mercoledì 28 novembre 2018

IL MISTERO DI ETTORE GRANDE - IV






I coniugi Grande, la sera che precedette la tragedia, erano tornati a casa insieme verso le otto. Prima di congedarsi dalla signora Umiltà, Vincenzina aveva chiesto se l’appuntamento in casa del ministro belga per una partita a tennis era fissato per il giorno dopo, ventitré novembre. Era invece per quello successivo ed ella lo annotò sul proprio taccuino. In questo modo si accorse che la mattina seguente avrebbe dovuto trovarsi con un’amica alla piscina dello Sport Club.

Il guardiano notturno che aveva veduto scendere dall’automobile i coniugi Grande notò che il loro contegno era quello consueto. Ettore aveva aiutato la moglie a scendere, poi, circondandole la vita con il braccio, aveva salito la scalinata del bungalow.

Avevano cenato subito. I mosquitos, alla sera, a causa della luce artificiale, diventavano più intollerabili; giungeva fino all’interno del salone da pranzo il gracidare delle rane proveniente da uno stagno vicino. Ettore aveva acceso la radio e captato una stazione italiana che trasmetteva musica da ballo. Era rimasto solo con Vincenzina perché i boys avevano una loro baracca, separata dalla casa, in fondo al giardino. Avanaroyana Dabe, il portiere indiano, aveva udito le note di quella musica e riconosciuto dietro i telai illuminati l’ombra di Vincenzina e quella di Ettore.

Poi le luci erano state spente ed erano riapparse subito al piano superiore. Il guardiano pensò che fossero le dieci; Grande invece è certo che fosse molto più tardi, quasi l’una. Si ricordava infatti di aver ascoltato la radio fino al termine della trasmissione e di aver udito l’annunciatore augurare la buona notte. Sua moglie gli era parsa, quella sera, ansiosa e irrequieta, come spaventata di passare un’altra notte senza dormire.

Poi Avanaroyana Dabe vide scomparire le luci anche dal secondo piano e rimase solo a fare la guardia, in compagnia delle rane che strepitavano.

Il giorno dopo, mercoledì ventitré novembre, l’edizione pomeridiana del Siam Chronicle uscì con un trafiletto nella rubrica “Notizie Mondane”: La moglie di un diplomatico suicida. Questo era il titolo, quindi seguiva la notizia: “È avvenuta ieri improvvisamente, in circostanze tragiche, la morte della signora Grande, moglie del primo segretario della legazione italiana a Bangkok. La signora si è suicidata con una rivoltella appartenente a suo marito. Risulta che la signora ha riportato quattro ferite gravi, due al viso e due al corpo, e che la morte è stata quasi istantanea. Altre informazioni su questo incidente, quasi senza precedenti nei circoli diplomatici di Bangkok, non si poterono avere né dalla legazione, né dalla polizia”.

Non certamente dal ministro Umiltà, cui capitava questo improvviso grattacapo. Stava facendosi la barba quando udì un gruppo di cinesi raccolti sotto le finestre del suo appartamento discutere animatamente come se qualcosa di grave fosse accaduto. Scese e seppe da un domestico che la signora Grande “si era sparata”. Giunse a villa Grande insieme alla moglie e trovò il suo primo segretario nella sala da pranzo del piano rialzato, in compagnia di Bovo che cercava di fargli coraggio.

Il medico, un ebreo tedesco di nome Gotschlich, era arrivato da poco e si trovava solo nella camera di Vincenzina, dopo averne fatto allontanare il marito. Ettore pronunciava frasi incoerenti; il ministro si rivolse a Bovo e chiese se Vincenzina fosse morta veramente. Bovo, che si trovava alle spalle di Grande, fece segno di sì imitando con la mano l’atto di chi si spara alla testa.

Proprio in quel momento il dottore Gotschlich comparve alla sommità delle scale e mormorò in tedesco: “Non c’è più niente da fare”. Il suo compito era finito e non restava che chiamare la polizia; Grande, che era rimasto fino allora silenzioso, esclamò: “Povera Nina, anche la polizia!”. Quindi il medico prese in disparte il ministro e gli chiese se conosceva la famiglia della signora Grande, se sapeva che, tra gli antenati, ci fossero stati casi di pazzia, e se avesse avuto notizia che la signora fosse incinta. Umiltà rispose di no e chiese una spiegazione di quelle domande. Evidentemente Gotschlich voleva trovare una giustificazione di quello che pensava, e cioè che la moglie di Ettore si fosse suicidata. Poi si recò ad avvertire personalmente i funzionari di polizia.

