Primo episodio
Secondo episodio
Terzo episodio
Quinto episodio
Sesto episodio
Settimo episodio
Ottavo episodio
Conclusione
Secondo episodio
Terzo episodio
Quinto episodio
Sesto episodio
Settimo episodio
Ottavo episodio
Conclusione
I coniugi Grande, la sera che precedette la tragedia,
erano tornati a casa insieme verso le otto. Prima di congedarsi dalla signora
Umiltà, Vincenzina aveva chiesto se l’appuntamento in casa del ministro belga
per una partita a tennis era fissato per il giorno dopo, ventitré novembre. Era
invece per quello successivo ed ella lo annotò sul proprio taccuino. In questo
modo si accorse che la mattina seguente avrebbe dovuto trovarsi con un’amica
alla piscina dello Sport Club.
Il guardiano notturno che aveva veduto scendere dall’automobile
i coniugi Grande notò che il loro contegno era quello consueto. Ettore aveva
aiutato la moglie a scendere, poi, circondandole la vita con il braccio, aveva
salito la scalinata del bungalow.
Avevano cenato subito. I mosquitos, alla sera, a causa
della luce artificiale, diventavano più intollerabili; giungeva fino all’interno
del salone da pranzo il gracidare delle rane proveniente da uno stagno vicino.
Ettore aveva acceso la radio e captato una stazione italiana che trasmetteva
musica da ballo. Era rimasto solo con Vincenzina perché i boys avevano una loro
baracca, separata dalla casa, in fondo al giardino. Avanaroyana Dabe, il
portiere indiano, aveva udito le note di quella musica e riconosciuto dietro i
telai illuminati l’ombra di Vincenzina e quella di Ettore.
Poi le luci erano state spente ed erano riapparse subito
al piano superiore. Il guardiano pensò che fossero le dieci; Grande invece è
certo che fosse molto più tardi, quasi l’una. Si ricordava infatti di aver
ascoltato la radio fino al termine della trasmissione e di aver udito l’annunciatore
augurare la buona notte. Sua moglie gli era parsa, quella sera, ansiosa e
irrequieta, come spaventata di passare un’altra notte senza dormire.
Poi Avanaroyana Dabe vide scomparire le luci anche dal
secondo piano e rimase solo a fare la guardia, in compagnia delle rane che strepitavano.
Il giorno dopo, mercoledì ventitré novembre, l’edizione
pomeridiana del Siam Chronicle uscì con un trafiletto nella rubrica “Notizie
Mondane”: La moglie di un diplomatico suicida. Questo era il titolo, quindi
seguiva la notizia: “È avvenuta ieri improvvisamente, in circostanze tragiche,
la morte della signora Grande, moglie del primo segretario della legazione
italiana a Bangkok. La signora si è suicidata con una rivoltella appartenente a
suo marito. Risulta che la signora ha riportato quattro ferite gravi, due al
viso e due al corpo, e che la morte è stata quasi istantanea. Altre informazioni
su questo incidente, quasi senza precedenti nei circoli diplomatici di Bangkok,
non si poterono avere né dalla legazione, né dalla polizia”.
Non certamente dal ministro Umiltà, cui capitava questo
improvviso grattacapo. Stava facendosi la barba quando udì un gruppo di cinesi
raccolti sotto le finestre del suo appartamento discutere animatamente come se
qualcosa di grave fosse accaduto. Scese e seppe da un domestico che la signora
Grande “si era sparata”. Giunse a villa Grande insieme alla moglie e trovò il
suo primo segretario nella sala da pranzo del piano rialzato, in compagnia di
Bovo che cercava di fargli coraggio.
Il medico, un ebreo tedesco di nome Gotschlich, era
arrivato da poco e si trovava solo nella camera di Vincenzina, dopo averne
fatto allontanare il marito. Ettore pronunciava frasi incoerenti; il ministro
si rivolse a Bovo e chiese se Vincenzina fosse morta veramente. Bovo, che si trovava
alle spalle di Grande, fece segno di sì imitando con la mano l’atto di chi si
spara alla testa.
Proprio in quel momento il dottore Gotschlich comparve
alla sommità delle scale e mormorò in tedesco: “Non c’è più niente da fare”. Il
suo compito era finito e non restava che chiamare la polizia; Grande, che era rimasto
fino allora silenzioso, esclamò: “Povera Nina, anche la polizia!”. Quindi il
medico prese in disparte il ministro e gli chiese se conosceva la famiglia
della signora Grande, se sapeva che, tra gli antenati, ci fossero stati casi di
pazzia, e se avesse avuto notizia che la signora fosse incinta. Umiltà rispose
di no e chiese una spiegazione di quelle domande. Evidentemente Gotschlich
voleva trovare una giustificazione di quello che pensava, e cioè che la moglie
di Ettore si fosse suicidata. Poi si recò ad avvertire personalmente i
funzionari di polizia.
