Secondo episodio
Terzo episodio
Quarto episodio
Sesto episodio
Settimo episodio
Ottavo episodio
Conclusione
Il giorno stesso della tragedia la polizia siamese
avrebbe voluto, come si è detto, interrogare Ettore Grande.
Il maggiore
Pombejara aveva riferito che il diplomatico “rispondeva alle volte in inglese,
alle volte in francese, alle domande delle autorità” per indicare probabilmente
lo stato di agitazione in cui Ettore si trovava.
L’interrogatorio venne perciò
rimandato e per quel giorno si udirono le deposizioni dei boys, prima di tutti
Nai Kia Hong, il quale era considerato una specie di primo cameriere. Nai Kia
Hong stava occupandosi della pulizia del piano terreno quando, verso le sette
del mattino, aveva udito due colpi provenire dalla camera superiore: “Bang,
bang” aveva precisato, tuttavia non si era arrischiato a salire perché l’accesso
all’appartamento del padrone era proibito ai boys a meno che non ne avessero
ricevuto l’ordine.
Nai Kia Hong era rimasto a guardare in su per qualche
minuto, finché Ettore lo aveva chiamato. Ettore era in pigiama, non piangeva e
appena vide il servo gli ordinò di correre in cerca del console Bovo e del
medico tedesco. Hong non aveva veduto alcuna arma nelle mani del padrone, né avrebbe
potuto dire se il pigiama che indossava era schizzato di sangue.
Aveva immediatamente disceso le scale e all’angolo della
casa si era imbattuto in una donna siamese, moglie di un impiegato alla
legazione, che faceva la lavandaia. Passando, le aveva gridato che la signora
si era sparata, poi era uscito correndo a cercare Bovo, il quale abitava al
circolo britannico.
Nai Kia Hong non era stato il solo a udire gli spari. La
lavandaia, mentre compiva il breve tratto di strada tra la fermata dell’omnibus
e il cancello della villa, aveva udito una detonazione. A confermare queste
deposizioni si aggiungeva anche quella dell’uomo di fatica, un cinese di nome
Nay Fuyang, che anch’egli si trovava al piano terreno quando erano stati
esplosi i primi due colpi. La lavandaia, l’uomo di fatica e un terzo boy si
riunirono nel giardino e rimasero insieme a far congetture su quanto poteva essere
accaduto, forse per cinque, forse per dieci minuti; quindi echeggiarono due
nuove detonazioni, che furono udite dai tre testimoni riuniti.
Così la polizia siamese, prima ancora di interrogare
Ettore, era a conoscenza di queste circostanze che, per chiarezza, possono
essere riassunte così: il primo boy e l’uomo di fatica percepiscono due
detonazioni; a sua volta e presumibilmente nello stesso istante, la lavandaia
ne percepisce una sola (trovandosi a pochi metri dall’omnibus si potrebbe
pensare che una delle due sia stata sommersa dal fracasso del motore). Circa
dieci minuti dopo echeggiano due nuovi colpi e questa volta le deposizioni
risultano concordi, li hanno uditi la lavandaia, l’uomo di fatica e il terzo
boy sopraggiunto.
In definitiva, l’unico testimone che potesse affermare di
aver udito a distanza quattro detonazioni era Nay Fuyang, il facchino. Costui
aveva però dichiarato di non essere in grado di contare né le ore né i minuti;
riferì inoltre che poco prima dell’arrivo della polizia il dottor Gotschlich
gli aveva ordinato di lavare il pavimento in mezzo ai due letti, e si spiegava
così la presenza degli stracci inzuppati di sangue rinvenuti nello spogliatoio
di Ettore.
Quando Ettore venne interrogato non fece cenno al terzo
colpo che, come aveva riferito al dottor Gotschlich, gli era sembrato di udire;
tuttavia, sebbene tra le sue dichiarazioni e quelle dei boys esistesse un
evidente contrasto, la polizia siamese non gli fece alcuna contestazione. Fu
anzi Ettore stesso a domandare spiegazione delle voci che già incominciavano a circolare
nella colonia europea sulla morte di sua moglie, voci che erano state persino
riferite da un giornale locale.
Pombejara gli aveva risposto che non se ne desse pensiero,
che la polizia siamese sapeva in quale considerazione avrebbero dovuto essere
tenute le chiacchiere dei cinesi e quelle dei giornali. Ma Pombejara non doveva
dire la verità, come dimostra il rapporto conclusivo sull’inchiesta dove si
afferma che “stante la dichiarazione dei testimoni la conclusione potrebbe non
essere quella di suicidio”, e che comunque ci si rimetteva “alla considerazione
dei superiori”.
