Primo episodio
Secondo episodio
Terzo episodio
Quarto episodio
Quinto episodio
Sesto episodio
Ottavo episodio
Conclusione
La Corte di Cassazione aveva annullato la sentenza di Torino per due motivi: prima di tutto non era sembrata sufficientemente giustificata l’esclusione dell’ipotesi del suicidio, e ci si richiamava a un esame più approfondito dell’ambiente e dello stato spirituale in cui si trovava la Virando al omento del dramma. In secondo luogo quella conclusione, piuttosto sbrigativa, di considerare la ferita alla nuca come foro d’uscita non era apparsa chiaramente giustificabile.
Secondo episodio
Terzo episodio
Quarto episodio
Quinto episodio
Sesto episodio
Ottavo episodio
Conclusione
La Corte di Cassazione aveva annullato la sentenza di Torino per due motivi: prima di tutto non era sembrata sufficientemente giustificata l’esclusione dell’ipotesi del suicidio, e ci si richiamava a un esame più approfondito dell’ambiente e dello stato spirituale in cui si trovava la Virando al omento del dramma. In secondo luogo quella conclusione, piuttosto sbrigativa, di considerare la ferita alla nuca come foro d’uscita non era apparsa chiaramente giustificabile.
Acclusa ai documenti del ricorso, da parte dei legali di
Ettore, c’era una breve relazione che, pur non avendo carattere ufficiale,
aveva notevolmente influito sulle decisioni della Cassazione. Erano tre sole pagine
dattiloscritte in cui il professor Uffreduzzi, direttore della clinica
chirurgica dell’università di Torino, aveva spontaneamente esposto le sue
opinioni sugli errori commessi dai periti giudiziari.
Uffreduzzi diceva che nessun argomento portato per
dimostrare che i colpi sparati erano quattro aveva valore, perché non vi era
alcuna dimostrazione che vi fossero stati quattro fori d’entrata. Soltanto i
tre fori anteriori mostravano l’alone di infiltrazione sanguigna, che è il solo
carattere di foro d’entrata che si potesse constatare in un cadavere nelle
condizioni di quello di Vincenzina. Il collo, proseguiva il medico, è sede non
infrequente di colpi suicidari, e la direzione verso l’alto presuppone una
delle più classiche e tipiche posizioni di vuole togliersi la vita. Quanto alle
macchie di sangue rinvenute nello spazio tra i due letti, erano spiegate dalla
ferita alla bocca che aveva causato vomito e tosse sanguigna.
Uffreduzzi aveva prestato la sua opera a favore di Grande
disinteressatamente e, quando egli morì, il professor Pierantonio Gagna, suo
discepolo, mise nel difendere l’imputato una passione così violenta ed efficace
da farlo diventare il personaggio più importante di tutto il processo. Un
giornalista scrisse che il professore sembrava essere nato, aver studiato
medicina ed essere diventato una celebrità soltanto in funzione del caso
Grande. Egli fu, se non il creatore, per lo meno il divulgatore della tesi
della ricerca dell’apofisi odontoidea (il dente dell’epistrofeo) che finì per
diventare l’epicentro del secondo dibattimento.
In sostanza, la ricerca del dente dell’epistrofeo (che ha
sede nella cavità dell’atlante, su cui posa il capo), poneva questa duplice
tesi: o il frammento osseo si trovava nell’interno del cranio e ne conseguiva
che vi era stato lanciato dal proiettile stesso, o non vi si trovava, e ne
conseguiva che il dente rimosso dalla sua sede da uno dei tre colpi, e divenuto
esso stesso proiettile, aveva provocato il famoso foro alla nuca.
Egli aveva anche dimostrato che il rumore dei primi
colpi, che Ettore diceva di non aver sentito, avrebbe potuto essere stato
soffocato dal fatto che Vincenzina si era sparata premendo la canna della
pistola contro di sé.
L’importanza assunta dalle discussioni peritali fece
perciò dire che il destino di Grande era rimasto per un mese sospeso al filo di
un ossicino e ciò, più ancora che dimostrare la singolarità del caso, il
capriccio cui la sorte aveva sottoposto Grande, era la prova dell’impotenza della
magistratura, costretta ad affidarsi al più cieco empirismo dopo aver
inutilmente tentato le strade umane della vicenda stessa. Infatti, tutto ciò
che si era sentito al processo di Torino sui rapporti tra i due coniugi, venne
non solo ripetuto, ma impostato nella stessa maniera di cinque anni prima.
Anche sul clima si dissero le medesime cose, tanto che il
presidente ad un certo punto esclamò: “Basta con questo clima di Bangkok, mi
sembra di esserci stato!”
