfoghi, “che si possa dubitare che io abbia ucciso mia moglie, io che l’ho amata, io che ho fatto un mondo di spese per lei, indebitandomi con mio padre di circa centomila lire, consumando tutti i miei risparmi per questo matrimonio, per mettere su la casa, per fare un lussuoso viaggio, per offrirle tutti i conforti. Io che l’ho onorata in morte affrontando anche spese eccessive, io che ho perduto, con la sua morte, anche i vantaggi economici della dote e della forte eredità che le sarebbe spettata alla morte del padre”.

In queste poche righe non si parla che di spese, di vantaggi economici, di risparmi, di dote e di eredità: tutta la sua vita triste, amara di sgobbone, di ragazzo sempre povero e di scolaro modello, sembrano risalire come un singhiozzo da queste esclamazioni. Queste sue parole ci riportano al significato della sua vita e sembrano riassumerla, a partire da quando i compagni, per dispetto al suo zelo di scolaro, lo chiamavano “fausson”, o quando trovandosi a Parigi per uno dei suoi viaggi d’istruzione e rimasto senza denaro, era diventato per non chiedere altro aiuto alla famiglia, l’accenditore dei fanali della Torre Eiffel. E il piccolo lampionaio di Parigi, diventato console di seconda classe a trentacinque anni e con l’incarico di grado superiore e la prospettiva di diventare ambasciatore, scopriva nell’agitata sincerità della sua disperazione la sua vera natura, il rancore per la sua vita e la sua carriera spezzata.

Erano frattanto passati cinque mesi dall’arresto e verso la fine di agosto giunsero i rapporti sul supplemento dell’inchiesta siamese che era stata richiesta dalla magistratura di Torino. Poiché Ettore dichiarava di non aver riconosciuto la natura del colpo che aveva udito, dal punto della stanza da bagno dove egli avrebbe dovuto trovarsi, venne eseguito un esperimento: tre funzionari della polizia siamese, Pombejara, il console Bovo e il console Perego, che sostituiva Umiltà a Bangkok, si recarono sul luogo dove era avvenuta la tragedia, esplodendo un colpo di pistola nel punto dove presumibilmente Vincenzina era stata colpita, mantenendo una volta chiuso il rubinetto della doccia e una volta lasciando che l’acqua scorresse. In entrambi i casi si udirono distintamente nella stanza da bagno i colpi sparati. Accluso a questo supplemento d’indagine c’erano le prime deposizioni dei boys e gli esami medico-legali del cadavere, le cui conclusioni non differivano molto dalla perizia Romanese-Busatto.

Fra tutte le deposizioni dei boys la più importante rimaneva quella di Nai Kia Hong, il primo cameriere. Erano sorte sul suo conto delle strane dicerie: il boy avrebbe omesso di raccontare alla polizia che, quando era giunto al piano superiore, egli era entrato nella camera della signora, l’aveva veduta tutta insanguinata che si lamentava, e che Ettore appena lo vide lo aveva scacciato. Ma queste voci non vennero confermate ed Ettore d’altra parte negò non soltanto quest’ultima circostanza, ma disse che non c’era da credere neppure alle deposizioni dei servi circa il numero dei colpi, perché evidentemente essi si confondevano o non dicevano il vero. E per provarlo raccontò un episodio occorso a lui personalmente: quando aveva assunto al suo servizio i boys aveva fatto loro giurare di essere tutti scapoli e Nai Kia Hong per garanzia aveva giurato per loro. Più tardi aveva saputo che, di sette, sei erano sposati e uno perfino bigamo.

Ma il consigliere Caccia non sembrava di questo parere e attribuiva invece una grande importanza alle deposizioni dei servi, le quali, sia pure con qualche contraddizione nei particolari, concordavano nell’insieme, ammettendo tre o quattro colpi sparati a distanza.

Alla fine di marzo del 1940, cioè sedici mesi dopo la morte di Vincenzina, Nai Kia Hong venne nuovamente interrogato dalle autorità siamesi e rese un’importante deposizione. Dopo aver smentito che Ettore lo avesse cacciato dalla camera matrimoniale mentre Vincenzina agonizzava, Hong dichiarò che trovandosi nell’anticamera alla sommità delle scale, mentre Ettore gli ordinava di correre alla ricerca di Bovo, aveva udito la signora che lo chiamava con queste parole: “Boy, boy!”

A questa nuova contestazione Ettore ribadì che Hong mentiva, oppure aveva frainteso: forse Vincenzina, lamentandosi, aveva gridato: “Ohi, ohi!”

Intanto i legali di Ettore avevano fatto eseguire una loro perizia dai professori Biondi e Moriani. I due professori dell’Università di Roma dichiararono che gli spari, contrariamente a quanto era stato ritenuto dai periti d’ufficio, dovevano considerarsi tre e non quattro, fondando il loro giudizio sulla possibilità che il proiettile, entrato per la ferita nella parte anteriore del collo, fosse uscito per la ferita in basso sul lato sinistro e fosse rientrato ancora nel collo a cagione di una piega della pelle determinata dal capo reclinato, provocando un’altra ferita che si trovava, come si ricorderà, un po’ più in alto sempre sul lato sinistro del collo. I consulenti della difesa dimostrarono, inoltre, che a loro giudizio la ferita alla nuca non poteva assolutamente considerarsi come il foro d’ingresso di un proiettile, perché i capelli intorno a quel foro non erano stati bruciacchiati dal colpo, e mancava l’alone lasciato in genere dallo sparo, l’infiltrazione sanguigna e le tracce di capelli in esso.

