Terzo episodio
Quarto episodio
Quinto episodio
Sesto episodio
Settimo episodio
Ottavo episodio
Conclusione
Gli sposi salirono insieme la
scaletta dell’imbarcadero; Ettore teneva la moglie stretta contro di sé e Nino
Virando, giunto a Venezia per salutarli ancora una volta, ebbe una specie di
presentimento. Avrebbe forse voluto richiamare la Nina: contemporaneamente le
sirene del Conte Rosso si misero a urlare, e quel gemito prolungato sembrava
quasi confermare i suoi sentimenti.
Era salito a bordo Amedeo duca d’Aosta, che
andava ad occupare la carica di viceré in Etiopia, sicché le misure di
sicurezza erano più severe del solito: Nino, senza passaporto, non aveva potuto
salire sulla nave e gli ultimi saluti furono scambiati dal ponte di poppa, col
braccio levato. Vincenzina rimase in quell’atteggiamento anche quando la figura
del fratello si confuse sulla banchina con quella degli altri. Era il quattro
agosto del 1938, la guerra era imminente e quel distacco non doveva essere
tragico soltanto per lei. Suo marito non aveva badato a spese e si era fatto
assegnare una cabina a due letti col bagno, nella classe di lusso, adiacente a
quella del duca d’Aosta. Quando Vincenzina lo seppe, fu così lusingata che
riuscì a ricacciare la commozione suscitata da quel definitivo distacco dalla
famiglia.
Del resto, aveva tante altre cose con cui
distrarsi: gli sposi erano saliti a bordo con una quantità di bagagli,
trentadue in tutto, tra cui tre grandi bauli adibiti ad armadio. Vincenzina
portava con sé una collezione di modelli, destinata a farla diventare la
signora più elegante di Bangkok: aveva acquistato a Torino degli “esclusivi” di
Bemporad, di Ferrarone, della Mattè, portava perfino con sé una cappa di
ermellino, che era stato un regalo di nozze di sua madre, senza pensare che il
clima tropicale le avrebbe impedito di indossarla.
L’occupazione di disporre il suo guardaroba
aveva riempito le prime ore dopo la partenza. “Mentre vi scrivo”, dice Ettore
nella sua prima lettera da bordo, “siamo da un paio d’ore ancorati alla
Giudecca. La cara Nina è in cabina tutta affaccendata a mettersi a posto alcune
sue toilettes, con una precisione e un ordine da far invidia alla più ordinata
signora”. Era lui che in questi primi giorni di matrimonio si incaricava della
corrispondenza, e le sue espressioni erano uscite dalla riservatezza consueta.
Al suocero si era spinto a dire: “Sta sicuro e tranquillo che quanto hai detto
a noi non sarà dimenticato da me, che ho la grande e bella responsabilità di
vedermi confidata la tua figliola, la cara Nina che è ormai la ragione della
mia vita”.
Espressioni che sembravano sincere, ma che
erano state scritte però a una settimana dal matrimonio.
Aveva in quei giorni anche altre
occupazioni, scendeva sovente sotto coperta ad ammirare la sua cabriolet 1500,
stivata con altre ventisei automobili, e rimaneva a guardarla con orgoglio.
Inventariava i regali: gli era piaciuto particolarmente quello dei suoi
colleghi del ministero, giuntogli al momento dell’imbarco, un secchiello
d’argento cesellato per tenere lo champagne in ghiaccio. La vita a bordo era di
tenore particolarmente elevato: forse in omaggio all’ospite della famiglia
reale, quasi ogni sera c’era una festa da ballo, e Vincenzina con suo marito
sembravano divertirsi. “Chi vive”, ha detto qualcuno, “non ha bisogno di scrivere”,
e infatti, contrariamente a quanto avverrà in seguito, Vincenzina per tutta la
durata del viaggio si limiterà ad aggiungere qualche frase alle lettere del
marito.