Alla divisione investigativa Gotschlich venne ricevuto dal maggiore Pombejara, al quale espose sommariamente di che si trattava. L’ufficiale si disse disposto ad accompagnare il medico ed entrambi si diressero in automobile verso villa Grande. Quando arrivarono non trovarono Ettore, che il ministro Umiltà aveva condotto con sé alla legazione per non lasciarlo solo.

Ettore non aveva opposto resistenza, appariva disfatto. Era andato a vestirsi perché aveva ancora indosso il pigiama tutto macchiato di sangue; sull’automobile, a fianco della signora Umiltà, continuava a ripetere. “Povera bambina, perché mi ha lasciato solo? Aveva venticinque anni, non le mancava nulla, e si è tolta la vita”.

Il console Bovo era dunque rimasto solo allorché giunsero il medico e il maggiore Pombejara. Il bungalow era deserto, sembrava di trovarsi in una casa che non fosse mai stata abitata. Il piano superiore della villa era composto di quattro locali, un ingresso, una veranda, lo studio di Ettore e la camera dei due coniugi. Quest’ultima aveva quattro porte, vi si accedeva solitamente attraverso l’ingresso perché quella che comunicava con lo studio era quasi sempre chiusa.

In faccia all’entrata principale si trovavano due stanze da bagno che erano separate dalla camera mediante due spogliatoi.
Nina era distesa su uno dei due letti, con lo sguardo rivolto in alto, le coperte le arrivavano fino all’altezza delle spalle e soltanto il volto rimaneva scoperto.
Le tracce di sangue in mezzo ai due letti erano state lavate; il maggiore Pombejara, dopo essersi avvicinato al cadavere, si chinò e chiese dov’era la pistola. Gotschlich l’aveva rimessa nel cassetto della toilette dove Grande la teneva abitualmente. Era una piccola Browning calibro 6,35, leggermente sporca di sangue. Era scarica, e troppa gente ormai l’aveva maneggiata perché potesse ancora fornire qualche utile indizio. Il console Bovo disse: “È evidente che la signora si è suicidata”. Quindi gli manifestò la propria intenzione di far trasportare al più presto il cadavere al cimitero.

Il maggiore Pombejara non rispose, rimase impassibile come riescono a esserlo gli orientali e continuò a guardarsi in giro. Vide la zanzariera rivolta contro il muro, attestata cioè ai capezzali dei letti, e un gancio infisso alla parete che pendeva staccato. Per terra c’erano dei piccoli frantumi di cemento e qui scorse due bossoli già esplosi e due proiettili ancora da sparare. Finalmente rispose al console Bovo dicendo che era necessario avvertire i due funzionari della polizia del distretto.

Erano le nove e mezzo: alle dieci giunsero al bungalow cinque funzionari, un fotografo e il medico legale.

Nello spogliatoio di Ettore vennero rinvenuti il cuscino sporco di sangue e il suo pigiama che appariva lavato di fresco dalle macchie di sangue. I rilievi del medico legale furono in netto contrasto con la dichiarazione rilasciata dal dottor Gotschlich. Il tedesco, nel suo esame affrettato, aveva attribuito la causa della morte a due colpi di pistola sparati a brevissima distanza, uno poco al di sotto del mento, l’altro sul lato destro del collo. Il medico legale constatò invece quattro ferite, una causata da arma da taglio e tre da arma da fuoco; inoltre Vincenzina presentava sul braccio destro una leggera contusione.

Non restava che interrogare i testimoni, ma il più importante di essi si trovava alla legazione, in uno stato tale di depressione psichica, che sarebbe stato difficile avere da lui dichiarazioni attendibili. Tuttavia Ettore, tanto al ministro Umiltà che al medico e al console Bovo, aveva a frasi mozze raccontato press’a poco come si erano svolte le cose.

