giovedì 7 marzo 2019

ILCASO MONTESI - XIV


LO ZIO GIUSEPPE PARLA DI WILMA


Corrispondenza di Anita Pensotti da “Oggi” n. 14 del 4 aprile 1957

Improvvisamente c'è un nuovo sospettato per la fine della povera Wilma: suo zio Giuseppe. Fratello minore del padre, Rodolfo Montesi, Giuseppe ha soltanto otto anni più della nipote e una vita abbastanza movimentata: lavora in un ministero al mattino e in una tipografia al pomeriggio, e saranno proprio i colleghi della tipografia a ricordare che, il giorno della scomparsa di Wilma, lui uscì prima dell'orario solito dal laboratorio.
Qui un articolo della famosa giornalista Anita Pensotti in cui Giuseppe racconta la sua versione dei fatti.

“Speriamo che smetta di piovere, che splenda un bel sole giovedì a Venezia”, sospirò a un certo momento Giuseppe Montesi. Eravamo seduti, lui, la sua fidanzata Mariella e io intorno alla tavola rettangolare della sua modesta sala da pranzo in un seminterrato di via Alessandria e parlavamo da quasi tre ore.
“Sa”, continuò, “io e Mariella avevamo sognato da bravi borghesi di recarci in viaggio di nozze nella città delle gondole. Ci andremo adesso, tutt’altro che in luna di miele, ma non abbiamo, glielo assicuro, nessuna intenzione di annoiarci. Verrà con noi anche mia sorella Ida e, siccome siamo tutti e tre giovani e ansiosi di vedere un po’ di mondo, non perderemo questa occasione e cercheremo di svagarci comunque”.

 
Proprio il giorno prima, lunedì 25 marzo, lo Zio Giuseppe aveva ricevuto il foglietto giallo, poco più grande di un telegramma, in cui il presidente del tribunale di Venezia lo invitava a presentarsi in qualità di testimone alle ore 9 del 28 marzo, “nella causa contro Piccioni”. E fin dalla sera precedente il suo nome, pubblicato a caratteri di scatola, invadeva le prime pagine dei giornali italiani. Ma nell’abitazione che lo zio di Wilma divide da tempo con i genitori e con i fratelli (Ernesto di 50 anni e Alberto di 46, scapoli entrambi) non era entrato nessun quotidiano. “Da quando sono cominciati i miei guai”, mi ha detto Giuseppe Montesi, “evito il più possibile di seguire attraverso la stampa il processo. I fatti più importanti della vicenda li conosco a memoria e per il resto prevedo che non vi saranno colpi di scena. Al ministero del tesoro, dove sono impiegato, i miei colleghi evitano con molta discrezione di parlare in mia presenza del “Caso Montesi”, e anche in casa difficilmente tocchiamo questo tasto così doloroso per noi”.

Giuseppe Montesi ha 32 anni. Sportivo, vestito con una certa eleganza, ha frequentato le scuole tecniche interrompendo a quindici anni gli studi per portare il suo contributo al magro bilancio familiare: ma la sua vera ambizione, mi ha confessato, sarebbe stata quella di fare il giornalista. E bisogna ammettere che alcune doti indispensabili alla professione non gli fanno difetto: si esprime con disinvoltura, scegliendo attentamente i vocaboli, afferra con prontezza le nascoste intenzioni del suo interlocutore e ricorre spesso alle immagini nel corso della conversazione. “Attualmente”, mi ha detto ad esempio, “mi sento come un paziente che sta per subire un delicato intervento e che è già, anche se non completamente, sotto l’effetto della narcosi. Ascolto, in uno stato di semi-incoscienza, ogni parola dei miei “professori”: Sarà incriminato? Potrà ritornare nell’ombra dopo la sua deposizione? Lo lasceranno finalmente tranquillo? Niente mi sfugge, tuttavia non reagisco, certo come sono che potrò risvegliarmi nel migliore dei modi ad operazione finita”.

