venerdì 28 settembre 2018

LA DOMESTICA DI THIENE SI RISVEGLIO' UOMO







Il destino di Maria Negrin mutò il suo corso drammaticamente nel pomeriggio di domenica 22 agosto 1954, quando la ragazza fu portata in gravissime condizioni all’ospedale di Thiene. Era ferita alla faccia, con deformazione al viso per la frattura comminuta esposta della mandibola, aveva una commozione cerebrale. I medici la ricoverarono d’urgenza, in prognosi riservata. Poco prima, viaggiando su un ciclomotore sulla strada che da Zané porta ad Arsiero, nei pressi di Piovene Rocchette aveva perso il controllo del veicolo, aveva cominciato a sbandare. Era rotolata sull’asfalto, rimanendo immobile, con una grave ferita al viso.

Fino a quel momento, la giornata di Maria Negrin era stata simile a tutte le altre domeniche di una domestica veneta. Maria aveva ventiquattro anni. Suo padre era operaio, sua madre una donna del popolo; appena cresciuta la ragazza aveva dovuto cercarsi un mestiere ed era andata a servizio. Da qualche tempo era domestica presso la famiglia Grendene di Thiene: una domestica come tante, comune, con un corpo robusto e resistente alla fatica, grandi occhi neri, il naso un po’ piatto, le labbra grosse e folti capelli scuri. 

Domenica 22 agosto, dunque, Maria durante il suo pomeriggio di libertà era tornata a casa a Zané; aveva ottenuto in prestito il ciclomotore dal fratello Giuseppe, puntando su Arsiero. Poco dopo accadeva la disgrazia.

Per dieci giorni Maria Negrin lottò contro la morte. Pareva che per lei vi fossero poche speranze ed invece la sua eccezionale resistenza fisica ebbe il sopravvento: poco per volta la ragazza si riprese, si avviò lentamente verso la guarigione. E fu allora che si ebbe l’incredibile rivelazione che ha mutato la vita, letteralmente, della domestica vicentina. 

La prima scoperta la fece un’infermiera che la assistette durante il delirio. Più che una scoperta si trattava di sospetti, di perplessità: l’infermiera, per molti particolari, non era ben certa che quella paziente moribonda fosse una donna, e se lo era aveva caratteri ben strani per un essere femminile. Quando quei dubbi, dopo cauti esami, si furono rafforzati, fece rapporto ai propri superiori.

Cominciarono visite precise, ispezioni scientifiche, ma non vi fu motivo di incertezze: Maria Negrin era un uomo, molto evidentemente, senza che vi fosse necessità di operazioni di sorta.

La curiosità generale si scatenò sul singolarissimo caso. “Il ferito” di Piovene Rocchette confessò di aver conosciuto il suo stato da gran tempo, ma di averlo sempre taciuto, preferendo continuare a vivere secondo lo stato civile che lo indicava femmina, piuttosto che secondo la natura che lo rivelava maschio. E questo è appunto il mistero

Questa la singolarità eccezionale, la parte umanamente oscura e triste della vicenda: la sorte di quest’uomo che sa di essere tale in realtà e che la società e la legge vogliono donna, che vive per anni e anni nell’ambigua condizione, deciso forse a perpetuarla per tutto il resto dei suoi giorni, per timidezza o per calcolo, per convenienza o per vergogna, chiuso nel suo segreto, in un ambiente che ignora l’incomprensibile e miserevole dramma.

Maria (o meglio Mario) Negrin è ancora molto debole e i sanitari lo isolano giustamente dalla curiosità altrui. Non si sa se abbia fatto dichiarazioni, tranne quella, sensazionale, che conosceva il suo stato, pur vivendo da donna. La sua vita è sempre stata normale: è noto però che ai balli, quando andava, preferiva danzare valzer e tanghi con ragazze, rifiutando gli inviti maschili. E’ certo che non ha mai avuto fidanzati, ma anche le sue conoscenze femminili erano scarse. Lavorava seriamente, con buona volontà: la sua padrona, la signora Lena Grendene, ha dichiarato che si comportava con zelo ed onestà, sopportando grosse fatiche.

