LO ZIO GIUSEPPE PARLA DI WILMA
Corrispondenza di Anita Pensotti da “Oggi” n. 14 del 4
aprile 1957
Improvvisamente
c'è un nuovo sospettato per la fine della povera Wilma: suo zio Giuseppe.
Fratello minore del padre, Rodolfo Montesi, Giuseppe ha soltanto otto anni più
della nipote e una vita abbastanza movimentata: lavora in un ministero al
mattino e in una tipografia al pomeriggio, e saranno proprio i colleghi della
tipografia a ricordare che, il giorno della scomparsa di Wilma, lui uscì prima
dell'orario solito dal laboratorio.
Qui un articolo della famosa giornalista Anita Pensotti in cui Giuseppe racconta la sua versione dei fatti.
Qui un articolo della famosa giornalista Anita Pensotti in cui Giuseppe racconta la sua versione dei fatti.
“Speriamo che smetta di piovere, che splenda un bel sole
giovedì a Venezia”, sospirò a un certo momento Giuseppe Montesi. Eravamo seduti,
lui, la sua fidanzata Mariella e io intorno alla tavola rettangolare della sua
modesta sala da pranzo in un seminterrato di via Alessandria e parlavamo da
quasi tre ore.
“Sa”, continuò, “io e Mariella avevamo sognato da bravi
borghesi di recarci in viaggio di nozze nella città delle gondole. Ci andremo
adesso, tutt’altro che in luna di miele, ma non abbiamo, glielo assicuro,
nessuna intenzione di annoiarci. Verrà con noi anche mia sorella Ida e, siccome
siamo tutti e tre giovani e ansiosi di vedere un po’ di mondo, non perderemo
questa occasione e cercheremo di svagarci comunque”.
Proprio il giorno prima, lunedì 25 marzo, lo Zio Giuseppe
aveva ricevuto il foglietto giallo, poco più grande di un telegramma, in cui il
presidente del tribunale di Venezia lo invitava a presentarsi in qualità di
testimone alle ore 9 del 28 marzo, “nella causa contro Piccioni”. E fin dalla
sera precedente il suo nome, pubblicato a caratteri di scatola, invadeva le
prime pagine dei giornali italiani. Ma nell’abitazione che lo zio di Wilma
divide da tempo con i genitori e con i fratelli (Ernesto di 50 anni e Alberto
di 46, scapoli entrambi) non era entrato nessun quotidiano. “Da quando sono
cominciati i miei guai”, mi ha detto Giuseppe Montesi, “evito il più possibile
di seguire attraverso la stampa il processo. I fatti più importanti della
vicenda li conosco a memoria e per il resto prevedo che non vi saranno colpi di
scena. Al ministero del tesoro, dove sono impiegato, i miei colleghi evitano
con molta discrezione di parlare in mia presenza del “Caso Montesi”, e anche in
casa difficilmente tocchiamo questo tasto così doloroso per noi”.
Giuseppe Montesi ha 32 anni. Sportivo, vestito con una
certa eleganza, ha frequentato le scuole tecniche interrompendo a quindici anni
gli studi per portare il suo contributo al magro bilancio familiare: ma la sua
vera ambizione, mi ha confessato, sarebbe stata quella di fare il giornalista.
E bisogna ammettere che alcune doti indispensabili alla professione non gli
fanno difetto: si esprime con disinvoltura, scegliendo attentamente i vocaboli,
afferra con prontezza le nascoste intenzioni del suo interlocutore e ricorre
spesso alle immagini nel corso della conversazione. “Attualmente”, mi ha detto
ad esempio, “mi sento come un paziente che sta per subire un delicato
intervento e che è già, anche se non completamente, sotto l’effetto della
narcosi. Ascolto, in uno stato di semi-incoscienza, ogni parola dei miei
“professori”: Sarà incriminato? Potrà ritornare nell’ombra dopo la sua
deposizione? Lo lasceranno finalmente tranquillo? Niente mi sfugge, tuttavia
non reagisco, certo come sono che potrò risvegliarmi nel migliore dei modi ad
operazione finita”.