A Roma qualcuno l’ha definito il “bello del caso Montesi”. Non è molto alto, ma gli occhi nerissimi e i lineamenti del viso sono gli stessi di Wilma, tanto da giustificare una delle frasi pronunciate da Wanda Montesi durante la sua deposizione a Venezia quando, riferendo una discussione avuto con la madre a proposito dello zio Peppino (la signora Maria non voleva che le figlie si facessero vedere in giro con lui), ricordò un’esclamazione di Wilma: “Ma l’ha scritto in faccia che è nostro zio!”

Per dire la verità, Giuseppe Montesi non tiene affatto a questa rassomiglianza. Quando glielo fanno notare (ed è la prima cosa che viene in mente a quanti hanno occasione di avvicinarlo), non dice né sì né no, ma abbassa gli angoli delle labbra in una smorfia espressiva. Sua nipote, sostiene, era per lui poco più di un’estranea. Gli capita persino di dire che la conosceva “soltanto di vista”: ma subito aggiunge che non potrebbe esprimersi meglio dal momento che ebbe modo di incontrarsi con lei (e mai da soli) tre volte o al massimo quattro. Riuscì, prosegue, a inquadrare meglio il suo carattere soltanto dopo la tremenda sventura che colpì la famiglia di suo fratello. “In quei giorni Rodolfo mi pregava di stargli vicino il più possibile e mi convinceva a restare a colazione o a cena con loro (“se tu non ci sei”, diceva, “Maria scoppia a piangere guardando il posto vuoto di Wilma”) e mi era tanto riconoscente per il conforto che gli veniva dalla mia presenza che un giorno, parlando con un amico, gli disse con orgoglio: “E pensare che avevo in via Alessandria (cioè a poca distanza da via Tagliamento e dalla sua casa) un fratello così caro e prezioso, e non lo sapevo neppure”.

Giuseppe Montesi poté in tal modo, attraverso le continue rievocazioni del fratello, della cognata e dei nipoti, costruire dentro di sé a poco a poco un’immagine della povera Wilma. Non ha esitato a riassumere per me, in maniera efficace anche se assai sbrigativa, il risultato delle sue convinzioni. “Era un’ochetta”, mi ha detto, “con tutto il rispetto dovuto alla sua memoria. Un’ochetta nel senso migliore della parola, ossia una sempliciona, una ragazza che non sapeva destreggiarsi da sé nella vita e aveva bisogno in ogni cosa di una mano pronta a guidarla. Ma mia cognata Maria non ha mai permesso che trapelasse questo aspetto della sua Wilma, forse non vuole ammetterlo neppure in segreto. Ricordo con quanta fierezza narrò una volta che sua figlia era stata capace d’imparare a condurre la “vespa” in un’ora soltanto, a Villa Borghese, e come le sia sempre stato di consolazione il fatto di leggere un po’ dovunque che “Wilma era bellissima”. Certo è umano e comprensibile che una madre tenda ad abbellire d’ogni virtù una figlia scomparsa a vent’anni e così tragicamente, ma questa “trasfigurazione” ha certo contribuito a complicare senza rimedio l’intricatissimo Caso Montesi, presentando una Wilma irreale (splendida, brava, perfettissima) e quindi incredibile per la maggior parte”.

La teoria di Giuseppe Montesi è curiosa ed interessante sotto certi punti di vista. Sarebbe questa, in altre parole: ad una ragazza come Wilma, abbandonata a sé stessa, poteva accadere qualsiasi cosa, qualunque idea poteva allettare l’ingenuità della sua fantasia: anche la più assurda come quella di recarsi a Ostia per curare i geloni o di dimostrare a suo padre, scappando di casa per qualche ora, che lei ormai non era più una bambina. A questo punto lo Zio Giuseppe (anzi, lo Zio Pino: è stato chiamato così da quando è nato, mai Giuseppe e neppure Peppino) si è affrettato ad aggiungere. “Non scriva, per carità, che continuo a sostenere la tesi della disgrazia. Una mia incauta affermazione a questo proposito mi ha già procurato fin troppe noie! Io non sostengo nulla, io aspetto, come gli altri cittadini, una spiegazione plausibile dai giudici delle Fabbriche Nuove”.