La difesa produsse un documento, precisamente una copia
della Gazzetta del Popolo del 1908, dove si leggeva che una certa Lina
Remondini aveva tentato di togliersi la vita gettandosi nelle acque del Po.
Lina Remondini era la madre di Vincenzina: se ne argomentava quindi una tara ereditaria
che poteva spiegare l’atto suicida compiuto dalla figlia. Ma una notizia di
giornale non costituisce una prova, e del resto il fatto non fu provato.
Si disse che a Novara, oltre al professore Gagna, fu l’avvocato
Delitala a salvare Ettore: l’avvocato difensore intuì, nella corte e fra i
giurati, il cedimento provocato dalle relazioni dei superperiti balistici,
radiologici e chirurgici ai quali era stato chiesto di esprimersi sulle tesi
contrastanti dei periti d’ufficio e dei consulenti della difesa. Delitala
restrinse perciò il senso della causa a pochissime considerazioni ispirategli
dalla relazione del professor Gagna e soprattutto dalle note di Uffreduzzi, che
egli ripresentò con la lucidità di un teorema geometrico.
L’avvocato convinse la corte non solo della difficoltà ad
ammettere l’omicidio ma andò oltre, descrivendo l’impossibilità di esso, e
capovolse in sostanza il problema come era stato fino allora presentato,
riassumendolo nella formula: omicidio impossibile, suicidio probabile.
“Un omicidio”, disse Delitala nella sua argomentazione, “con
tre ferite al collo in una zona ristrettissima, con tramiti identici, è
assolutamente un non senso, perché quelle ferite presuppongono un’assoluta
immobilità della vittima e un omicida che con inumana freddezza calcoli ogni
volta la direzione dell’arma. Il primo colpo, che non è stato sicuramente
mortale, avrebbe certamente determinato un movimento difensivo, il secondo non
avrebbe quindi colpito la vittima nella stessa zona con tramiti uniformi”.
“Il numero dei colpi”, continuò Delitala, “non prova l’impossibilità
del suicidio. Se il primo colpo lede un organo vitale manca la possibilità del
secondo, ma se il primo colpo non lede nessun organo vitale è più frequente che
il suicida reiteri il colpo o desista?”. Insomma, una statistica non va fatta
ponendo il quesito se i suicidi avvengano con uno o più colpi ma, “ammesso che
il primo colpo non sia mortale, se il suicidio viene condotto a termine o no”.
Riferendosi all’intervallo intercorso tra i colpi
sparati, Delitala soggiunse: “Meno frequenti sono invece i suicidi con più
colpi, sparati con qualche intervallo di tempo, ma neppure essi sono una rarità”.
E citò il caso di un ingegnere di Torino che, sparatosi nella propria
abitazione, venne trasportato moribondo all’ospedale, dove tentò di ripetere l’atto
suicida.
Al termine del dibattimento Ettore, richiesto se aveva
qualcosa da dire, rispose: “Credo che Dio illuminerà i giudici”.
La sentenza di Novara sembrò tener conto delle
conclusioni di Delitala, e nei motivi di essa si legge: “Non è inverosimile che
la Virando, già depressa fisicamente per effetto del clima e della gravidanza,
possa, in un momento di grande depressione, aver ceduto all’impulso suicida”.
Ettore fu assolto per insufficienza di prove e tornò dopo
otto anni di assenza presso la famiglia dei genitori, che con la guerra si
erano trasferiti al loro paese d’origine, Villafranca Piemonte. “Se avessi
potuto”, disse Ettore ai giornalisti che si recarono a intervistarlo, “avrei
voluto rimanere in carcere, perché un’assoluzione per insufficienza di prove
non soddisfa quel desiderio di giustizia che io chiedo da dieci anni, che è l’unica
cosa ancora cui io aspiro e che costituisce ormai l’unica ragione della mia
vita”.
Ricorse perciò in Cassazione e ricorse pure il pubblico
ministero, e il caso Grande, come una palla rilanciata, tornò nuovamente al
punto dov’era partito: ma questa volta il giudizio di Roma riuscì alquanto
diverso dal precedente. Si ritenne che a Novara si fosse più discusso che
accertato, e che senza ragione la corte si fosse opposta alla richiesta del
pubblico ministero per una nuova perizia che avrebbe fornito forse nuovi
elementi di prova. Così anche la sentenza di Novara venne cassata, e la prova
della verità è stata per la seconda volta domandata al corpo inanimato di
Vincenzina Virando.
