giovedì 30 maggio 2019

IL MISTERO DELL'INDOSSATRICE SEPOLTA



Nella notte dal 14 al 15 aprile 1958 su Vienna era piovuto quasi senza interruzione e il vento aveva soffiato violento da nord. Il poliziotto Rudolf Bertl, che prestava servizio di guardia al monumento al soldato russo in piazza Schwarzenberg cercava di scaldarsi camminando in su e in giù sotto il colonnato. Per lui, mentre Vienna si risvegliava e le prime automobili si dirigevano verso il centro, quella era un’alba come le altre. Erano le 7: fra tre ore sarebbe venuto a rilevarlo un collega e lui sarebbe andato a dormire.

Su una panchina distante una decina di metri dall’ala destra del monumento (un loggiato semicircolare con colonne pseudoclassiche) c’era un giovanotto dall’aria afflitta. Teneva i gomiti sulle ginocchia e le tempie tra le mani, a meditare; stette lì un bel po’ quindi cominciò a passeggiare nervosamente, poi tornò a sedersi, quindi scomparve tra i cespugli dietro il monumento, così per molto tempo, dando continue occhiate al poliziotto ogni volta che si spostava.
Bertl per un pezzo rimase ad osservarlo senza dir nulla, ma dopo un’oretta, vedendolo estatico in mezzo all’erba, decise di rivolgergli la parola e di offrirgli una sigaretta. “Cosa fa qui a quest’ora?” “Aspetto un amico che ha bottega qua dietro”, rispose il giovanotto. “Lo sa che è vietato calpestare l’erba?”, continuò la guardia. “Oh, mi scusi tanto, non ci avevo pensato. Mi scusi”, disse lo sconosciuto con molto garbo.

Alle 9 Bertl era ancora lì, e c’era anche il giovanotto che guardava verso la strada come a spiare i passanti, stando in punta di piedi dietro un cespuglio. Improvvisamente il poliziotto vide un ombrellino da donna tra i cespugli, poi una borsetta, un mantello azzurro, una sottoveste stracciata sparpagliati alla rinfusa cinque-sei metri dietro il monumento. Ma era appena al principio delle sue scoperte. Pochi passi più oltre da un mucchietto di terra emergeva un ciuffo di capelli biondi: la testa di una ragazza. Il resto del corpo era sepolto e coperto malamente di terra fresca. Bertl si precipitò al più vicino telefono e dieci minuti più tardi mezza squadra omicidi era sul posto.

La morta era una bella ragazza di ventun anni, Ilona Faber, indossatrice, figlia di un alto funzionario del ministero del commercio, la cui scomparsa era stata appena denunciata dalla famiglia. Il suo corpo era completamente nudo: l’assassino l’aveva tramortita con un colpo alla carotide, aveva abusato di lei e poi l’aveva strangolata, riempiendole quindi la bocca col terriccio. 

Ilona era una brava ragazza, timida e riservata, tanto che gli stessi rigidi familiari la prendevano in giro e le amiche la evitavano perché la trovavano noiosa. I pochi giovanotti che l’avevano conosciuta dissero poi alla polizia di non averla corteggiata perché “faceva solo perdere tempo”. Una ragazza seria, la cui meta era la carriera di indossatrice e i cui unici svaghi erano i dischi e i libri classici e il cinematografo.

La sera prima che venisse ritrovata cadavere, Ilona era attesa alla scuola per indossatrici che era solita frequentare. Ma non vi andò. Fu vista invece alle 20 entrare al cinema della piazza Schwarzenberg (a cento metri dal posto del delitto) e uscirne alle 22, dirigendosi rapidamente verso casa attraverso il giardino della piazza nel mezzo del quale troneggia il monumento. Una coppietta sentì verso le 22.10 qualche rumore tra i cespugli, ma pensò trattarsi di un’altra coppia e non vi fece caso. Il poliziotto di sentinella non vide né udì alcunché, eppure il cadavere venne ritrovato a meno di dieci metri di distanza dal suo posto di guardia. Era un mistero come il delitto potesse essere stato commesso. E per tutta Vienna quella mattina trascorsero l’orrore e il terrore. 
 