Poi lo Zio Pino mi ha elencato tutti i guai che gli sono piombati addosso prima e dopo l’Operazione Giuseppe. Dice Operazione Giuseppe con estremo distacco. “Forse”, gli ho chiesto, “perché il nome Giuseppe è insolito alle sue orecchie come se appartenesse ad un’altra persona?”. “No, no”, mi ha risposto guardandomi con una punta di diffidenza, “perché l’Operazione Giuseppe non mi riguarda assolutamente”.

Uno dei guai più grossi derivati allo zio di Wilma dalla sua promozione a personaggio importante della vicenda Montesi è stata la perdita del posto che gli serviva ad arrotondare lo stipendio di impiegato statale. Non è più tornato presso la tipografia Casciani, da cui sono partite le accuse più gravi contro di lui, e ha rinunciato a crearsi un altro giro d’affari che fosse in grado di sostituire la precedente occupazione. Presentarsi a qualcuno diventava, infatti, per lui una sofferenza insopportabile e ancora più insopportabile era sentire pronunciare ad alta voce il proprio cognome e dover sopportare, fingendo indifferenza, i commenti alle sue spalle. È stato costretto a vendere la “topolino” blu scuro acquistata con il ricavato della vendita della sua vecchia “giardinetta”; ma soprattutto ha dovuto rinviare a tempi migliori il suo matrimonio con Mariella.

Mariella Spissu è una ragazza dolce e tranquilla che attende da dieci anni di diventare la signora Montesi. Lei e Pino si conobbero nel 1947 quando lavoravano entrambi al Poligrafico, in piazza Verdi (il ministero del Tesoro aveva distaccato in quel tempo presso tale sede Giuseppe Montesi). Ma il lungo fidanzamento sembrava ormai al termine: allo Zio Pino era stata promessa da una cooperativa statale l’assegnazione di un appartamentino nei dintorni di piazza Bologna. La paziente Mariella aveva già cominciato a visitare i fabbricanti di mobili: le nozze avrebbero dovuto aver luogo verso l’inizio del ’56. Ma l’Operazione Giuseppe mandò a monte ogni cosa. Nessuno parlò più dell’appartamento a Pino e alla sua fidanzata. Le entrate erano diminuite, anche Mariella, per una malattia, aveva lasciato l’impiego.

Ma i guai dello Zio Pino non finiscono qui. Nell’agosto o nel settembre del ’52 nei rapporti tra i Montesi di via Tagliamento e quelli di via Alessandria ci fu una nuova frattura. Per dieci anni i genitori di Wilma e quelli di Pino avevano evitato con cura di scambiarsi perfino il saluto; poi, poco prima della morte dell’infelice ragazza, si erano rappacificati e la tregua, cementata dal comune dolore per la grande disgrazia, era durata per qualche mese. Ma quattro anni fa, sul finire dell’estate, ci fu un incidente che rinfocolò all’improvviso la guerra. Ecco la versione di tale incidente nel racconto dello Zio Pino. 

“I Montesi di via Tagliamento erano venuti a farci visita. Erano presenti, naturalmente, anche la mia fidanzata e sua sorella minore, Rossana Spissu. A Rossana toccò il compito di servire il caffè agli ospiti, ma girando intorno al tavolo con il vassoio e le tazzine, sfiorò con il braccio, senza volerlo, la spalla di mio fratello Rodolfo. Bastò perché mia cognata si abbandonasse ad una scena di gelosia: ne nacque una discussione penosa durante la quale non riuscii a trattenermi. Dissi alla signora Maria Petti ciò che pensavo di lei e aggiunsi che da quel momento i Montesi di via Alessandria si sarebbero guardati bene dal voltare l’angolo di via Tagliamento”.

