Secondo episodio
Quarto episodio
Quinto episodio
Sesto episodio
Settimo episodio
Ottavo episodio
Conclusione
La vita della colonia europea si svolgeva in prevalenza in quello Sport Club che era una specie di isola occidentale nettamente separata dal resto
della città. Nella piccola colonia italiana c’erano risentimenti e divisioni:
da una parte la legazione col suo ministro Umiltà, dall’altra i pochi civili,
l’ing. Marucco, l’ing. Valenzani, il Dottor Gandini. Erano i tempi di Monaco,
la situazione internazionale era oltremodo tesa.
Vincenzina divenne subito amica della signora Valenzani
che aveva quasi la sua stessa età, andava con lei dal parrucchiere, un ebreo
russo che le rovinava i capelli: ci andava a piedi o in tram, un po’ per
distrarsi e un po’ per sfida alle consuetudini. I signori dello Sport Club
avrebbero giudicato estremamente shocking che un bianco potesse mescolarsi, su
un tram, a gente di altro colore. Qualche mese prima un altro italiano, il
dottor Gandini, che rappresentava una compagnia di esportazione, aveva inviato
in Italia la moglie che non sopportava il clima.
Gandini era un bell’uomo, vivace e intelligente. Durante
la prima settimana che i coniugi Grande si trovavano a Bangkok, egli invitò
Vincenzina e suo marito ad un pranzo cui avrebbero dovuto partecipare anche i
Valenzani e l’ing. Marucco; senza consultare Ettore Vincenzina accettò.
La sera fissata per la cena Ettore e sua moglie non si
fecero vedere, Gandini andò a cercarli al Club e li trovò in costume sportivo.
Ettore finse di essersi dimenticato dell’impegno e disse che non poteva
intervenire. Questo formale rispetto degli usi protocollari irritava
profondamente Vincenzina, perché la sua unica misura di giudizio era la
simpatia o l’antipatia personale che provava per una persona. Vincenzina
avrebbe preferito frequentare la signora Valenzani ma suo marito desiderava,
evidentemente, che il giro d’amicizie di sua moglie rientrasse nella cerchia
della legazione. Così le visite tra le due giovani donne divennero sempre meno
frequenti, e Vincenzina entrò a far parte dell’ambiente familiare dei coniugi
Umiltà, che per l’età potevano essere i suoi nonni.
Anche i ricevimenti alla legazione non erano molto
brillanti, a base di aranciate e di sciroppo di menta. La conversazione con gli
ospiti stranieri era sostenuta particolarmente da Grande, che conosceva le
lingue molto bene. Il suo arrivo a Bangkok aveva, nel giudizio dei
connazionali, rialzato il prestigio della nostra legazione; si era conquistato,
coi suoi modi corretti e impeccabili, se non la simpatia per lo meno la stima
dei colleghi stranieri.
Ettore avrebbe desiderato fare imparare a sua moglie
l’inglese, che era, per così dire, la lingua ufficiale della colonia europea:
ma Vincenzina, che aveva fatto gli studi magistrali e poi li aveva interrotti,
conosceva solamente il francese, e anche piuttosto male. Così con le altre
signore rimaneva piuttosto imbarazzata, e dopo qualche frase di convenienza che
Ettore le aveva insegnato, rimaneva lì nella penosa situazione di chi finge di
seguire una conversazione e non ne capisce neppure una parola.
Queste furono le esperienze dei primi tempi: tuttavia
Vincenzina era una ragazza di spirito e allo Sport Club si mostrava
assai più animata di tutte le signore presenti, cercava in qualche modo di
superare le difficoltà della lingua e dell’etichetta. E questi tentativi
riuscirono simpatici a tutti, ma stupirono un po’. Per questo, forse, qualcuno
ebbe a dire di lei: “Une drôle de femme”.
Verso la fine del mese di agosto partecipò alla prima
grande festa della stagione, quella del compleanno del re, che aveva allora
dodici anni e studiava in un collegio svizzero. “Ho indossato”, scriveva, “il
vestito bianco della Mattè, quello coi renards azzurri, e stavo proprio molto
bene”.
I vestiti di Vincenzina hanno una parte molto importante nella storia
della tragedia di Bangkok. In ogni lettera si parla di essi, e sovente
rispecchiano meglio di ogni altra considerazione lo stato d’animo della donna.
Era venuta in quel paese con un corredo da sbalordire, e ora era costretta a tenerlo
chiuso nelle casse, vedendolo consumarsi, sbiadire ogni giorno di più, a causa
della straordinaria umidità.