“Siamo in pieno Mediterraneo, con un mare
calmo e un cielo magnifico, e ci avviciniamo a Porto Said, dove arriveremo
stasera. Il viaggio procede ottimamente, trascorriamo la mattina in piscina,
dove incontriamo sempre il duca d’Aosta, che è molto affabile e si intrattiene
sovente con la Nina. Il pomeriggio passa celermente e la sera, dopo il pranzo,
vi sono sempre musica da ballo o giuochi di bordo. La Nina è perseguitata dalla
fortuna, ieri ha vinto la gara di velocità della nave e oggi nuovamente figura
tra le vincenti”: Segue un frettoloso post-scriptum della Nina: “La prossima
volta scriverò io, ho tante cose da dirvi. Siamo arrivati in questo momento a
Porto Said, è tutta illuminata. Vi penso tanto…”
Ella si trovava sempre in quello
stato di euforia che le aveva dettato la prima lettera da Venezia: come tutte
le persone felici, o che per lo meno si ritengono tali, credeva che neppure un
minuto potesse essere sottratto alla propria felicità. Incontrava il duca
d’Aosta in piscina, qualche volta nuotavano insieme. Amedeo le aveva detto. “Se
ha dei bambini, insegni loro il nuoto”; era una frase di pura cortesia ma che
proveniva da un principe, e Vincenzina, che era molto suscettibile a questa
specie di vanità, ne era particolarmente orgogliosa.
Una sera ci fu un ballo mascherato,
e una signora indiana che era a bordo le diede in prestito il proprio costume.
Vincenzina, così bionda, con quegli occhi grigi, aveva saputo dare un fascino
particolare alla propria fisionomia valendosi di questo contrasto. Fu giudicata
la signora più elegante a bordo e vinse un premio. La gara di velocità, cui accenna
Ettore nella sua lettera, era quella dei cavallini, azionati meccanicamente, su
cui si doveva puntare. Era un giuoco di moda, una specie di roulette marittima
che vent’anni dopo era ancora molto in uso sui transatlantici. Le vincite di
Nina erano così frequenti che ella stessa dubitava di essere favorita, con
qualche trucco innocente, dagli ufficiali che organizzavano il giuoco.
Lasciato Porto Said, il Conte Rosso seguì
questa rotta: toccò Massaua e poi Assab, dove il duca d’Aosta sbarcò, anche lui
per non più ritornare. Il viaggio proseguiva piuttosto lentamente, ad andatura
turistica: Ettore e Vincenzina ebbero modo di fermarsi qualche giorno ad Aden,
a Bombay, a Colombo. Ad Aden, Ettore le fece visitare un’oasi, e a Bombay la
condusse alla Torre del Silenzio, la celebre Malabar Hill. Da Colombo si
addentrarono nell’isola di Ceylon: Ettore aveva ereditato da suo padre il
metodo quasi didattico di visitare i luoghi, usava il Baedeker, si interessava
alle antichità e ai monumenti quasi più che al folklore. Per Vincenzina invece
era diverso: a Ceylon, per esempio, rimase soltanto incantata di pranzare in un
albergo dove funzionavano contemporaneamente trenta ventilatori, e altrettanti,
di piccole dimensioni, erano posti sui tavoli da pranzo. Ma la sua attenzione
si fermava anche sulle figure umane che le capitava d’incontrare. A Colombo fu
particolarmente colpita da una donna che indossava il costume indiano, ma come
lei biondissima, con i capelli giù per le spalle, gli occhi celesti e la pelle
bianchissima. La descriverà in due lettere, alla madre e alla cugina Tutu, con
un gusto e una precisione come se vi vedesse dentro il riflesso della propria
immagine, nella felice serata del Conte Rosso, al ballo mascherato.
Il tempo si mantenne bellissimo, anche l’umore
dei coniugi durante il resto del viaggio non subì alterazioni evidenti.
Facevano fotografie, spedivano cartoline, si mostravano sempre insieme al bar o
sulla passeggiata. Solo, quelle manifestazioni ingenue e talvolta puerili, che
rivelano così facilmente due sposi in viaggio di nozze, non si scorgevano più.
I testimoni, il comandante stesso della nave, avranno occasione di riferire:
“Andavano d’accordo, ma non sembravano due innamorati”. A bordo, chi non lo
sapeva, si stupiva che il giovane diplomatico fosse in viaggio di nozze e in
questo momento, se occorresse una prova, l’interesse stesso del viaggio era
caduto quasi improvvisamente nell’animo di Vincenzina.