Vicino al cadavere furono rilevate impronte fresche di una scarpa con suola di gomma, chiaramente impresse nella terra bagnata di pioggia, tanto da poterne decifrare una scritta. La guardia Bertl fu quella che diede un indirizzo preciso alle indagini: “Ecco, è quel tipo laggiù” disse al commissario, dopo aver raccontato del giovanotto dall’aria nervosa e stralunata che sin dall’alba si era aggirato nei paraggi e stava ancora lì, frammischiato alla folla.

Il giovanotto fu fatto salire su una camionetta ferma davanti all’ambasciata di Francia per essere interrogato e fu portato via in tutta fretta perché la folla esasperata aveva circondato l’automezzo e minacciava il linciaggio, gridando: “A morte l’assassino! Impiccatelo!”. A Vienna non era mai successo nulla del genere.

Al commissariato il giovanotto risultò essere una vecchia conoscenza della polizia, Johann Gassner, di trent’anni, operaio avventizio disoccupato, condannato sei volte per furto e reati contro la morale. “Volevo rubare una bicicletta”, confessò, “Anzi, per essere più libero nei movimenti ho lasciato la mia borsa appesa ad un cespuglio. È ancora là. Se fossi io l’assassino, non sarei certo stato così sciocco da rimanere sul posto sotto gli occhi di un poliziotto. Sono un avanzo di galera, sono un cane, ma non ho nulla a che fare col delitto”.
Effettivamente non risultava nulla di positivo contro Gassner, i suoi abiti e le sue mani non erano nemmeno sporchi di terra, e la polizia lo rilasciò, facendolo tuttavia pedinare.

Ventiquattro ore più tardi, però, Gassner fu riacciuffato. L’impronta delle sue scarpe corrispondeva infatti perfettamente a quelle rilevate vicino al cadavere e anche la scritta sulla suola di gomma era la stessa: in più non aveva un alibi.
La sera prima lo avevano visto mendicare un tozzo di pane e un altro accattone, commosso per la sua fame, aveva diviso con lui la sua magra cena. Alle due di notte, invece, Gassner era entrato in una birreria e aveva mangiato gulasch e bevuto birra per complessivi 13 scellini, la somma precisa che Ilona aveva in tasca. Dove aveva trovato quei quattrini? Mendicando, disse.

In tasca, poi, Gassner aveva una scatola di sigarette vuota sul cui fondo aveva scritto: “Visto l’assassino il 15/4/58 tra le ore 0,45 e le ore 1,15”, vi era anche uno schizzo con la pianta del luogo del delitto, quindi un tracciato che, attraverso tre vie del centro, conduceva ad un sudicio locale del Naschmarkt, il mercato centrale che è ritrovo dei nottambuli e degli sbandati. Lungo questo percorso furono perquisite fogne e cantine e vennero alla luce un guanto e le calze dell’indossatrice assassinata: nel locale indicato dallo schizzo fu ritrovato un orecchino di Ilona.

Quando gli contestarono questi fatti Gassner non si scompose e spiegò che aveva voluto collaborare con la polizia: la polizia stessa non sapeva che pensare di questo strano indiziato, contro il quale giocavano molti dubbi e perplessità.
Questi si rivelarono una settimana più tardi quando il giovane fu incriminato ufficialmente, mentre nel contempo venivano offerti 10.000 scellini, pari a 250.000 lire, a chi portasse alla cattura dell’assassino di Ilona Faber. Un controsenso, che in un certo qual modo si è ripetuto in questi giorni, a 14 mesi di distanza, appena iniziato il processo contro l’imputato. 