Alla divisione investigativa Gotschlich venne ricevuto
dal maggiore Pombejara, al quale espose sommariamente di che si trattava. L’ufficiale
si disse disposto ad accompagnare il medico ed entrambi si diressero in
automobile verso villa Grande. Quando arrivarono non trovarono Ettore, che il
ministro Umiltà aveva condotto con sé alla legazione per non lasciarlo solo.
Ettore non aveva opposto resistenza, appariva disfatto.
Era andato a vestirsi perché aveva ancora indosso il pigiama tutto macchiato di
sangue; sull’automobile, a fianco della signora Umiltà, continuava a ripetere. “Povera
bambina, perché mi ha lasciato solo? Aveva venticinque anni, non le mancava
nulla, e si è tolta la vita”.
Il console Bovo era dunque rimasto solo allorché giunsero
il medico e il maggiore Pombejara. Il bungalow era deserto, sembrava di
trovarsi in una casa che non fosse mai stata abitata. Il piano superiore della
villa era composto di quattro locali, un ingresso, una veranda, lo studio di
Ettore e la camera dei due coniugi. Quest’ultima aveva quattro porte, vi si accedeva
solitamente attraverso l’ingresso perché quella che comunicava con lo studio
era quasi sempre chiusa.
In faccia all’entrata principale si trovavano due
stanze da bagno che erano separate dalla camera mediante due spogliatoi.
Nina era distesa su uno dei due letti, con lo sguardo rivolto in alto, le coperte le arrivavano fino all’altezza delle spalle e soltanto il volto rimaneva scoperto.
Nina era distesa su uno dei due letti, con lo sguardo rivolto in alto, le coperte le arrivavano fino all’altezza delle spalle e soltanto il volto rimaneva scoperto.
Le tracce di sangue in mezzo ai due letti erano state
lavate; il maggiore Pombejara, dopo essersi avvicinato al cadavere, si chinò e
chiese dov’era la pistola. Gotschlich l’aveva rimessa nel cassetto della
toilette dove Grande la teneva abitualmente. Era una piccola Browning calibro
6,35, leggermente sporca di sangue. Era scarica, e troppa gente ormai l’aveva
maneggiata perché potesse ancora fornire qualche utile indizio. Il console Bovo
disse: “È evidente che la signora si è suicidata”. Quindi gli manifestò la
propria intenzione di far trasportare al più presto il cadavere al cimitero.
Il maggiore Pombejara non rispose, rimase impassibile
come riescono a esserlo gli orientali e continuò a guardarsi in giro. Vide la
zanzariera rivolta contro il muro, attestata cioè ai capezzali dei letti, e un
gancio infisso alla parete che pendeva staccato. Per terra c’erano dei piccoli
frantumi di cemento e qui scorse due bossoli già esplosi e due proiettili
ancora da sparare. Finalmente rispose al console Bovo dicendo che era necessario
avvertire i due funzionari della polizia del distretto.
Erano le nove e mezzo: alle dieci giunsero al bungalow
cinque funzionari, un fotografo e il medico legale.
Nello spogliatoio di Ettore vennero rinvenuti il cuscino
sporco di sangue e il suo pigiama che appariva lavato di fresco dalle macchie
di sangue. I rilievi del medico legale furono in netto contrasto con la
dichiarazione rilasciata dal dottor Gotschlich. Il tedesco, nel suo esame
affrettato, aveva attribuito la causa della morte a due colpi di pistola
sparati a brevissima distanza, uno poco al di sotto del mento, l’altro sul lato
destro del collo. Il medico legale constatò invece quattro ferite, una causata
da arma da taglio e tre da arma da fuoco; inoltre Vincenzina presentava sul
braccio destro una leggera contusione.
Non restava che interrogare i testimoni, ma il più
importante di essi si trovava alla legazione, in uno stato tale di depressione
psichica, che sarebbe stato difficile avere da lui dichiarazioni attendibili.
Tuttavia Ettore, tanto al ministro Umiltà che al medico e al console Bovo,
aveva a frasi mozze raccontato press’a poco come si erano svolte le cose.