Arrivando ad Aden, Vincenzina
ripiegava sopra se stessa: tutta quella festosità di colori che offriva
l’Oriente sembrava ingenerarle un sentimento come di sazietà, quasi di
avversione. A pochi giorni dalla partenza aveva scritto ai genitori: “Ho tante
cose da dirvi”, e in verità allora lo doveva pensare, ma ecco che soltanto a
quindici giorni di distanza le sue impressioni si erano dileguate o per lo meno
era subentrata in lei la convinzione che non valesse ormai più la pena di
raccontarle. Da Bangkok scriverà: “Ho visitato Aden, un inferno di caldo, non
piove che ogni cinque o sei anni: Bombay bella, ma soprattutto sporca: Colombo,
dove ho ammirato il tramonto più tragico e irreale che io abbia mai sognato, è
pulita e interessante”. Non è difficile rilevare da questi giudizi, buttati giù
in fretta quasi per una specie di fastidioso dovere, il riflesso inconsapevole
dell’aridità del proprio stato d’animo. Non un accenno personale, soprattutto
nessun legame tra le cose vedute e la propria intimità, ma una semplice
annotazione di carattere esterno.
Raggiunta Singapore, il viaggio del Conte
Rosso era terminato. Ettore e Vincenzina furono ricevuti ed ospitati dal
console Perego, che reggeva quella legazione. Il giorno stesso del loro arrivo
coincideva con un grandioso ricevimento a bordo di una corazzata francese
ancorata nella rada. Ettore, in giacca bianca, venne fotografato al tavolo del
comandante, accanto a sua moglie che indossava un abito da sera color pervinca,
con un piccolo bolero ornato di strass. Vincenzina, sul retro della fotografia,
scrisse: “Io sto accendendo una sigaretta, perciò sono riuscitissima”. Qui essi
conobbero il Maragià di Johore, principe ereditario del paese, che propose ai
presenti di trascorrere una giornata nella sua reggia.
Per ventiquattro ore, Vincenzina e suo marito
si trovarono trasferiti in un ambiente da “Mille e una Notte”: parteciparono ad
un pranzo, servito secondo i costumi del paese, in mezzo ad una schiera di
servi che si alternavano con una interminabile serie di portate. Poi il Maragià
mostrò ai Grande una raccolta di tesori in oro massiccio e platino; quindi le
signore vennero invitate nell’appartamento privato del principe, che mostrò
un’altra raccolta di brillanti, di pietre preziose, di orologi incastonati di
diamanti. Erano tenuti tutti lì alla rinfusa, in una valigetta da viaggio.
“Come se fossero bottoni da camicia o della chincaglieria di nessunissimo
valore”, osserverà Vincenzina. Ma sembra ormai che niente più possa
impressionarla, e la visita al principe si riassumerà in questa frase
distratta: “Siamo stati ospiti del Maragià di Johore, persona gentilissima”.
Ma forse, per spiegare questo suo nuovo stato
d’animo, questa sua indifferenza a tutto quanto la circondava, c’era una
ragione anche più sottile, ed era il sentimento di solitudine da cui si sentiva
invadere. Avremo una prova di questa malinconia a Penang, isola dell’Oceano
Indiano presso la penisola di Malacca, dove, durante un ricevimento in casa del
nostro agente consolare, Vincenzina uscì in questa affermazione decisa:
“Piuttosto che avere un figlio, preferirei morire”.
Era sposa da diciotto giorni.
Fu questa frase uno dei punti obbligati del
processo che seguì alla sua morte, e venne interpretata in modo diverso e
naturalmente contrastante. Vincenzina non amava i bambini e questo stava a
dimostrare una grave manchevolezza di carattere spirituale, come donna e come
moglie? Era possibile, invece, che la ragazza avesse pronunciato questa frase
per significare che non voleva un figlio da un uomo come suo marito, e questa
fu un’interpretazione della parte civile, un po’ capziosa, forse, ma egualmente
sostenibile.
Forse la verità era un’altra e più semplice, e cioè che non sempre le
frasi da noi pronunciate hanno il valore che letteralmente si attribuiscono
loro: si trattava forse di una semplice boutade. La moglie dell’agente
consolare italiano aveva presentato alla giovane signora i suoi due bambini,
forse con un po’ d’ambizione. Forse tra Ettore e Vincenzina, a bordo del Conte
Rosso, non era avvenuto nulla di romanzesco, né di così grave come è stato
supposto. Più semplice è ritenere che, durante questo singolare viaggio di
nozze, l’incompatibilità tra marito e moglie si sia manifestata in mille
maniere, in particolari, fatti di niente, difficilmente precisabili, ma che non
per questo sono meno gravi di conseguenza.