Si era svegliato verso le sei del mattino e aveva notato che sua moglie dormiva, o almeno lo credette, perché Vincenzina era girata sul fianco, col capo rivolto verso la parete. Durante la notte egli l’aveva sentita levarsi, passeggiare su e giù per la stanza e gli era parso persino che uscisse sulla veranda, ma non se ne era dato pensiero perché sua moglie era abituata ad alzarsi di notte.

Era uscito dalla camera e aveva raggiunto silenziosamente il gabinetto da bagno per radersi e fare la doccia. L’acqua che scrosciava gli aveva impedito di udire i colpi che furono sparati circa mezz’ora dopo: percepì soltanto un tonfo come quello di un vaso lasciato cadere per terra con forza, ma egli si immaginò che ciò fosse dovuto allo scatto a molla della porta che chiudeva la zanzariera. Per questo motivo si era trattenuto nel bagno ancora per qualche tempo, non avrebbe saputo dire con precisione quanto, e poi si era recato nello spogliatoio riservato a sua moglie. 

A questo punto, mentre stava per afferrare un accappatoio e la scatola di borotalco, aveva avuto la sensazione di udire dei gemiti, aveva socchiuso la porta e scorto finalmente sua moglie con il mento e il collo imbrattati di sangue che si dibatteva gemendo. Corse verso di lei chiamandola, e in questi istanti ebbe l’impressione che Nina lo guardasse e mormorasse debolmente il suo nome. Non aveva veduto l’arma e del resto, lì per lì, non ci aveva pensato. Era uscito subito fuori sul balcone per cercare aiuto, poi sull’ingresso della stanza, dove finalmente si era incontrato col primo boy che stava salendo in quel momento le scale. Era Nai Kia Hong, specie di maestro di casa, al quale aveva ordinato di correre in cerca di Bovo e di un medico.

Rimase ancora per qualche minuto fuori dalla stanza per procurarsi un catino e qualcosa che potesse fermare l’emorragia. Quando era tornato presso Vincenzina, l’aveva trovata abbandonata, aveva cercato di sollevarla e contemporaneamente la pistola, forse nascosta fra le pieghe del lenzuolo, era caduta per terra.

Egli aveva ripetuto questo racconto più volte, con qualche variante, anche alla legazione italiana, con la moglie di un collega straniero. Alla signora, Grande aveva ripetuto un particolare di cui aveva fatto cenno, la mattina, anche al medico tedesco, e cioè che durante la sua assenza dalla camera, qualche minuto dopo la prima detonazione, ne aveva sentita un’altra, sparata a distanza. Ma Gotschlich stesso, che aveva riscontrato l’esistenza di due sole ferite, gli aveva detto che era impossibile, di non insistere nel pensare che Vincenzina avesse potuto ripetere il suo gesto e che si trattava senz’altro di un’allucinazione.

Dalla legazione d’Italia era stato nel frattempo inviato un telegramma urgente ufficiale, dove si annunciava la morte della signora Grande, avvenuta “per incidenti involontari”. La notizia, giunta quella sera a Torino alle nove tramite il prefetto, sbalordì più che abbattere la famiglia Virando. Non ci si voleva credere, e i Virando spedirono a Ettore un telegramma in cui lo si pregava di dare spiegazioni, di liberarli da quell’angoscia terribile, e che concludeva: “Provvedi imbalsamazione salma, attendi istruzioni parenti”. Poi, siccome il giorno successivo non era ancora giunta risposta, Nino pensò di telefonare e ottenne una chiamata urgentissima per Bangkok. Al telefono della legazione si alternarono il ministro Umiltà e Grande. 

Con la voce rotta dai singhiozzi Ettore accennò a quanto era avvenuto, parlò di depressione, di gravidanza, del clima.

Fu un colloquio drammatico: Nino Virando rinnovò le sue domande più volte, voleva sapere come il dramma si era verificato: fin d’allora non credette al suicidio. A un certo momento, dal centralino di qualche stazione di transito, la telefonista fu costretta a ripetere le parole che sentiva: “Dice che si tratta di una rivoltella, ha usato una rivoltella”. Questa parola pronunciata da una voce estranea aveva, all’orecchio del fratello, un suono ancora più macabro.
Le ultime parole di Ettore, prima di troncare la comunicazione, furono queste: “Pregate per la Nina, pregate anche per me”.



Inchiesta di Enrico Roda, da “Oggi” 1949

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