Frattanto Ettore cercava casa: aveva trovato una
villa di otto camere, a due piani, una specie di bungalow, circondato da un
giardino dove c’era anche un laghetto. Si trovava un po’ fuori della città, in
una strada periferica e tranquilla, la Rayadamri Road. Anche dell’arredamento
si era occupato lo stesso Grande, aveva acquistato la camera da letto della
signora Valenzani che stava per partire nuovamente per l’Italia; era in legno
di teak, di stile novecento, piuttosto lugubre. Gli altri mobili erano stati
fatti su ordinazione da artigiani cinesi, in stile occidentale.
In questa loro sistemazione definitiva era stato di
grande aiuto un altro personaggio della legazione, il console Bovo, “un
genovese”, come lo definiva Vincenzina, “che è qui da trent’anni, ed è l’ordine
e la precisione in persona”. Bovo non era diplomatico di carriera, era
semplicemente console onorario e in realtà, per la sua conoscenza del paese,
costituiva un appoggio prezioso per la legazione. Era un ometto elegante,
azzimato, il tipo di vecchio scapolo cui piace raccontare una barzelletta e
fare il cavalier servente delle signore.
Vincenzina, armata di un lungo bastone per difendersi dai
cani (che nel Siam erano sacri e si contavano a migliaia) faceva qualche
passeggiata con lui, che conosceva palmo a palmo il paese. Trovava nel console
un orecchio compiacente e disposto ad ascoltare i suoi sfoghi contro quel paese
infernale. Vincenzina sovente soleva paragonare Bangkok a Torino, talvolta
riusciva a scoprire perfino certe analogie, il che anziché rallegrarla acuiva
maggiormente la sua nostalgia.
Così, intanto, era passato un mese, e precisamente
trentatré giorni da quando erano arrivati: il bungalow alla fine di settembre
era pronto, ma solamente quattro giorni dopo gli sposi ne presero possesso.
Vincenzina indugiava, senza farlo mai chiaramente intendere: non aveva mai
dimostrato soverchio entusiasmo per quella casa che doveva diventare sua, vi si
era piuttosto rassegnata. La vita dell’albergo le dava, se non altro, il senso
della provvisorietà, l’illusione di poter partire da un momento all’altro: ora
invece bisognava accettare il fatto compiuto, rimanere, e il minimo della
permanenza era di un anno e mezzo.
Quando i Grande entrarono la casa non era
ancora del tutto a posto perché temevano i furti dei boys, come si chiamavano i
domestici cinesi. Ettore era solito ripetere che i cinesi prima imparano a
mentire e in seguito a parlare: ne avevano sette, che facevano capo tutti al
primo boy, il quale si assumeva la responsabilità di tutto ed era l’unico a
trattare direttamente coi padroni. Non era raro però che egli stesso asportasse
discretamente tutti gli oggetti che poteva, che poi rivendeva al sampong
(specie di mercato, dove si potevano agevolmente ricomprare).
Se Ettore pensava che la nuova residenza, l’avere una
casa propria, avrebbe potuto influire sullo stato d’animo della moglie, avremmo
una prova della sua ingenuità: la solitudine di quella casa troppo grande,
troppo silenziosa, popolata da quei cinesi che comparivano all’improvviso
davanti senza che se ne potesse accorgere, doveva avere senza dubbio delle
ripercussioni sul suo sistema nervoso. I mobili erano anonimi, di cattivo
gusto, non era certo quello il tipo di casa che Vincenzina aveva sognato.
Perciò ella vi rimane il meno possibile: tuttavia si reca al Club sempre
meno di frequente, prende gusto alle passeggiate solitarie. “Talvolta”,
riferirà Ettore, "giungevo a casa e mia moglie non c’era, era uscita senza dir
nulla: allora con la macchina andavo in cerca di lei”.
Sembra, adesso, che Vincenzina voglia cullare la propria
malinconia, e allora le preoccupazioni di suo marito divengono più frequenti.
Non rimane inattivo e decide di mandarla in villeggiatura sulle montagne
dell’Indocina insieme alla moglie di un collega, sollecita un cambiamento di
residenza, dichiarandosi disposto a sostituire temporaneamente a Singapore,
dove il clima è più mite, il console Perego. Ma Vincenzina, quando la domanda è
già spedita, rinuncia al progetto. Probabilmente era entrata in una nuova fase,
più pericolosa ancora, in quella sorta di amara voluttà di chi ama compiacersi
delle proprie pene. I mosquitos la divorano continuamente, i riccioli con
l’umidità si disfano immediatamente e anche la distrazione del parrucchiere
russo è resa ormai superflua. Ci rinuncia e rinuncia anche a cambiare tanti
vestiti, accetta l’opinione comune e i consigli della signora Umiltà che le
dice: “Qui gli abiti sono tutti sprecati”.