A Roma qualcuno l’ha definito il “bello del caso
Montesi”. Non è molto alto, ma gli occhi nerissimi e i lineamenti del viso sono
gli stessi di Wilma, tanto da giustificare una delle frasi pronunciate da Wanda
Montesi durante la sua deposizione a Venezia quando, riferendo una discussione avuto
con la madre a proposito dello zio Peppino (la signora Maria non voleva che le
figlie si facessero vedere in giro con lui), ricordò un’esclamazione di Wilma:
“Ma l’ha scritto in faccia che è nostro zio!”
Per dire la verità, Giuseppe Montesi non tiene affatto a
questa rassomiglianza. Quando glielo fanno notare (ed è la prima cosa che viene
in mente a quanti hanno occasione di avvicinarlo), non dice né sì né no, ma
abbassa gli angoli delle labbra in una smorfia espressiva. Sua nipote,
sostiene, era per lui poco più di un’estranea. Gli capita persino di dire che
la conosceva “soltanto di vista”: ma subito aggiunge che non potrebbe
esprimersi meglio dal momento che ebbe modo di incontrarsi con lei (e mai da
soli) tre volte o al massimo quattro. Riuscì, prosegue, a inquadrare meglio il
suo carattere soltanto dopo la tremenda sventura che colpì la famiglia di suo
fratello. “In quei giorni Rodolfo mi pregava di stargli vicino il più possibile
e mi convinceva a restare a colazione o a cena con loro (“se tu non ci sei”,
diceva, “Maria scoppia a piangere guardando il posto vuoto di Wilma”) e mi era
tanto riconoscente per il conforto che gli veniva dalla mia presenza che un
giorno, parlando con un amico, gli disse con orgoglio: “E pensare che avevo in
via Alessandria (cioè a poca distanza da via Tagliamento e dalla sua casa) un
fratello così caro e prezioso, e non lo sapevo neppure”.
Giuseppe Montesi poté in tal modo, attraverso le continue
rievocazioni del fratello, della cognata e dei nipoti, costruire dentro di sé a
poco a poco un’immagine della povera Wilma. Non ha esitato a riassumere per me,
in maniera efficace anche se assai sbrigativa, il risultato delle sue
convinzioni. “Era un’ochetta”, mi ha detto, “con tutto il rispetto dovuto alla
sua memoria. Un’ochetta nel senso migliore della parola, ossia una sempliciona,
una ragazza che non sapeva destreggiarsi da sé nella vita e aveva bisogno in
ogni cosa di una mano pronta a guidarla. Ma mia cognata Maria non ha mai
permesso che trapelasse questo aspetto della sua Wilma, forse non vuole
ammetterlo neppure in segreto. Ricordo con quanta fierezza narrò una volta che
sua figlia era stata capace d’imparare a condurre la “vespa” in un’ora
soltanto, a Villa Borghese, e come le sia sempre stato di consolazione il fatto
di leggere un po’ dovunque che “Wilma era bellissima”. Certo è umano e
comprensibile che una madre tenda ad abbellire d’ogni virtù una figlia
scomparsa a vent’anni e così tragicamente, ma questa “trasfigurazione” ha certo
contribuito a complicare senza rimedio l’intricatissimo Caso Montesi,
presentando una Wilma irreale (splendida, brava, perfettissima) e quindi
incredibile per la maggior parte”.
La teoria di Giuseppe Montesi è curiosa ed interessante
sotto certi punti di vista. Sarebbe questa, in altre parole: ad una ragazza
come Wilma, abbandonata a sé stessa, poteva accadere qualsiasi cosa, qualunque
idea poteva allettare l’ingenuità della sua fantasia: anche la più assurda come
quella di recarsi a Ostia per curare i geloni o di dimostrare a suo padre,
scappando di casa per qualche ora, che lei ormai non era più una bambina. A
questo punto lo Zio Giuseppe (anzi, lo Zio Pino: è stato chiamato così da
quando è nato, mai Giuseppe e neppure Peppino) si è affrettato ad aggiungere.
