mercoledì 28 novembre 2018

IL MISTERO DI ETTORE GRANDE - II


Gli sposi salirono insieme la scaletta dell’imbarcadero; Ettore teneva la moglie stretta contro di sé e Nino Virando, giunto a Venezia per salutarli ancora una volta, ebbe una specie di presentimento. Avrebbe forse voluto richiamare la Nina: contemporaneamente le sirene del Conte Rosso si misero a urlare, e quel gemito prolungato sembrava quasi confermare i suoi sentimenti.


Era salito a bordo Amedeo duca d’Aosta, che andava ad occupare la carica di viceré in Etiopia, sicché le misure di sicurezza erano più severe del solito: Nino, senza passaporto, non aveva potuto salire sulla nave e gli ultimi saluti furono scambiati dal ponte di poppa, col braccio levato. Vincenzina rimase in quell’atteggiamento anche quando la figura del fratello si confuse sulla banchina con quella degli altri. Era il quattro agosto del 1938, la guerra era imminente e quel distacco non doveva essere tragico soltanto per lei. Suo marito non aveva badato a spese e si era fatto assegnare una cabina a due letti col bagno, nella classe di lusso, adiacente a quella del duca d’Aosta. Quando Vincenzina lo seppe, fu così lusingata che riuscì a ricacciare la commozione suscitata da quel definitivo distacco dalla famiglia.

Del resto, aveva tante altre cose con cui distrarsi: gli sposi erano saliti a bordo con una quantità di bagagli, trentadue in tutto, tra cui tre grandi bauli adibiti ad armadio. Vincenzina portava con sé una collezione di modelli, destinata a farla diventare la signora più elegante di Bangkok: aveva acquistato a Torino degli “esclusivi” di Bemporad, di Ferrarone, della Mattè, portava perfino con sé una cappa di ermellino, che era stato un regalo di nozze di sua madre, senza pensare che il clima tropicale le avrebbe impedito di indossarla.

L’occupazione di disporre il suo guardaroba aveva riempito le prime ore dopo la partenza. “Mentre vi scrivo”, dice Ettore nella sua prima lettera da bordo, “siamo da un paio d’ore ancorati alla Giudecca. La cara Nina è in cabina tutta affaccendata a mettersi a posto alcune sue toilettes, con una precisione e un ordine da far invidia alla più ordinata signora”. Era lui che in questi primi giorni di matrimonio si incaricava della corrispondenza, e le sue espressioni erano uscite dalla riservatezza consueta. Al suocero si era spinto a dire: “Sta sicuro e tranquillo che quanto hai detto a noi non sarà dimenticato da me, che ho la grande e bella responsabilità di vedermi confidata la tua figliola, la cara Nina che è ormai la ragione della mia vita”.

Espressioni che sembravano sincere, ma che erano state scritte però a una settimana dal matrimonio.

Aveva in quei giorni anche altre occupazioni, scendeva sovente sotto coperta ad ammirare la sua cabriolet 1500, stivata con altre ventisei automobili, e rimaneva a guardarla con orgoglio. Inventariava i regali: gli era piaciuto particolarmente quello dei suoi colleghi del ministero, giuntogli al momento dell’imbarco, un secchiello d’argento cesellato per tenere lo champagne in ghiaccio. La vita a bordo era di tenore particolarmente elevato: forse in omaggio all’ospite della famiglia reale, quasi ogni sera c’era una festa da ballo, e Vincenzina con suo marito sembravano divertirsi. “Chi vive”, ha detto qualcuno, “non ha bisogno di scrivere”, e infatti, contrariamente a quanto avverrà in seguito, Vincenzina per tutta la durata del viaggio si limiterà ad aggiungere qualche frase alle lettere del marito.