Gassner si era appena seduto nell’aula della Corte d’Assise, impassibile e indifferente come sempre, monotono nel suo strano modo di proclamarsi innocente: “Sono un cane bastardo, ma non un assassino” e ascoltava la lettura delle ventisei pagine del capo d’accusa, quando la polizia di Vienna arrestava due giovanotti sospetti di avere ucciso Ilona Faber. La tragedia rischiava di finire in commedia e Vienna non sapeva se adirarsi o ridere, e Gassner, che è un disgraziato con poca voglia di lavorare e pochi scrupoli, ma non è uno stupido, capì che qualcosa forse giocava a suo favore.

I due sospettati rimasero in prigione tre giorni, mentre si svolgeva il processo, ma poi vennero liberati perché poterono presentare un alibi. I colpevolisti tirarono un sospiro di sollievo, gli innocentisti, tra cui molti giornali, non riuscirono a nascondere il loro disappunto. Ma la tragica farsa non era finita. Nei giorni seguenti, con una macabra messinscena, la Corte si è recata due volte sul luogo del delitto, una volta di notte per la ricostruzione del crimine, un’altra di giorno per rivivere la scena della scoperta del cadavere di Ilona, raffigurato da un manichino.

I poliziotti che erano stati di guardia quella notte sono tornati al loro posto di allora. Il manichino è stato portato fuori dal cinema, un commissario lo ha “aggredito” e sepolto. Il poliziotto di guardia stavolta ha sentito qualcosa, ma ha detto che il rumore dell’aggressione era quello solito delle coppiette e dei molti nottambuli che hanno eletto il monumento al soldato sovietico come luogo di decenza

In sostanza nulla di nuovo è venuto fuori e il processo è proseguito sul binario degli indizi: contro Gassner non è stata trovata finora nessuna vera prova. È per questo che si può prevedere che Vienna e l’Austria continueranno ad essere divise in due e che il mistero della bella indossatrice rimarrà tale per sempre.

Articolo di Tito Sansa da "Oggi" n. 27 del 2 luglio 1959



Gassner, in seguito, fu assolto per insufficienza di prove. Quattro anni dopo il delitto una scarpa della ragazza fu trovata dalla polizia in una casa abbandonata dove avvenivano le ricerche di un uomo scomparso, che forse era il vero assassino. Nel 2002, infine, una donna viennese disse che suo marito Eduard S. le aveva confessato di avere ucciso lui Ilona Faber, ma dato che l’uomo ormai era morto il delitto dell’indossatrice rimane tuttora impunito.

venerdì 15 marzo 2019

L'INNAMORATO TIMIDO



PRIGIONIERA PER 105 GIORNI 
DI UN INNAMORATO TIMIDO

articolo di "Oggi" n. 18 del 2 maggio 1957




“Le indagini proseguono”. Con questa frase il portavoce della polizia londinese ha eluso le domande che da due giorni i più abili reporter della capitale britannica vanno facendo ai funzionari di Scotland Yard riguardo a uno dei più curiosi fatti di cronaca che siano avvenuti in questi anni. Per quindici settimane, infatti, una ragazza di ventotto anni, tale Marjorie Jordan, è stata tenuta prigioniera in una profonda buca scavata sotto un vecchio rifugio antiaereo; ma la cosa curiosa è che Marjorie, se proprio avesse voluto, non avrebbe avuto difficoltà a fuggire. Per quale ragione restò in balia del suo persecutore, E perché mai questi scelse proprio Marjorie per compiere le sue stranezze? È quanto appunto la polizia sta cercando di spiegare.

La storia della signorina Jordan, che abita a Beckenham, un sobborgo di Londra nei pressi di Croydon, cominciò la notte tra il 7 e l’8 gennaio.