Da allora le ostilità fra le due famiglie avversarie non sono ancora cessate e promettono di durare ancora qualche lustro. Secondo i Montesi di via Tagliamento un’altra “provocazione” fu l’articolo a firma dello Zio Giuseppe pubblicato dal nostro giornale nell’aprile del 1954. In seguito a ciò lo Zio Giuseppe venne invitato a presentarsi nello studio dell’avvocato Schirò, in quel tempo legale di Rodolfo Montesi (l’avvocato Schirò è molto religioso e adesso accende ogni mattina un cero alla Madonna per avergli concesso la grazia di uscire sano e salvo dal Caso Montesi). Schirò, dunque, aveva l’incarico di ammonire il fratello del proprio cliente per le sue velleità giornalistiche: lo fece, ma non troppo severamente. Comunque lo zio Pino è convinto che di quello scritto possano essere dispiaciuti a Rodolfo due punti: quello in cui si ricordava che Wilma, a 15 anni, aveva avuto un’innocente infatuazione per un ingegnere sposato, a Rocca di Papa, e il finale dell’articolo in cui si prospettava l’ipotesi, fra le tante critiche, che la scomparsa di Wilma si potesse interpretare come “un gesto di rivolta all’eccessiva autorità di suo padre”.

Nell’autunno di quel medesimo 1954 Giuseppe Montesi, che non aveva più rivisto nessuno dei “nemici” di via Tagliamento, s’incontrò a tu per tu con Wanda, nell’anticamera del giudice istruttore D’Aniello. Wanda, che era appena tornata dal viaggio di nozze, fu molto gentile con lui e s’indignò, racconta suo zio, “per i sospetti mostruosi” scagliati contro di lui. Finalmente, durante la sua deposizione a Venezia, Rodolfo Montesi è passato alla controffensiva. Ha descritto Pino come un gaudente donnaiolo, come un tipo da tenere alla larga, capace di dare cattivi consigli al suo Sergio (il figlio minore, N.d.R.) 

Naturalmente lo zio Pino si ribella con energia. Respinge l’accusa di essere un cacciatore di donne, sostiene di non aver mai posseduto (“Magari! Vorrebbe dire che ho molti soldi!”) una garçonnière vicino a Ostia e soprattutto respinge l’insinuazione riguardante il nipote Sergio. “Quando”, mi ha raccontato, “eravamo ancora in buoni rapporti con i Montesi di via Tagliamento, io facevo di tutto per essere premuroso con loro. Ho accompagnato un paio di volte mia cognata Maria a visitare la tomba di Wilma, poi non ci sono più stato, non ho altri parenti al Verano; per accontentarla ho spesso invitato anche Sergio a prendere parte a qualche gita al mare, con me e con Mariella. Accadeva che si ritornasse un po’ tardi e mio fratello Rodolfo non ci lesinava i rimbrotti. “Dove siete stati fino a quest’ora?”, ci ripeteva fino alla noia. E io ridendo gli rispondevo scherzosamente che avevamo fatto la corte alle ragazze. A quanto pare Rodolfo ha preso per oro colato le mie innocenti parole e non me l’ha perdonata”.

Ho rivisto Giuseppe Montesi poche ore prima della sua partenza per Venezia: le valigie erano già quasi pronte, la sua fidanzata lo aiutava a riempirle e a trasportarle nel corridoio d’ingresso. Si è fermato un momento in cima alla breve rampa di gradini che conduce al seminterrato, si è voltato e, come se si trovasse sulla scaletta d’imbarco di un aeroplano, ha agitato il fazzoletto in un ampio gesto. “Arrivederci, Roma!” ho buttato là scherzosamente. “Ah no”, mi ha risposto con innegabile prontezza, “Arrivederci a Roma!”

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