“Non scriva, per carità, che continuo a sostenere la tesi della disgrazia. Una
mia incauta affermazione a questo proposito mi ha già procurato fin troppe
noie! Io non sostengo nulla, io aspetto, come gli altri cittadini, una
spiegazione plausibile dai giudici delle Fabbriche Nuove”.
Poi lo Zio Pino mi ha elencato tutti i guai che gli sono
piombati addosso prima e dopo l’Operazione Giuseppe. Dice Operazione Giuseppe
con estremo distacco. “Forse”, gli ho chiesto, “perché il nome Giuseppe è
insolito alle sue orecchie come se appartenesse ad un’altra persona?”. “No,
no”, mi ha risposto guardandomi con una punta di diffidenza, “perché l’Operazione
Giuseppe non mi riguarda assolutamente”.
Uno dei guai più grossi derivati allo zio di Wilma dalla
sua promozione a personaggio importante della vicenda Montesi è stata la
perdita del posto che gli serviva ad arrotondare lo stipendio di impiegato
statale. Non è più tornato presso la tipografia Casciani, da cui sono partite
le accuse più gravi contro di lui, e ha rinunciato a crearsi un altro giro d’affari
che fosse in grado di sostituire la precedente occupazione. Presentarsi a
qualcuno diventava, infatti, per lui una sofferenza insopportabile e ancora più
insopportabile era sentire pronunciare ad alta voce il proprio cognome e dover
sopportare, fingendo indifferenza, i commenti alle sue spalle. È stato
costretto a vendere la “topolino” blu scuro acquistata con il ricavato della
vendita della sua vecchia “giardinetta”; ma soprattutto ha dovuto rinviare a
tempi migliori il suo matrimonio con Mariella.
Mariella Spissu è una ragazza dolce e tranquilla che
attende da dieci anni di diventare la signora Montesi. Lei e Pino si conobbero
nel 1947 quando lavoravano entrambi al Poligrafico, in piazza Verdi (il
ministero del Tesoro aveva distaccato in quel tempo presso tale sede Giuseppe
Montesi). Ma il lungo fidanzamento sembrava ormai al termine: allo Zio Pino era
stata promessa da una cooperativa statale l’assegnazione di un appartamentino
nei dintorni di piazza Bologna. La paziente Mariella aveva già cominciato a
visitare i fabbricanti di mobili: le nozze avrebbero dovuto aver luogo verso l’inizio
del ’56. Ma l’Operazione Giuseppe mandò a monte ogni cosa. Nessuno parlò più
dell’appartamento a Pino e alla sua fidanzata. Le entrate erano diminuite,
anche Mariella, per una malattia, aveva lasciato l’impiego.
Ma i guai dello Zio Pino non finiscono qui. Nell’agosto o
nel settembre del ’52 nei rapporti tra i Montesi di via Tagliamento e quelli di
via Alessandria ci fu una nuova frattura. Per dieci anni i genitori di Wilma e
quelli di Pino avevano evitato con cura di scambiarsi perfino il saluto; poi,
poco prima della morte dell’infelice ragazza, si erano rappacificati e la
tregua, cementata dal comune dolore per la grande disgrazia, era durata per
qualche mese. Ma quattro anni fa, sul finire dell’estate, ci fu un incidente
che rinfocolò all’improvviso la guerra. Ecco la versione di tale incidente nel racconto
dello Zio Pino.
“I Montesi di via Tagliamento erano venuti a farci
visita. Erano presenti, naturalmente, anche la mia fidanzata e sua sorella
minore, Rossana Spissu. A Rossana toccò il compito di servire il caffè agli
ospiti, ma girando intorno al tavolo con il vassoio e le tazzine, sfiorò con il
braccio, senza volerlo, la spalla di mio fratello Rodolfo. Bastò perché mia
cognata si abbandonasse ad una scena di gelosia: ne nacque una discussione
penosa durante la quale non riuscii a trattenermi. Dissi alla signora Maria
Petti ciò che pensavo di lei e aggiunsi che da quel momento i Montesi di via
Alessandria si sarebbero guardati bene dal voltare l’angolo di via Tagliamento”.