Chiusa l’inchiesta, le opinioni, fra i membri della
colonia europea di Bangkok, continuavano a rimanere discordi: la faccenda dei
tre o più colpi era divenuta di dominio pubblico e la morte della signora
Grande l’argomento del giorno. Si diceva che la salma di Vincenzina, appena
conclusa l’inchiesta sommaria della polizia, era rimasta sola nel bungalow
abbandonato, affidata esclusivamente alle cure del console Bovo il quale, per
la vestizione, era ricorso all’aiuto dei due medici che avevano imbalsamato il
cadavere.
Il funerale era avvenuto il giorno seguente, parve con
una certa precipitazione, e si era potuto ottenere l’autorizzazione per le
esequie religiose solo mediante la dichiarazione che Vincenzina aveva agito in
uno stato di esaltazione mentale.
Ettore intanto viveva alla legazione, ospite del
ministro. Al dottor Gandini, che era stato a trovarlo, disse: “Non era la Nina
che potesse compiere un simile gesto, in quel momento non era lei”. Sembrava prostrato
e Umiltà, scrivendo al padre di Grande, diceva: “Cerchiamo di tenere Ettore più
calmo possibile”.
Nei giorni seguenti il ministro cercò di sapere qualcosa
di più sulle ragioni che avrebbero potuto indurre Vincenzina al suicidio. Giunse
anche a chiedergli, un po’ rudemente, se in fondo a quella nostalgia tanto
ostinata per Torino, per le sue strade, per i suoi monumenti, non ci fosse
stato “un paio di pantaloni”. Ma Ettore rispose che per quanto ne sapeva lui
non gli pareva probabile e, del resto, non era disposto a pensarlo.
A Torino, intanto, la famiglia Virando aveva dato l’annuncio
della morte di Nina “per una caduta da cavallo”, versione che era stata
concordata con la famiglia dello sposo. Il fratello Nino, poi, premeva per
partire: avrebbe voluto servirsi dell’aereo per giungere più presto, ma venne
soprattutto dissuaso dal padre Grande, il quale manifestò anche la sua
disapprovazione al successivo progetto di un viaggio della famiglia Virando a
Bangkok, che giudicava inutile e disagevole.
Il padre di Ettore era senza dubbio in buona fede, ma
questo suo atteggiamento fu in seguito giudicato sospetto per le circostanze
che seguirono. È questa una delle prove, tra le tante, della tendenza da ambo
le parti di interpretare ogni minimo particolare a favore della propria tesi,
rendendo il compito ancora più difficile a chi tenta, in questa strana storia,
di separare il vero dal falso.
I Virando partirono il 7 dicembre, imbarcandosi sul Conte
Rosso. Giunti a Singapore una sorpresa li attendeva: al pontile di sbarco si
trovava Ettore che, dopo averli abbracciati, esclamò: “La Nina è qui”.
Fu una frase infelice perché riaccese per un istante la
speranza nell’animo dei Virando, speranza assurda ma abbastanza comprensibile,
del resto Nina era veramente lì, le sue spoglie per lo meno, perché Ettore
aveva lasciato Bangkok con il triste bagaglio senza attendere l’arrivo del
cognato e dei suoceri. Si era disfatto della casa, dei servi che aveva
licenziato senza una lira di mancia, e di una parte dei mobili. Aveva esaurito
tutte le complicate formalità per il passaggio nei vari stati malesi del corpo
della moglie, e aveva disposto le cose in modo di raggiungere Singapore in
tempo per partire con il Conte Biancamano.
L’incontro con i congiunti di Nina era avvenuto il giorno
24; Ettore aveva ricevuto l’anuncio del loro arrivo soltanto il giorno 16, per
mezzo di una lettera di suo padre, quando oramai aveva già tutto prenotato per
la partenza. Ai suoceri egli aveva spiegato che il suo ritorno era
improrogabile dovendo partecipare a Roma a un concorso; inoltre non aveva
voluto abusare dell’ospitalità del ministro, e finalmente Bangkok, col peso dei
suoi ricordi, gli era divenuta ormai intollerabile. Ma queste spiegazioni non
erano destinate a persuadere i Virando, anzi non fecero che rinsaldarli nei
loro propositi.
Ettore non lo capì e si oppose al viaggio a Bangkok:
aveva già acquistato i biglietti per il ritorno, era difficile ottenere una
proroga di soggiorno per il feretro, depositato in una sala del consolato
italiano. La villa era stata affittata, le cause della morte erano state fornite
ripetutamente da lui, a che scopo rinnovare un inutile dolore?