Si era svegliato verso le sei del mattino e aveva notato
che sua moglie dormiva, o almeno lo credette, perché Vincenzina era girata sul
fianco, col capo rivolto verso la parete. Durante la notte egli l’aveva sentita
levarsi, passeggiare su e giù per la stanza e gli era parso persino che uscisse
sulla veranda, ma non se ne era dato pensiero perché sua moglie era abituata ad
alzarsi di notte.
Era uscito dalla camera e aveva raggiunto silenziosamente
il gabinetto da bagno per radersi e fare la doccia. L’acqua che scrosciava gli
aveva impedito di udire i colpi che furono sparati circa mezz’ora dopo: percepì
soltanto un tonfo come quello di un vaso lasciato cadere per terra con forza,
ma egli si immaginò che ciò fosse dovuto allo scatto a molla della porta che
chiudeva la zanzariera. Per questo motivo si era trattenuto nel bagno ancora
per qualche tempo, non avrebbe saputo dire con precisione quanto, e poi si era
recato nello spogliatoio riservato a sua moglie.
A questo punto, mentre stava
per afferrare un accappatoio e la scatola di borotalco, aveva avuto la
sensazione di udire dei gemiti, aveva socchiuso la porta e scorto finalmente
sua moglie con il mento e il collo imbrattati di sangue che si dibatteva gemendo.
Corse verso di lei chiamandola, e in questi istanti ebbe l’impressione che Nina
lo guardasse e mormorasse debolmente il suo nome. Non aveva veduto l’arma e del
resto, lì per lì, non ci aveva pensato. Era uscito subito fuori sul balcone per
cercare aiuto, poi sull’ingresso della stanza, dove finalmente si era
incontrato col primo boy che stava salendo in quel momento le scale. Era Nai
Kia Hong, specie di maestro di casa, al quale aveva ordinato di correre in
cerca di Bovo e di un medico.
Rimase ancora per qualche minuto fuori dalla stanza per
procurarsi un catino e qualcosa che potesse fermare l’emorragia. Quando era
tornato presso Vincenzina, l’aveva trovata abbandonata, aveva cercato di
sollevarla e contemporaneamente la pistola, forse nascosta fra le pieghe del
lenzuolo, era caduta per terra.
Egli aveva ripetuto questo racconto più volte, con
qualche variante, anche alla legazione italiana, con la moglie di un collega straniero.
Alla signora, Grande aveva ripetuto un particolare di cui aveva fatto cenno, la
mattina, anche al medico tedesco, e cioè che durante la sua assenza dalla
camera, qualche minuto dopo la prima detonazione, ne aveva sentita un’altra,
sparata a distanza. Ma Gotschlich stesso, che aveva riscontrato l’esistenza di
due sole ferite, gli aveva detto che era impossibile, di non insistere nel
pensare che Vincenzina avesse potuto ripetere il suo gesto e che si trattava
senz’altro di un’allucinazione.
Dalla legazione d’Italia era stato nel frattempo inviato
un telegramma urgente ufficiale, dove si annunciava la morte della signora
Grande, avvenuta “per incidenti involontari”. La notizia, giunta quella sera a
Torino alle nove tramite il prefetto, sbalordì più che abbattere la famiglia
Virando. Non ci si voleva credere, e i Virando spedirono a Ettore un telegramma
in cui lo si pregava di dare spiegazioni, di liberarli da quell’angoscia
terribile, e che concludeva: “Provvedi imbalsamazione salma, attendi istruzioni
parenti”. Poi, siccome il giorno successivo non era ancora giunta risposta,
Nino pensò di telefonare e ottenne una chiamata urgentissima per Bangkok. Al
telefono della legazione si alternarono il ministro Umiltà e Grande.
Con la
voce rotta dai singhiozzi Ettore accennò a quanto era avvenuto, parlò di
depressione, di gravidanza, del clima.
Fu un colloquio drammatico: Nino Virando rinnovò le sue
domande più volte, voleva sapere come il dramma si era verificato: fin d’allora
non credette al suicidio. A un certo momento, dal centralino di qualche
stazione di transito, la telefonista fu costretta a ripetere le parole che
sentiva: “Dice che si tratta di una rivoltella, ha usato una rivoltella”.
Questa parola pronunciata da una voce estranea aveva, all’orecchio del
fratello, un suono ancora più macabro.
Le ultime parole di Ettore, prima di troncare la
comunicazione, furono queste: “Pregate per la Nina, pregate anche per me”.
Inchiesta di Enrico Roda, da “Oggi” 1949
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