“Qualcuno scuoteva il letto”, racconta la ragazza, “così mi svegliai. Nella semioscurità della stanza vidi uno sconosciuto. Mi disse con voce dura che se mi fossi ribellata ai suoi ordini mi avrebbe presa a pugni. Poi, indicando i miei abiti che stavano su una sedia, mi impose di vestirmi. Quando fui pronta mi chiuse la bocca con un pezzo di cerotto e mi fece uscire in giardino dalla finestra. Accanto al cancello vi era una motocicletta sulla quale mi obbligò a salire: appena si fu assicurato che ero bene in sella partì di gran carriera. Nella notte girammo per le più strette vie di Londra e finalmente giungemmo ad una piccola villa. Mi fece entrare in casa e di lì mi condusse in un misero giardino in mezzo al quale sorgeva ancora uno dei vecchi rifugi antiaerei fatti di lamiera ondulata”.

A questo punto il comportamento del rapitore divenne inesplicabile. Con la massima gentilezza egli spiegò alla ragazza di chiamarsi John e di averla portata con lui perché aveva bisogno di aiuto per un importante lavoro. Sotto il rifugio, spiegò, egli aveva scavato una stanza sotterranea. “Come vedrete”, disse gentilmente, “questa stanza è un po’ piccola e ancora molto in disordine. Sono sicuro che proverete il massimo piacere nel metterla in ordine”.

Così dicendo aprì una botola nel pavimento del rifugio e attraverso di essa, lungo una scala a pioli, fece discendere Marjorie nella famosa stanza. In realtà non si trattava altro che di una specie di cantina, scavata nell’argilla, dove era stata sistemata una branda e dal cui soffitto pendeva una lampadina elettrica. “La faremo più grande e più bella”, disse John accennando all’antro in cui aveva condotto la ragazza. “Adesso vi preparo una buona tazza di tè e domattina cominceremo subito il lavoro”. E così fece.

Dopo pochi giorni Marjorie perse il senso del tempo. Laggiù non si vedeva né la luce del sole né il buio della notte. Con un piccolo badile scavava continuamente e riempiva di argilla, uno dopo l’altro, dei grandi cesti che John portava su in giardino. Un giorno, stanca di questa vita, Marjorie decise di fuggire. Salì nel rifugio, ma purtroppo John si accorse di lei e le diede uno spintone buttandola a terra. “Guai se vi riproverete a farlo ancora”, disse con il suo solito tono cortese, “sarei costretto a finire da solo l’arredamento della cantina”.

Un altro giorno, in vena di confidenza, passò un braccio intorno alla vita della ragazza, la quale lo respinse dicendogli: “Queste cose non mi interessano”. “Scusatemi”, rispose John, “avete ragione. L’unica cosa importante è quella di mettere a posto la nostra cantina”.

Intanto il tempo passava e John diventava di giorno in giorno più cortese. La ragazza scriveva su un foglio di carta la lista delle vivande e il giovanotto si affrettava ad andare a far la spesa nei migliori negozi di Londra. Ritornava con la sporta colma e si chiudeva in cucina a preparare ottimi manicaretti che poi portava alla ragazza e divideva con lei, laggiù nella cantina, a quattro metri sotto il livello del suolo.
Finalmente i lavori di scavo giunsero alla fine; allora, preparato del cemento, John e Marjorie intonacarono la cantina e ne tappezzarono le pareti con vecchi giornali. Ogni tanto egli la faceva salire nella sua casa dove la ragazza poteva lavarsi. “Ciò avveniva sempre di notte”, racconta Marjorie. “C’era un gran silenzio e io avevo paura di chiamare aiuto”.

Un bel giorno, stanca di restare sempre sotto terra, Marjorie decise di fare lo sciopero della fame per cercare di commuovere il suo carceriere: dopo una settimana, però, visto che John non la lasciava libera, la ragazza si convinse che non c’era niente da fare e si mise di nuovo a mangiare le buone cose che egli preparava per lei. Quale compenso per queste sue prestazioni gastronomiche John la pregò di farle un panciotto a maglia, cosa che Marjorie di buon grado fece con grande soddisfazione dello strano aguzzino. Ma a dispetto di questi buoni rapporti intercorrenti fra carceriere e schiava, Marjorie era sempre più stanca di vivere come una talpa. Un giorno provò a forzare la botola, ma non riuscì’ a smuoverla neppure di un millimetro; allora, su pezzi sporchi di carta, scrisse messaggi di aiuto, che poi nascondeva nella terra che John portava continuamente alla superficie. Infatti il giovanotto, non contento di aver rafforzato con il cemento le pareti della cantina, preso da furore costruttivo aveva cominciato a scavare una seconda caverna sotto la prima.