Furono forse questi ragionamenti a fornire i primi
sospetti. Nino e sua madre, lasciati Ettore e il padre Virando a Singapore,
partirono per Bangkok dove si fermarono meno di due giorni. Qui tuttavia ebbero
modo di parlare con quasi tutti gli italiani residenti nella capitale. Ettore
aveva loro raccomandato di affidarsi alla legazione italiana, di trascurare i
civili e di diffidare specialmente di qualche persona da lui indicata:
istintivamente di Virando fecero tutto il contrario, evitarono gli Umiltà, il
console Bovo e preferirono ascoltare le voci che a Bangkok circolavano sulla
morte della Nina.
Il bungalow era stato affittato da Ettore al console Bovo
che era in procinto di andarlo ad abitare, ma per il momento era vuoto. Nino
fece un sopralluogo nella camera matrimoniale, calcolò la distanza tra la
doccia e il letto di Vincenzina che era circa di dieci metri; riportò inoltre
negli ambienti ufficiali una sensazione indefinibile di insincerità, contro la
quale gli sembrava di urtare, quasi che intorno a lui esistesse una specie di
congiura per nascondergli la verità.
Gli parve perfino che i suoi colloqui con gli italiani
estranei alla legazione fossero sorvegliati, e in questo stato di diffidenza
venne in realtà mantenuto da alcuni connazionali: gli dissero che, essendo il
fatto accaduto alle sette, la polizia era intervenuta solamente dopo le nove,
si accusava il console Bovo di aver voluto nascondere la verità per evitare uno
scandalo e di aver raccontato a tutti che Vincenzina si era uccisa con un solo
colpo di pistola. Quanto al contegno di Ettore c’era perfino chi assicurava che
al funerale non aveva dimostrato alcuna commozione.
Finalmente, oltre alle dicerie, Nino fece una scoperta
cui fin d’allora attribuì una grande importanza. In una delle ultime lettere
alla famiglia Vincenzina diceva: “Ho scritto a Nino, abita bene vicino a Ebe?”.
Ebe era il nome di una cugina dei Virando che risiedeva all’appartamento che
Nino aveva affittato nel periodo successivo al matrimonio della sorella. Ma
questa lettera non gli era mai pervenuta. Ora, la signora Umiltà gli aveva
fatto cenno di uno scritto di sua sorella indirizzato a lui e rimasto
incompiuto, che Ettore, il giorno della tragedia, le aveva mostrato. La signora
Umiltà assicurò anzi di averne preso visione ma che non conteneva nulla di
importante.
Che la lettera non pervenuta e quest’altra neppure
spedita fossero da identificarsi era possibile, ma poco probabile. La Nina,
infatti, aveva detto “Ho scritto” e il riferimento a Ebe sembrava fatto per
assicurarsi di non aver sbagliato indirizzo.
Nino Virando attribuiva molta importanza a queste lettere
che egli non aveva ricevuto. Doveva ricordarsi, probabilmente, della promessa
fattagli in privato da sua sorella prima di partire, e cioè che se qualche
ragione di scontento ci fosse stata nei riguardi della sua nuova vita, ella non
avrebbe esitato di avvertirlo; in particolare, egli aveva rilevato che, prima d’allora,
la Nina non aveva mai pensato di scrivergli personalmente, il che dava una
forza maggiore ai suoi sospetti. Per quanto riguardava, invece, la lettera rimasta
incompleta cui aveva fatto cenno la signora Umiltà, Nino ne parlò a suo cognato
appena di ritorno a Singapore. Ettore promise che l’avrebbe cercata, ma poi
disse che si doveva essere smarrita nel trasloco.
Così le diffidenze, a Singapore, si tramutarono in
sospetti, e per quanto i Virando fossero d’accordo nel volerli nascondere a
Ettore fino al loro ritorno in Italia, qualche episodio dovette sembrargli
significativo.
Una volta, infatti, il vecchio Virando esclamò: “Niente
ci dimostra che là dentro (nel feretro) si trovi la Nina”. “Come”, domandò Ettore
stupefatto, “ne dubitate?”. I Virando non risposero e l’incidente parve chiuso.
Ma intanto da Singapore essi avevano scritto ad una cugina perché chiedesse l’autopsia
del cadavere. Il 27 gennaio 1939 approdarono a Venezia: quattro giorni dopo l’autorità
giudiziaria concesse il permesso dell’autopsia.
Ettore, nel frattempo, per quanto i termini del concorso
a cui doveva partecipare fossero ormai scaduti, si era recato a Roma. Ottenne
un congedo e si recò a Torino in casa di suo padre; tra le due famiglie,
intanto, i rapporti non erano cessati completamente e i primi ripicchi, le
prime manifestazioni di quello che stava per avvenire si ebbero a proposito di
alcune pendenze legali.