L’unico svago che le è rimasto è il cinematografo: a
Bangkok vi sono quattro locali, ma in uno solo è possibile entrare agli
europei. Due sono cinesi ed un terzo è troppo piccolo. Venivano proiettati dei
film vecchi di sette o otto anni, per lo più parlati in inglese, e Vincenzina
sovente si addormentava.
Verso la fine del mese la signora Valenzani partì.
Vincenzina aveva promesso di andare alla stazione un’ora prima, “per poter
rimanere un poco insieme”, e all’amica era parso che questa frase venisse
sottolineata in modo particolare. I coniugi Grande giunsero invece
contemporaneamente all’ultimo momento, mentre il treno si stava mettendo in
moto. Vincenzina scoppiò in lacrime e le sue ultime parole furono: “Fortunata
lei che parte, come la invidio!”. La signora Valenzani rimase tanto
impressionata del senso di disperazione che esprimeva il volto della sua amica,
che durante il viaggio le scrisse una cartolina, poi una lettera, con
l’intenzione di confortarla.
Pochi giorni dopo Vincenzina si accorse probabilmente di
essere in stato interessante, ma non ne era sicura e quindi non ne fece cenno
neppure nelle lettere scritte a sua madre.
L’ultimo periodo della sua permanenza a Bangkok non fu né
più triste né più lieto di quello precedente. La linea della sua disperazione
non è né costante né progressiva, ma segue gli alti e bassi improvvisi, propri
di un temperamento impulsivo. Pochi giorni dopo aver lasciato l’albergo ed
essere entrata nella sua nuova casa, scrive: “Questa è la città più
terribilmente monotona che possa esistere… Non c’è musica, non ci sono caffè,
non ristoranti, né teatri… Come dancing vi è un vero baraccone di legno, orribile,
dove vanno gli europei e tutti, e ballano con un’orchestra atroce di siamesi”.
E più oltre: “… Che ironia dire che l’Oriente è un sogno, a meno che sia un
incubo, io quando starò male lo sognerò”.
E’ la stessa mano che il mese
seguente descrive quasi con allegria il menu di una cena offerta al ristorante
cinese dal Marchese Cambiaso, a base di nidi di rondine e pinne di pescecane.
Ogni novità, anche futile, costituiva pur sempre un appiglio per il suo
temperamento ottimista, naturalmente facile all’entusiasmo. In quei giorni,
tredici e quattordici novembre, ebbero inizio i festeggiamenti per il solenne
ritorno del re dalla Svizzera . Sulle acque del Menam un’infinità di barche
dorate e variopinte, coi baldacchini multicolori, si profilavano contro il cielo.
Ci fu una gita notturna a bordo di una nave per visitare le rovine di Adjuthia,
con un grande pranzo e una festa da ballo a bordo. Durante questa gita la
freddezza tra i due coniugi fu rilevata da molti: sembrava che Ettore e
Vincenzina evitassero d’incontrarsi. La signora Umiltà, che la rivide al
ritorno, la trovò più melanconica che mai.
Si ricordò di averla veduta un giorno stringere un
pupazzo al seno e domandargli angosciosamente: “Dimmi, parlami almeno tu, che
qualche volta mi sembra d’impazzire”. La sua ultima lettera è del giorno venti,
il nome di Ettore vi ricorre una volta, per inciso come al solito e su un
particolare di scarsa importanza: è un accenno al profumo Caron che suo marito
ha fatto richiedere in Francia.
Gli ultimi tre giorni sono senza storia: la sera del
ventidue novembre, vigilia della tragedia, i Grande andarono come al solito allo Sport Club. Ettore si era allontanato per giocare con un collega
inglese una partita a golf, e Vincenzina sembrò ai presenti contrariata di
essere lasciata sola. Poi si riprese, raccontò una barzelletta, e siccome un
francese lì presente mostrava la sua abilità nel fare mentalmente dei calcoli
matematici, ella disse sorridendo: “Pensare che io non sono neanche più capace
di contare fino a dieci”. Poi, essendosi il ministro Umiltà seduto al piano,
Vincenzina gli si avvicinò: scelsero un pezzo della Fedora ed ella, a voce
bassa, si mise ad accompagnarlo.
Inchiesta di Enrico Roda da "Oggi" 1949
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