Da allora le ostilità fra le due famiglie avversarie non
sono ancora cessate e promettono di durare ancora qualche lustro. Secondo i
Montesi di via Tagliamento un’altra “provocazione” fu l’articolo a firma dello
Zio Giuseppe pubblicato dal nostro giornale nell’aprile del 1954. In seguito a ciò
lo Zio Giuseppe venne invitato a presentarsi nello studio dell’avvocato Schirò,
in quel tempo legale di Rodolfo Montesi (l’avvocato Schirò è molto religioso e
adesso accende ogni mattina un cero alla Madonna per avergli concesso la grazia
di uscire sano e salvo dal Caso Montesi). Schirò, dunque, aveva l’incarico di
ammonire il fratello del proprio cliente per le sue velleità giornalistiche: lo
fece, ma non troppo severamente. Comunque lo zio Pino è convinto che di quello
scritto possano essere dispiaciuti a Rodolfo due punti: quello in cui si
ricordava che Wilma, a 15 anni, aveva avuto un’innocente infatuazione per un
ingegnere sposato, a Rocca di Papa, e il finale dell’articolo in cui si
prospettava l’ipotesi, fra le tante critiche, che la scomparsa di Wilma si
potesse interpretare come “un gesto di rivolta all’eccessiva autorità di suo
padre”.
Nell’autunno di quel medesimo 1954 Giuseppe Montesi, che
non aveva più rivisto nessuno dei “nemici” di via Tagliamento, s’incontrò a tu
per tu con Wanda, nell’anticamera del giudice istruttore D’Aniello. Wanda, che
era appena tornata dal viaggio di nozze, fu molto gentile con lui e s’indignò,
racconta suo zio, “per i sospetti mostruosi” scagliati contro di lui. Finalmente,
durante la sua deposizione a Venezia, Rodolfo Montesi è passato alla
controffensiva. Ha descritto Pino come un gaudente donnaiolo, come un tipo da
tenere alla larga, capace di dare cattivi consigli al suo Sergio (il figlio
minore, N.d.R.)
Naturalmente lo zio Pino si ribella con energia. Respinge
l’accusa di essere un cacciatore di donne, sostiene di non aver mai posseduto (“Magari!
Vorrebbe dire che ho molti soldi!”) una garçonnière vicino a Ostia e
soprattutto respinge l’insinuazione riguardante il nipote Sergio. “Quando”, mi
ha raccontato, “eravamo ancora in buoni rapporti con i Montesi di via
Tagliamento, io facevo di tutto per essere premuroso con loro. Ho accompagnato
un paio di volte mia cognata Maria a visitare la tomba di Wilma, poi non ci
sono più stato, non ho altri parenti al Verano; per accontentarla ho spesso
invitato anche Sergio a prendere parte a qualche gita al mare, con me e con
Mariella. Accadeva che si ritornasse un po’ tardi e mio fratello Rodolfo non ci
lesinava i rimbrotti. “Dove siete stati fino a quest’ora?”, ci ripeteva fino
alla noia. E io ridendo gli rispondevo scherzosamente che avevamo fatto la
corte alle ragazze. A quanto pare Rodolfo ha preso per oro colato le mie
innocenti parole e non me l’ha perdonata”.
Ho rivisto Giuseppe Montesi poche ore prima della sua
partenza per Venezia: le valigie erano già quasi pronte, la sua fidanzata lo
aiutava a riempirle e a trasportarle nel corridoio d’ingresso. Si è fermato un
momento in cima alla breve rampa di gradini che conduce al seminterrato, si è
voltato e, come se si trovasse sulla scaletta d’imbarco di un aeroplano, ha
agitato il fazzoletto in un ampio gesto. “Arrivederci, Roma!” ho buttato là
scherzosamente. “Ah no”, mi ha risposto con innegabile prontezza, “Arrivederci
a Roma!”
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