 “Siamo in pieno Mediterraneo, con un mare calmo e un cielo magnifico, e ci avviciniamo a Porto Said, dove arriveremo stasera. Il viaggio procede ottimamente, trascorriamo la mattina in piscina, dove incontriamo sempre il duca d’Aosta, che è molto affabile e si intrattiene sovente con la Nina. Il pomeriggio passa celermente e la sera, dopo il pranzo, vi sono sempre musica da ballo o giuochi di bordo. La Nina è perseguitata dalla fortuna, ieri ha vinto la gara di velocità della nave e oggi nuovamente figura tra le vincenti”: Segue un frettoloso post-scriptum della Nina: “La prossima volta scriverò io, ho tante cose da dirvi. Siamo arrivati in questo momento a Porto Said, è tutta illuminata. Vi penso tanto…”

Ella si trovava sempre in quello stato di euforia che le aveva dettato la prima lettera da Venezia: come tutte le persone felici, o che per lo meno si ritengono tali, credeva che neppure un minuto potesse essere sottratto alla propria felicità. Incontrava il duca d’Aosta in piscina, qualche volta nuotavano insieme. Amedeo le aveva detto. “Se ha dei bambini, insegni loro il nuoto”; era una frase di pura cortesia ma che proveniva da un principe, e Vincenzina, che era molto suscettibile a questa specie di vanità, ne era particolarmente orgogliosa.
Una sera ci fu un ballo mascherato, e una signora indiana che era a bordo le diede in prestito il proprio costume. Vincenzina, così bionda, con quegli occhi grigi, aveva saputo dare un fascino particolare alla propria fisionomia valendosi di questo contrasto. Fu giudicata la signora più elegante a bordo e vinse un premio. La gara di velocità, cui accenna Ettore nella sua lettera, era quella dei cavallini, azionati meccanicamente, su cui si doveva puntare. Era un giuoco di moda, una specie di roulette marittima che vent’anni dopo era ancora molto in uso sui transatlantici. Le vincite di Nina erano così frequenti che ella stessa dubitava di essere favorita, con qualche trucco innocente, dagli ufficiali che organizzavano il giuoco.

Lasciato Porto Said, il Conte Rosso seguì questa rotta: toccò Massaua e poi Assab, dove il duca d’Aosta sbarcò, anche lui per non più ritornare. Il viaggio proseguiva piuttosto lentamente, ad andatura turistica: Ettore e Vincenzina ebbero modo di fermarsi qualche giorno ad Aden, a Bombay, a Colombo. Ad Aden, Ettore le fece visitare un’oasi, e a Bombay la condusse alla Torre del Silenzio, la celebre Malabar Hill. Da Colombo si addentrarono nell’isola di Ceylon: Ettore aveva ereditato da suo padre il metodo quasi didattico di visitare i luoghi, usava il Baedeker, si interessava alle antichità e ai monumenti quasi più che al folklore. Per Vincenzina invece era diverso: a Ceylon, per esempio, rimase soltanto incantata di pranzare in un albergo dove funzionavano contemporaneamente trenta ventilatori, e altrettanti, di piccole dimensioni, erano posti sui tavoli da pranzo. Ma la sua attenzione si fermava anche sulle figure umane che le capitava d’incontrare. A Colombo fu particolarmente colpita da una donna che indossava il costume indiano, ma come lei biondissima, con i capelli giù per le spalle, gli occhi celesti e la pelle bianchissima. La descriverà in due lettere, alla madre e alla cugina Tutu, con un gusto e una precisione come se vi vedesse dentro il riflesso della propria immagine, nella felice serata del Conte Rosso, al ballo mascherato.

Il tempo si mantenne bellissimo, anche l’umore dei coniugi durante il resto del viaggio non subì alterazioni evidenti. Facevano fotografie, spedivano cartoline, si mostravano sempre insieme al bar o sulla passeggiata. Solo, quelle manifestazioni ingenue e talvolta puerili, che rivelano così facilmente due sposi in viaggio di nozze, non si scorgevano più. I testimoni, il comandante stesso della nave, avranno occasione di riferire: “Andavano d’accordo, ma non sembravano due innamorati”. A bordo, chi non lo sapeva, si stupiva che il giovane diplomatico fosse in viaggio di nozze e in questo momento, se occorresse una prova, l’interesse stesso del viaggio era caduto quasi improvvisamente nell’animo di Vincenzina.