Per i sanitari, dal punto di vista medico, il caso di Mario/Maria non ha nulla di eccezionale. Egli è uomo senza possibilità di dubbio. Da questo lato, il problema sarà unicamente di rieducazione psicologica.

Per la levatrice Angelica Carollo, che ventiquattro anni or sono aiutò la signora Angela Negrin a dare alla luce la sua creatura, il neonato era allora di sesso femminile, o almeno pareva tale: pertanto, il mutamento sarebbe avvenuto successivamente. Del resto incertezze sulla determinazione del sesso, per imperfetta presentazione dei relativi caratteri, sono abbastanza frequenti al momento della nascita.

I genitori del protagonista dell’eccezionale episodio, sono sbalorditi. Il padre di Mario, l’operaio Giulio Negrin, non aveva mai avuto il più piccolo sospetto che sua figlia fosse un figlio. Non può adattarsi all’idea che dall’ospedale gli rimandino a casa una persona che non è quella che ha sempre amato: e tira fuori del portafogli una fotografia di “Maria”. Si vede una ragazza dall’espressione dolce, con gli occhi mansueti, i capelli ondulati, una camicetta bianca alla “Robespierre” sul tailleur scuro. Nessuno immaginerebbe, in realtà, che quella sia l’effigie di un pezzo di ragazzo in età di andare soldato.

Intanto i medici hanno per Mario/Maria tutte le cure. Ha subito proprio in questi giorni un serio intervento di plastica facciale che annullerà le conseguenze estetiche della sua ferita, è circondata da ogni attenzione. Sarà, con ogni probabilità, sottoposto ad ulteriori visite ed esami, anche perché ora la sua situazione civile si complica e si presentano per lui numerosi nuovi problemi.

Per cominciare dal più elementare: uscirà dall’ospedale vestito da uomo o da donna? Quale lavoro cercherà, da ora innanzi? Come si comporterà con i vecchi amici, con le vecchie amiche? C’è poi la sua situazione allo stato civile che va corretta e, di conseguenza, molto probabilmente Mario Negrin dovrà prestare servizio militare. Infine, se risultasse che egli ha simulato il suo stato, potrebbe subire, proprio in relazione al finora mancato servizio militare, delle conseguenze penali. Prospettive, quindi, complesse e confuse.

Per esempio, ha cominciato a farsi viva l’autorità giudiziaria, la quale sta per avanzare richiesta di una relazione medica allo scopo di stabilire gli eventuali mutamenti da far apporre al registro dello stato civile, e una richiesta analoga è stata avanzata dall’ufficiale di stato civile di Zané, anche se l’autorità competente a far promuovere la causa che sarà discussa alla sezione civile del tribunale è solamente quella giudiziaria. Solo allora saranno mutati i registri: fino a quel momento Mario Negrin sarà maschio per la scienza e femmina per la legge, per la famiglia e – forse – per sé.

Psicologicamente la vicenda di Mario Negrin è certamente complessa e degna di comprensione. Probabilmente, educato da bambina, cresciuto da bambina, convinto di essere tale, si è accorto ad un certo punto della sua vera condizione fisica e ne è rimasto sconvolto ed atterrito, nella convinzione – forse – di essere imperfetto o minorato. Ed allora ha nascosto il suo stato a tutti, si è adattato ad una condizione umana falsa e segreta, pur di non affrontare il rischio di una supposta vergogna. Poi, in un pomeriggio di agosto, sulla strada assolata che porta ad Arsiero, è avvenuta la disgrazia che doveva clamorosamente rendere pubblica tutta la verità.