Secondo il patto di reversibilità della dote, tutta la
somma avrebbe dovuto essere immediatamente restituita ai Virando, ma il
professore Grande, per far fronte alle spese sostenute per il matrimonio, era
stato costretto a utilizzare anche i buoni di rendita del mese di gennaio, di
cui i Virando pretendevano la restituzione. Si faceva anche colpa al professore
di aver richiesto al notaio dei Virando, pochi giorni dopo la morte di Vincenzina,
una copia dell’atto dotale e di avergli domandato se suo figli “avrebbe
ereditato qualcosa”.
Ma si tratta più che altro di malintesi, creati da un’atmosfera
di diffidenza che ogni giorno si accentuava.
Ettore non aveva opposto una seria resistenza a che
venisse praticata l’autopsia del cadavere: si era mostrato più che altro
stupito. Mostrò poi, in seguito, di non attribuirvi grande importanza, e un
giorno, mentre stava parlando al telefono con la suocera, vi aveva alluso leggermente,
dicendo: “Ma cosa fanno questi medici, un capolavoro?”
La rottura definitiva avvenne solamente allorquando i Virando
chiesero a Ettore la restituzione dei regali di nozze. Fu l’unica volta,
riferisce un testimone, che il diplomatico apparve indignato.
I risultati dell’autopsia, che era stata eseguita dai
professori Busatto e Romanese dell’università di Torino, si presentarono in
contrasto con le precedenti dichiarazioni del dottor Gotschlich. Il medico
tedesco, quando era stato interrogato dalla polizia siamese, aveva dichiarato
di essersi limitato a visitare la parte anteriore del cadavere, di avere veduto
anche la parte posteriore ma di non aver rilevato la ferita alla nuca a causa
dei capelli, che erano tutti intrisi di sangue. Ora, la perizia di Torino
rivelava, invece, che le ferite distribuite attorno al collo di Vincenzina erano
sei, e così disposte: una ferita al lato destro del collo; una alla parte
anteriore e una al lato sinistro in alto; un’altra, sempre al lato sinistro del
collo ma un po’ più in basso. Finalmente una ferita al mento e una alla nuca.
Da questo totale di sei ferite i periti traevano la
conclusione, secondo la direzione dei proiettili, che gli spari erano stati
quattro, e precisamente: un proiettile entrato dalla ferita che si trovava al
lato destro del collo e usciva dal lato sinistro dello stesso; un altro entrato
dalla parte anteriore del collo e uscito dalla ferita situata un poco più in
basso dell’altro; le altre due ferite, al mento e alla nuca, erano a fondo
cieco, e cioè i proiettili erano ancora conficcati nel cadavere.
Dala ferita al mento il proiettile, attraverso la lingua
e il palato, era andato a spezzare il midollo spinale, producendo
istantaneamente una lesione mortale. Quanto alla ferita alla nuca,
verosimilmente doveva trattarsi dell’ultima, a causa dello scarso arrossamento
dei tessuti, come avviene di solito quando la lesione è riportata durante l’agonia.
Questi rilievi facevano naturalmente scartare l’ipotesi
del suicidio e avvaloravano, al contrario, quella dell’omicidio, a cui faceva
pensare anche il numero dei colpi sparati in direzioni diverse e in parti
insolite per i suicidi, l’impossibilità per Vincenzina di potersi sparare un
colpo alla nuca dalla parte sinistra, non essendo mancina.
Rimanevano così due sole soluzioni possibili: che
Vincenzina fosse stata uccisa da suo marito oppure da una terza persona; ma
quest’ultima eventualità non venne mai presa in considerazione seriamente né dalla
polizia siamese né dalla magistratura di Torino. Prima di tutto Ettore stesso l’aveva
sempre escluso, in secondo luogo bisognava ammettere che l’assassino conoscesse
il luogo dove si trovava la rivoltella e spiegasse perché si era servito di
essa. D’altra parte il bungalow di Bangkok si trovava in mezzo a un prato, i
muri della villa erano lisci e di difficile scalata, e nessun estraneo era
stato notato dai servi che si trovavano in giardino; inoltre non si trovavano
tracce di furto o di scasso.
Così si ritenne che ci fossero elementi sufficienti per
ammettere l’uxoricidio.
Emesso un mandato di cattura contro Ettore, la casa del
professor Grande venne piantonata da cinque poliziotti che salirono e
invitarono Ettore a un colloquio col segretario del prefetto. Il diplomatico venne
invece tradotto in questura, dove gli fu comunicato l’ordine di arresto, e di
lì condotto alle Nuove. Grande scrisse un messaggio alla famiglia, nel quale
diceva che non avrebbe voluto rimanere “più di un’ora in quel luogo”. Ci rimase
invece sette anni.
Era il 7 aprile 1939.
Inchiesta di Enrico Roda da “Oggi” 1949
Nessun commento:
Posta un commento