Arrivando ad Aden, Vincenzina ripiegava sopra se stessa: tutta quella festosità di colori che offriva l’Oriente sembrava ingenerarle un sentimento come di sazietà, quasi di avversione. A pochi giorni dalla partenza aveva scritto ai genitori: “Ho tante cose da dirvi”, e in verità allora lo doveva pensare, ma ecco che soltanto a quindici giorni di distanza le sue impressioni si erano dileguate o per lo meno era subentrata in lei la convinzione che non valesse ormai più la pena di raccontarle. Da Bangkok scriverà: “Ho visitato Aden, un inferno di caldo, non piove che ogni cinque o sei anni: Bombay bella, ma soprattutto sporca: Colombo, dove ho ammirato il tramonto più tragico e irreale che io abbia mai sognato, è pulita e interessante”. Non è difficile rilevare da questi giudizi, buttati giù in fretta quasi per una specie di fastidioso dovere, il riflesso inconsapevole dell’aridità del proprio stato d’animo. Non un accenno personale, soprattutto nessun legame tra le cose vedute e la propria intimità, ma una semplice annotazione di carattere esterno.

Raggiunta Singapore, il viaggio del Conte Rosso era terminato. Ettore e Vincenzina furono ricevuti ed ospitati dal console Perego, che reggeva quella legazione. Il giorno stesso del loro arrivo coincideva con un grandioso ricevimento a bordo di una corazzata francese ancorata nella rada. Ettore, in giacca bianca, venne fotografato al tavolo del comandante, accanto a sua moglie che indossava un abito da sera color pervinca, con un piccolo bolero ornato di strass. Vincenzina, sul retro della fotografia, scrisse: “Io sto accendendo una sigaretta, perciò sono riuscitissima”. Qui essi conobbero il Maragià di Johore, principe ereditario del paese, che propose ai presenti di trascorrere una giornata nella sua reggia.

Per ventiquattro ore, Vincenzina e suo marito si trovarono trasferiti in un ambiente da “Mille e una Notte”: parteciparono ad un pranzo, servito secondo i costumi del paese, in mezzo ad una schiera di servi che si alternavano con una interminabile serie di portate. Poi il Maragià mostrò ai Grande una raccolta di tesori in oro massiccio e platino; quindi le signore vennero invitate nell’appartamento privato del principe, che mostrò un’altra raccolta di brillanti, di pietre preziose, di orologi incastonati di diamanti. Erano tenuti tutti lì alla rinfusa, in una valigetta da viaggio. “Come se fossero bottoni da camicia o della chincaglieria di nessunissimo valore”, osserverà Vincenzina. Ma sembra ormai che niente più possa impressionarla, e la visita al principe si riassumerà in questa frase distratta: “Siamo stati ospiti del Maragià di Johore, persona gentilissima”.

Ma forse, per spiegare questo suo nuovo stato d’animo, questa sua indifferenza a tutto quanto la circondava, c’era una ragione anche più sottile, ed era il sentimento di solitudine da cui si sentiva invadere. Avremo una prova di questa malinconia a Penang, isola dell’Oceano Indiano presso la penisola di Malacca, dove, durante un ricevimento in casa del nostro agente consolare, Vincenzina uscì in questa affermazione decisa: “Piuttosto che avere un figlio, preferirei morire”.

Era sposa da diciotto giorni.

Fu questa frase uno dei punti obbligati del processo che seguì alla sua morte, e venne interpretata in modo diverso e naturalmente contrastante. Vincenzina non amava i bambini e questo stava a dimostrare una grave manchevolezza di carattere spirituale, come donna e come moglie? Era possibile, invece, che la ragazza avesse pronunciato questa frase per significare che non voleva un figlio da un uomo come suo marito, e questa fu un’interpretazione della parte civile, un po’ capziosa, forse, ma egualmente sostenibile.

Forse la verità era un’altra e più semplice, e cioè che non sempre le frasi da noi pronunciate hanno il valore che letteralmente si attribuiscono loro: si trattava forse di una semplice boutade. La moglie dell’agente consolare italiano aveva presentato alla giovane signora i suoi due bambini, forse con un po’ d’ambizione. Forse tra Ettore e Vincenzina, a bordo del Conte Rosso, non era avvenuto nulla di romanzesco, né di così grave come è stato supposto. Più semplice è ritenere che, durante questo singolare viaggio di nozze, l’incompatibilità tra marito e moglie si sia manifestata in mille maniere, in particolari, fatti di niente, difficilmente precisabili, ma che non per questo sono meno gravi di conseguenza.