Articolo di Silvio Bertoldi da “Oggi” nr. 39 del 30/9/1954


UNA DIABOLICA PERPETUA






La sera del 5 agosto 1948 mani ignote avevano deposto davanti alla chiesa di Gainago, piccola frazione del comune di Torrile nella campagna parmense, un ordigno esplosivo che, scoppiando con fragore, aveva ferito gravemente all'addome la moglie del campanaro, Serena Panciroli, mentre il portale del tempio veniva divelto e sconquassato e i vetri dell'abside infranti dalla deflagrazione.

Tre mesi dopo un altro ordigno, stavolta una hande bombe tedesca, col manico, veniva appeso mediante una funicella tra un palo e la grondaia della chiesa, a circa un metro da terra: il campanaro, rincasando di notte in bicicletta, spezzava lo spago ma la bomba fortunatamente non scoppiava perchè la sicurezza non era stata tolta. Una terza bomba ad alto potenziale veniva posta, il 21 gennaio 1949, in una finestrella davanti all'ingresso della casa del campanaro, ma anche stavolta l'ordigno rimase inesploso.

Dopo questi fatti, gli abitanti di Gainago, e primo fra tutti l'arciprete Don Ireneo Gabelli, vivevano giornate di incubo, dato che l'ipotesi più attendibile sul movente degli attentati era che questi fossero opera di una banda di terroristi decisa a far saltare la chiesa.

Ora, prima di continuare la narrazione delle vicende delittuose, è necessario rifarsi a una domenica dell'estate 1948, quando venne organizzata una gara di micromotori che si svolse nel parco della villa dei marchesi Balduino, con grande concorso di pubblico, affluito anche dai paesi vicini. 

La corsa venne vinta da un giovanotto di Colorno, il ventitreenne Egidio Malanca, noto in tutta la zona come un giovane animoso ma un tantino "picchiatello", il quale si sentì particolarmente lusingato allorchè, dopo la vittoria conseguita, gli sembrò di vedere posarsi su di lui lo sguardo ammirato della nipote del marchese, la marchesina Stefania, di cui era segretamente innamorato. Egidio confidò questo suo segreto alla domestica del parroco, Clelia Cotti, una donna molto scaltra e arruffona, sulla cinquantina.

La Clelia era da circa sei anni domestica di Don Gabelli, il quale non aveva mai avuto a lagnarsi dei suoi servigi. Avute le confidenze del giovane, essa lo consigliò di scrivere a Stefania, e lei - la Clelia - avrebbe provveduto a recapitare nelle mani della marchesina il messaggio. Egidio Malanca si attenne al consiglio e scrisse un'appassionata dichiarazione d'amore.

Non sappiamo se nella mente fantasiosa della Clelia fosse già germinato il piano diabolico che doveva trascinare alla perdizione il giovane innamorato e sconvolgere la tranquillità di tutto il paese, ma è certo che essa finse di consegnare la lettera alla ignara destinataria e di suo pugno rispose al galante giovanotto con una lettera altrettanto appassionata.

Naturalmente, dopo questo primo successo, si stabilì tra lui e la presunta Stefania una corrispondenza epistolare che aveva il tono sentimentale e sconsolato degli amori contrastati, perchè la Clelia aveva l'accortezza di scrivere al giovane nelle sue apocrife missive: "Quando mi incontri fingi di non conoscermi perchè mio nonno è molto severo e non approverebbe questa nostra relazione". La scrivente, inoltre, giocava d'astuzia per trarne un personale profitto e spesso, tra le proteste d'amore, inseriva raccomandazioni come questa: "Cerca di compensare la serva del prete che ci agevola e ci protegge". Così, a più riprese, il giovane innamorato consegnò nelle mani della intermediaria somme di denaro e anche regali, destinati a Stefania.