Già fin d’allora il matrimonio doveva
apparire, per lo meno a Vincenzina, un errore irreparabile.
Durante il periodo di fidanzamento
c’era stata una brusca interruzione. Grande, infatti, aveva deciso di partire
solo, di raggiungere Bangkok, rimandando le nozze a tempo indeterminato, Anche
la famiglia Virando sembrava d’accordo: una sera però egli era ricomparso
improvvisamente, preceduto da un mazzo di camelie. Aveva detto di aver rimandato
all’ultimo momento la partenza, per quanto avesse già imbarcato i bagagli,
dichiarando di non rassegnarsi alla separazione.
In quell’occasione la fidanzata
aveva detto: “Se son rose fioriranno”. Forse adesso, durante l’ultimo tratto
del viaggio che venne compiuto in ferrovia, Vincenzina ci pensava. Le rose non
erano fiorite e anche il suo cuore era ormai chiuso.
Giunsero a Bangkok il 27 agosto, un sabato
mattina, verso le undici. Il loro arrivo era stato annunciato in precedenza e
la colonia italiana della capitale si era messa in agitazione: le distrazioni
non erano molte, e l’arrivo di un connazionale significava sempre qualcosa.
Grande poi vi giungeva con una posizione di primo piano, con l’incarico di
primo segretario della legazione. Ad attenderli c’era quasi al completo la
colonia italiana, tutti i funzionari della legazione e la rappresentanza del
governo. Vincenzina sorrideva sotto il lampo al magnesio dei fotografi,
rispondeva un po’ stordita alle strette di mano di tutta quella gente sconosciuta.
Provava un sentimento curioso, misto di
vanità, di delusione e di malinconia. La stazione di Bangkok assomigliava un
poco a quella di Torino, e infatti (Vincenzina allora non lo sapeva) erano
opera dello stesso architetto. Contemporaneamente sentiva su di sé gli sguardi
delle signore venute a riceverla, fissi sul suo abito a giacca uscito dalla
sartoria Bemporad, un modello estivo destinato a stupire la gente di Bangkok
che era rimasta alla moda del 1936. E nell’osservare tutti quei vestiti fuori
moda, sbiaditi dal sole e dall’umidità, pensava che di lì a due anni sarebbe
diventata come loro, e allora si sarebbe sentita addirittura una vecchia.
L’appartamento che Ettore aveva
fissato in precedenza all’Hotel Oriental, il migliore della città, era pieno di
mazzi di fiori che le avevano inviato le mogli dei diplomatici. L’Hotel
Oriental era situato nella posizione più incantevole della città, prospiciente
al Menam, aveva un grande giardino a terrazza con le buganvillee in fiore, che
si arrampicavano alle finestre del suo appartamento; le orchidee dei più
disparato colori si riflettevano nello specchio del Menam solcato continuamente
da piccole imbarcazioni.
La sera stessa del loro arrivo, alla legazione
francese veniva offerto il ricevimento più importante dell’anno, ma il ministro
Umiltà, rappresentante italiano nel Siam, li sconsigliò a intervenire per
ragioni di carattere politico. Vincenzina non ne provò dispiacere: cominciava
ad essere stanca. E tre giorni dopo scrive le sue prime lettere alla famiglia:
“Io ho una bella camera con un salottino proprio sul fiume e mi godo
serenamente moltissimo lo spettacolo. Scusatemi se vi scrivo così, ma la carta
è bagnata da una vera tempesta che è scoppiata ora: lo spettacolo è molto
bello, ma l’acqua è riparata solo dalle persiane… Sono arrivata sabato dopo un
lungo viaggio attraverso una parte del mondo abbastanza interessante.
Immaginavo molto di più, salvo qualcosa: tutto è abbastanza uniforme nel suo
colore (purtroppo abbastanza sporco dappertutto)”.
L’incanto è durato poco, e ormai l’Oriente le
è diventato antipatico, come antipatico deve esserle suo marito. E’ lui che
l’ha portata in quel paese ed è a lui che probabilmente essa ne fa risalire la
colpa. Qualche volta con l’andar del tempo questi due risentimenti dovranno
probabilmente congiungersi e pressoché identificarsi. Suo marito e l’Oriente
diventano una cosa sola.
(articolo di Enrico Roda da “Oggi”
nr. 11 del 10 marzo 1949)
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