Già fin d’allora il matrimonio doveva apparire, per lo meno a Vincenzina, un errore irreparabile.

Durante il periodo di fidanzamento c’era stata una brusca interruzione. Grande, infatti, aveva deciso di partire solo, di raggiungere Bangkok, rimandando le nozze a tempo indeterminato, Anche la famiglia Virando sembrava d’accordo: una sera però egli era ricomparso improvvisamente, preceduto da un mazzo di camelie. Aveva detto di aver rimandato all’ultimo momento la partenza, per quanto avesse già imbarcato i bagagli, dichiarando di non rassegnarsi alla separazione.

In quell’occasione la fidanzata aveva detto: “Se son rose fioriranno”. Forse adesso, durante l’ultimo tratto del viaggio che venne compiuto in ferrovia, Vincenzina ci pensava. Le rose non erano fiorite e anche il suo cuore era ormai chiuso.

Giunsero a Bangkok il 27 agosto, un sabato mattina, verso le undici. Il loro arrivo era stato annunciato in precedenza e la colonia italiana della capitale si era messa in agitazione: le distrazioni non erano molte, e l’arrivo di un connazionale significava sempre qualcosa. Grande poi vi giungeva con una posizione di primo piano, con l’incarico di primo segretario della legazione. Ad attenderli c’era quasi al completo la colonia italiana, tutti i funzionari della legazione e la rappresentanza del governo. Vincenzina sorrideva sotto il lampo al magnesio dei fotografi, rispondeva un po’ stordita alle strette di mano di tutta quella gente sconosciuta.

Provava un sentimento curioso, misto di vanità, di delusione e di malinconia. La stazione di Bangkok assomigliava un poco a quella di Torino, e infatti (Vincenzina allora non lo sapeva) erano opera dello stesso architetto. Contemporaneamente sentiva su di sé gli sguardi delle signore venute a riceverla, fissi sul suo abito a giacca uscito dalla sartoria Bemporad, un modello estivo destinato a stupire la gente di Bangkok che era rimasta alla moda del 1936. E nell’osservare tutti quei vestiti fuori moda, sbiaditi dal sole e dall’umidità, pensava che di lì a due anni sarebbe diventata come loro, e allora si sarebbe sentita addirittura una vecchia.

L’appartamento che Ettore aveva fissato in precedenza all’Hotel Oriental, il migliore della città, era pieno di mazzi di fiori che le avevano inviato le mogli dei diplomatici. L’Hotel Oriental era situato nella posizione più incantevole della città, prospiciente al Menam, aveva un grande giardino a terrazza con le buganvillee in fiore, che si arrampicavano alle finestre del suo appartamento; le orchidee dei più disparato colori si riflettevano nello specchio del Menam solcato continuamente da piccole imbarcazioni.

La sera stessa del loro arrivo, alla legazione francese veniva offerto il ricevimento più importante dell’anno, ma il ministro Umiltà, rappresentante italiano nel Siam, li sconsigliò a intervenire per ragioni di carattere politico. Vincenzina non ne provò dispiacere: cominciava ad essere stanca. E tre giorni dopo scrive le sue prime lettere alla famiglia: “Io ho una bella camera con un salottino proprio sul fiume e mi godo serenamente moltissimo lo spettacolo. Scusatemi se vi scrivo così, ma la carta è bagnata da una vera tempesta che è scoppiata ora: lo spettacolo è molto bello, ma l’acqua è riparata solo dalle persiane… Sono arrivata sabato dopo un lungo viaggio attraverso una parte del mondo abbastanza interessante. Immaginavo molto di più, salvo qualcosa: tutto è abbastanza uniforme nel suo colore (purtroppo abbastanza sporco dappertutto)”.

L’incanto è durato poco, e ormai l’Oriente le è diventato antipatico, come antipatico deve esserle suo marito. E’ lui che l’ha portata in quel paese ed è a lui che probabilmente essa ne fa risalire la colpa. Qualche volta con l’andar del tempo questi due risentimenti dovranno probabilmente congiungersi e pressoché identificarsi. Suo marito e l’Oriente diventano una cosa sola.





(articolo di Enrico Roda da “Oggi” nr. 11 del 10 marzo 1949)

Nessun commento:

Posta un commento