A questo punto la farsa rotola nella tragedia: e questo accade allorchè la scrivente accenna agli "ostacoli che si frappongono al nostro amore" e a un tale Giuseppe Mora "che va a raccontare tutto e ci intralcia". Questo Giuseppe Mora è il campanaro della chiesa, un bravo ragazzo umile e devoto. Perchè la Clelia nutrisse per lui un odio così feroce non ci è dato di sapere, ma l'ipotesi che il giovane campanaro avesse respinto le sue profferte d'amore è quella che trova maggior credito. 

Insomma, l'inesorabile Perpetua aveva in animo di "far fuori" il campanaro: e in una delle sue apocrife missive sceisse al giovane Egidio informandolo che l'unico ostacolo al loro sogno d'amore era il campanaro e che, pertanto, era necessario toglierlo di mezzo.

Fu allora che Egidio Malanca, reso cieco dalla passione e ormai dominato dal demone del delitto, trasse da un nascondiglio delle bombe che teneva occultate dai tempi della lotta clandestina, iniziando la serie degli attentati presso la chiesa.

La diabolica serva, però, non aveva ancora esaurito le sue riserve di malvagità. Infatti, in una delle sue ultime lettere, scriveva al giovane prospettandogli la possibilità di una romantica fuga. Occorreva però denaro, molto denaro, e allora gli suggerì di inviare al nonno, marchese Balduino, una lettera minatoria, imponendogli, pena la morte, di depositare un milione sulla panca di famiglia nella chiesa di Gainago.

E' indubbio che il Malanca, la cui mente era ormai completamente sconvolta, si sarebbe fatto anche ricattatore. Ma ormai le incessanti indagini condotte dal tenente Genovesi e dal maresciallo Sciuto avevano portato i carabinieri sulle buone tracce, e prima che anche  quel proposito fosse mandato ad effetto, il Malanca veniva arrestato e dal suo interrogatorio emergevano le gravi responsabilità della perfida Perpetua.

La Cotti venne a sua volta interrogata dal maresciallo, ma essa negò disperatamente, quindi fuggì a Parma, dove venne arrestata. 

Ormai c'erano prove schiaccianti che la accusavano inesorabilmente: infatti, in seguito ad una perquisizione effettuata nella sua stanza presso la canonica, vennero trovati sotto il materasso i gioielli destinati in dono alla marchesina e tutte le lettere che il Malanca aveva inviato alla ignara destinataria.



Articolo di Walter Minardi da "Oggi" del 1949

IL PATTO DELLA POSTINA GOBBA



A Lanzara, una piccola frazione di Castel San Giorgio in provincia di Salerno, dove vivevano poco più di mille abitanti, accadde nel 1954 un episodio da molti ritenuto prodigioso.

Ne fu protagonista una figura caratteristica del paese, Anna Rescigno, la postina gobba. Dal 1931 la Rescigno era la postina titolare di Lanzara, dopo aver esercitato per diversi anni le funzioni di supplente. Nei primi tempi la gente non l’aveva guardata di buon occhio e molti quando, aperto l’uscio di casa, se la vedevano davanti con la sua busta delle lettere a tracolla, facevano gli scongiuri prima di ricevere dalle sue mani la posta. Ma questo, fortunatamente, durò poco: Anna era una brava donna, sempre di buon umore, discreta, cortese, e riuscì in poco tempo ad accattivarsi le simpatie di tutti.

Anna aveva un’aiutante: la madre, Clorinda Capuano. Questa morì a ottantadue anni, eppure, fino a pochi giorni prima che un attacco cerebrale la stroncasse era andata in giro a consegnare la posta urgente, espressi e telegrammi, durante l’assenza della figlia che stava compiendo il suo giro. Gli espressi e i telegrammi non potevano certo essere distribuiti con comodo, e Clorinda Capuano attraversava di corsa le strade per farli arrivare presto a destinazione.