Questi messaggi, però, non giunsero mai in mani fidate, finché un giorno, trovandosi sola, Marjorie riuscì a salire nel rifugio, il quale, vecchio e sgangherato, aveva delle fessure attraverso cui si poteva scorgere un pezzetto di giardino. La ragazza scrisse di nuovo un altro messaggio e lo gettò all’esterno: un fortunato colpo di vento portò il messaggio nel contiguo giardino di una signora che raccolse il pezzo di carta. Le parole drammatiche le fecero dapprima credere a uno scherzo di ragazzi, ma poi si convinse a chiamare la polizia.

E la polizia arrivò. Quando John sentì gli agenti bussare alla sua porta, discese immediatamente nella stanza sotterranea e con aria triste disse alla ragazza: “Il gioco è finito: c’è la polizia”.

A questo punto verrebbe logico pensare che John (John Bridal, come fu poi stabilito, un ingegnere ventiseienne disoccupato) sia un pazzo. In realtà pare che il giovane sia perfettamente sano di mente e che nel suo strano comportamento si debba più che altro vedere gli effetti di una grande timidezza.
“Non è vero”, ha dichiarato John alla polizia, “che io tenessi prigioniera la signorina Jordan. Ne avevo bisogno per i miei esperimenti segretissimi. Andai a casa di Marjorie e buttai un po’ di ghiaia contro le finestre della camera in cui dormiva: si svegliò, si affacciò e mi fece entrare in casa. La pregai allora di venire con me: dapprima disse no, ma infine, senza che io le facessi nessuna violenza, si decise a salire con me sulla motocicletta. Come avrei potuto infatti obbligarla a salire sulla motocicletta? Forse turandole la bocca con il cerotto? Quando poi Marjorie fu nella cantina si adattò benissimo a quella vita. I primi giorni, è vero, protestò un poco, ma poi le passò. È vero che la porta del rifugio era chiusa, ma se proprio la ragazza avesse tenuto alla sua libertà certamente avrebbe potuto fuggire”.

“Del resto, io, quando la chiusi nella stanza, mi aspettai, lo confesso, una reazione violenta: Marjorie, invece, non disse nulla. Un giorno cercò di andarsene, ma io la presi per le spalle e la pregai di restare, cosa che fece. E inoltre, non mi confezionò forse questo bellissimo panciotto a maglia? Ciò significa che la ragazza era contenta del suo stato. Del resto io feci il possibile per farla star bene. Le portai una radio e andavo persino alla biblioteca circolante a prenderle i libri che desiderava; e poi non la facevo lavorare molto. Sono molto seccato di averla perduta, era la migliore aiutante che abbia mai avuto”.

Dietro queste curiose, per non dire sconcertanti, dichiarazioni, si cela con molta probabilità un dramma della timidezza e delle buone maniere inglesi. John Bridal era un innamorato timido (a volte sembrava completamente istupidito per troppo amore", ha dichiarato Marjorie) che non seppe trovare altro modo di confessare il suo sentimento che quello di rapire la ragazza e tenerla prigioniera in casa sua; d’altra parte la ragazza, timida a sua volta e ben educata, non seppe ribellarsi alla strana situazione in cui era venuta a trovarsi. Per noi italiani questa può sembrare una storia pazzesca ma per gli inglesi è meno curiosa di quanto sembri. Comunque sia, si tratta di una vicenda i cui profondi moventi psicologici non potranno mai essere svelati, anche se la polizia, come burocraticamente ha annunciato il portavoce di Scotland Yard, “sta continuando le sue indagini”.