Ma la considerazione più importante era questa: il proiettile che si riteneva proveniente dal foro alla nuca si trovava infisso nella quinta vertebra cervicale, conclusione assurda, essendo le quattro vertebre sovrastanti ancora integre. Ma il perito d’ufficio al quale furono sottoposte queste obiezioni dichiarò, soprattutto in merito all’ultima che era la più importante, che Vincenzina al momento dello sparo avrebbe potuto trovarsi con il capo rovesciato all’indietro e quindi la ferita alla nuca doveva necessariamente provocare la frattura della seconda e terza vertebra. Furono considerazioni che ebbero un peso decisivo per il rinvio a giudizio di Ettore.

Dopo due anni di istruttoria il magistrato inquirente (il terzo che si alternava di fronte all’imputato) trasmise gli atti al procuratore generale della corte d’assise di Torino, quel dottor Quinto che sarà poi pubblico ministero nei due dibattimenti successivi contro Grande e diventerà il suo più severo e convinto accusatore. Il processo si svolse ai primi d’aprile nel 1941 ed ebbe scarsa risonanza perché i giornali, secondo le leggi di allora, non se ne poterono occupare.

I risultati delle perizie fatte dai professori Busatto e Romanese ebbero un peso determinante, la teoria della ferita alla nuca come foro di uscita non venne presa seriamente in considerazione. Si parlò di interferenze politiche, di pressioni che avrebbero sfavorevolmente influenzato la corte, ma nulla a questo proposito sembra accertato. Il procuratore generale, di fronte all’ostacolo di trovare un movente all’azione di Grande, disse che non lui ma Ettore stesso lo avrebbe dovuto spiegare.

L’ imputato, la sua famiglia, il suo passato non vennero certamente risparmiati, e si riudì nel dibattimento un’accusa che già vagamente circolava a Bangkok poco dopo la tragedia, che cioè Ettore fosse impotente o addirittura un invertito. Tra i motivi della sentenza si legge che grande peso, nella decisione della corte di escludere l’ipotesi del suicidio, aveva avuto la mancanza di qualunque scritto di Vincenzina che alludesse alla sua intenzione di sopprimersi.

Ettore venne così condannato, l’undici aprile, a ventiquattro anni di reclusione per uxoricidio.

Erano ormai trentasei mesi che si trovava in prigione, ma dopo il primo periodo di segregazione durante l’istruttoria, aveva potuto avere l’incarico di bibliotecario delle carceri e ventidue lire al mese di stipendio. Da quel momento, però, Ettore si trasformava in un prigioniero qualsiasi, cessava di essere il dottor Grande e diventava un numero. Tuttavia la sua serenità non venne meno: confidava nel ricorso in appello presentato dai suoi legali e continuava a dichiararsi innocente. La guerra intanto cominciava proprio allora a farsi sentire e il caso Grande venne rapidamente dimenticato.

Ettore rimase a Torino alle carceri Nuove fino al 1942, sperando sempre meno che la Cassazione potesse presto prendere in esame il proprio ricorso. A causa dei bombardamenti i prigionieri delle Nuove vennero smistati, e grande fu assegnato alla casa di pena di Fossano. Qui, dopo un primo periodo tristissimo, venne reintegrato nelle sue mansioni presso la biblioteca; poi, nel ’43, cominciò un periodo avventuroso. Diede la sua opera alla Resistenza favorendo l’evasione di prigionieri politici e di partigiani; contemporaneamente, per la sua conoscenza del tedesco, fu di prezioso aiuto per i dirigenti della casa durante i frequenti contrasti con le autorità germaniche. Ettore riuscì sovente a risolvere situazioni delicate e difficili, ponendosi a contatto direttamente coi tedeschi che ignoravano la sua condizione di prigioniero.

Nel ’44, in occasione di invasione armata, tutti i prigionieri furono liberati e nella casa di pena rimasero solamente in sei: quattro che erano dimenticati nei cubicoli di segregazione, uno paralitico e lo stesso Grande, che pur avendolo potuto si era rifiutato di evadere. Fu questo forse il periodo più sereno della sua detenzione, perché gli faceva quasi dimenticare la tragedia di cui era stato protagonista, poi, a liberazione avvenuta, ricominciò a sperare nell’immediato svolgimento del secondo processo.

Infatti fin dal 1943 la corte di Cassazione aveva annullato la sentenza di Torino e rinviato l’imputato a nuovo giudizio.

Il processo venne fissato a Novara per i primi d’ottobre del 1946. In una delle sue ultime lettere alla famiglia egli scrive: “Ho contato le settimane che ancora mi dividevano dal processo, da un po’ di tempo i qua conto i giorni e adesso sommo le ore, ho una tabella tutta quadrettata dove ogni ora corrisponde a un quadretto: devo ancora riempirne duecentoquaranta e poi mi toccherà l’estremo affronto di sedere per la seconda volta sul banco degli accusati”.


Inchiesta di Enrico Roda da “Oggi” 1949



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