La domenica per Anna Rescigno e per la madre era giornata di riposo. Ma la postina gobba non se la sentiva di restare per una giornata inattiva, tanto che la mattinata della domenica la dedicò volontariamente alla raccolta settimanale delle offerte, destinate a far dire messe in suffragio delle “anime del purgatorio”

Per quella colletta ella bussava a tutte le porte di Lanzara, e mai invano, perché nessuno aveva il coraggio di dirle di no. Le ore di libertà le trascorreva con la madre: le due donne si adoravano, non potevano fare a meno l’una dell’altra, e un giorno esse strinsero tra loro uno strano patto, un patto incredibile, che fece sorridere chi lo conobbe. Secondo lo straordinario accordo, quella delle due che fosse morta per prima avrebbe “chiamato” presso di sé, nello spazio massimo di quattro mesi, la superstite.

Sembrava uno scherzo, eppure le due donne presero molto sul serio quella promessa, e ne parlavano come di un impegno d’onore, meravigliandosi dell’incredulità e dei commenti ironici che il racconto del loro patto suscitava.

Passò molto tempo, e nessuno a Lanzara pensava più al singolare contratto stipulato dalla postina e dalla madre.

La mattina del 15 agosto 1953 Clorinda Capuano morì, all’improvviso, senza aver potuto dire alla figlia nemmeno una parola.

Anna rimase sola. Le rimaneva un fratello, Giovanni, che era sposato con figli e abitava altrove, ma ella non si sentiva di lasciare la casa nella quale era vissuta con la madre: doveva rimanere lì, ad aspettare la chiamata che non poteva tardare. 

Continuò il suo lavoro, ma non era più quella di prima, il suo buonumore era scomparso. Riusciva a sorridere soltanto quando parlava del giorno in cui la madre l’avrebbe chiamata a sé, secondo il patto che avevano stipulato. Che cosa le importava se la gente si mostrava incredula, persino beffarda, quando accennava a quell’argomento? L’evento che attendeva si sarebbe verificato prima o poi. Si trattava soltanto di aspettare.

Ma i giorni, le settimane passavano, la postina gobba continuava a portare ai suoi compaesani e agli abitanti delle frazioni vicine gioie, dolori, speranze, con la posta di ogni giorno. E la domenica mattina continuava ad andare in giro per la questua, e ogni domenica era sicura che quella sarebbe stata l’ultima volta. Come sempre non avvertiva la stanchezza, mai si era sentita così bene. “Morirai vecchia come tua madre”, le diceva la gente che sapeva del patto, per canzonarla.

Trascorse un mese, ne trascorsero due, tre, e Anna Rescigno continuava a percorrere i suoi otto chilometri quotidiani con la borsa della posta a tracolla.

Il 14 dicembre la postina gobba stava attraversando la campagna, seguendo una delle tante scorciatoie che ella stessa aveva trovate per rendere più rapido il suo giro. Era una mattinata quasi primaverile: nel cortile davanti ad una casa colonica alcuni ragazzi stavano giocando. La videro da lontano, la riconobbero, e stavano per correrle incontro quando Anna si portò la mano alla gola e cadde di schianto.

Dalla casa accorse gente, la sollevarono, la adagiarono su un letto: andarono a chiamare il medico. Anna Rescigno si riebbe per un istante solo, sollevò la testa e mormorò tre parole: “Mamma, sto venendo”. Poi non disse più nulla. Il medico che la visitò, il dottor Francesco Alfano, disse che non c’era più niente da fare: Anna Rescigno era stata colpita da una trombosi cerebrale, lo stesso male che aveva portato sua madre alla tomba.

Il fratello, che avvisato era accorso al suo capezzale, prese la borsa della posta: le lettere dovevano essere distribuite, e continuò il giro che la sorella era stata costretta ad interrompere.

Quando ebbe terminato dovette aiutare a trasportare il corpo inerte della sorella a casa. Ella non riprese più conoscenza e si spense il mattino del 15 dicembre, esattamente quattro mesi dopo la morte della madre, allo scadere del termine dell’incredibile contratto.



 Articolo di Corrado Martucci da “Oggi” nr. 1 del 7/1/1954