Messo così per questa via, il caso Grande tende sempre
più a limitarsi, a diventare una specie di indovinello, un giuoco meccanico
affidato all’arido procedimento deduttivo, sciolto dalle radici umane che lo
devono necessariamente aver originato. Come tutte le umane vicende, anche
questa storia deve avere una sua spiegazione, che va ricercata al di dentro e
non al di fuori dei suoi protagonisti. Invece fino ad ora, quando si è voluto
dare un’interpretazione del dramma, le loro personalità sono state forzatamente
alterate al servizio di una tesi, ed è nata una Vincenzina morbosa, una specie
di Madame Bovary complicata dalle punture delle zanzare, e un Ettore Grande
depravato e senza scrupoli, cinico e avventurieri, violento e simulatore.
Il segreto, e in fondo anche il fascino di questo caso,
consiste appunto nel fatto che tanto Ettore come Vincenzina erano due persone
normali, due persone, come generalmente si dice, “per bene”. Le ragioni del
dissidio tra i due coniugi erano, come si è visto, latenti fin dal giorno in
cui Ettore e Vincenzina si conobbero. Una volta, poco dopo il suo arresto,
Ettore aveva scritto della moglie: “Ella avrebbe dovuto essere sempre contenta,
felice di una vita alla quale non mancava nulla. Da pochi mesi era sposa e
signora di una casa, di un uomo che si struggeva per lei”. E aveva aggiunto: “Mi
sono sempre troppo remissivamente piegato a ciò che ella voleva…”. Il che è
probabile ma anche comprensibile, e spiega soprattutto come Ettore, anche molti
mesi dopo la morte di sua moglie, non si fosse minimamente reso conto di quali
potessero essere le esigenze di lei, quasi che lasciandola libera, offrendole
una casa, cercando di assecondarla, egli avesse potuto pensare che questo
sarebbe bastato a renderla felice. Al contrario Vincenzina avrebbe forse
preferito un trattamento diverso, meno riservato, ma in questo si urtava contro
l’aspetto più intimo di suo marito, contro l’unica cosa della quale egli non si
poteva spogliare, e cioè quella rigidità, quella mancanza di abbandono che finirono
per costituire la vera ragione della solitudine di Vincenzina.
Il clima, la gravidanza, la nostalgia e le zanzare
potevano essere coefficienti importanti ma senza peso determinante nella tragedia,
e d’altra parte non si deve neppure pensare che tra i due coniugi potesse
esistere qualche segreto di cui, in dieci anni, non sia stato possibile
indovinare le cause. Per ammettere la colpevolezza di Ettore bisogna, come ha
rilevato la sentenza di Novara, stabilire un movente, perché non solo non è
stato possibile trovare una ragione per cui Ettore uccidesse la moglie, ma
tutta la sua vita precedente e successiva contrasta con quella che si ritiene
essere la sua personalità.
Se è vero che ogni uomo equilibrato è capace di
commettere un omicidio e che in ciascuno di noi, come è stato detto, può
esserci un assassino, è altrettanto vero che ogni individuo si comporta anche
in circostanze eccezionali con una determinata coerenza e rispetto verso la
propria natura. Insomma, se Ettore avesse dovuto uccidere Vincenzina, l’avrebbe
fatto premeditando il delitto, e comunque anche se non lo avesse premeditato
sarebbe riuscito a trovarsi un alibi, a trovare delle spiegazioni un po’ meno
banali e incredibili di quelle di cui si è valso. Solo uno sciocco o un essere
diabolico avrebbe potuto impostare la propria difesa come ha fatto Ettore
Grande, non un uomo equilibrato e senza fantasia come lui. La prova dell’innocenza
di Grande può consistere precisamente nelle troppe prove che si accumulano
contro di lui, a cui fa contrasto quella sua tenacia quasi inumana nel
pretendere dagli uomini il riconoscimento della sua innocenza.
Rividi Ettore Grande l’anno scorso (1948) in settembre,
due mesi prima che lo arrestassero per la seconda volta, in vista del terzo
dibattimento che si svolgerà a Bologna in ottobre. Mi disse che viveva con suo
padre, aiutandosi con qualche ripetizione di inglese. Mi fece entrare in casa
sua, che si trova in fondo a un orto ed è una costruzione modesta a un piano
solo, arredata con vecchi mobili di un barocco piemontese.
Sopra la scrivania dello studio, proprio in faccia a noi,
c’era una grossa testa di cinghiale che ci guardava. Prevenne la mia domanda e
disse alzandosi: “È l’unico essere che abbia ucciso in vita mia”.
Inchiesta di Enrico Roda da “Oggi”, 1949
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