Nel nostro lavoro di redazione, spulciando le pagine dei
settimanali, ci siamo resi conto di quanto il Caso Montesi sia intricato e di
difficile comprensione, soprattutto oggi dopo più di sessant’anni dall’epoca
dei fatti.
MI HANNO RUBATO SEI ANNI
DELLA MIA VITA
Articolo di Lugi Cavicchioli da “Oggi” n. 47 del 24
novembre 1960
“Mi hanno rubato”, dice Giuseppe Montesi, “sei anni della
mia vita. Ero ottimista, ingenuo, fiducioso: per questo mi sono inguaiato, come
uno stupido, senza nemmeno rendermene conto. Quando mi sentii dire per la prima
volta, da un certo giornalista, che il responsabile della morte di Wilma potevo
essere io, pensai che volesse scherzare. Non mi passava neppure per la mente
l’idea che qualcuno potesse prendere sul serio un’ipotesi del genere. Ero
lontano le mille miglia dall’immaginare che razza di trabocchetto stava per
aprirsi sotto i miei piedi. Ero come un ragazzino che gioca con un ordigno
esplosivo, convinto che sia una innocentissima palla”.
“Per restare nella metafora: mi dica, con tutta
franchezza, se l’ordigno ritiene di averlo trovato per caso o se crede che
qualcuno glielo abbia messo di proposito a portata di mano”.
“Non so, non capisco più nulla. Ma credo, voglio credere,
di averlo trovato per caso, per un capriccio del destino, per un complesso di
allucinanti coincidenze. Non posso pensare che esista qualcuno capace di ordire
una così diabolica macchinazione”.
“Cos’ha fatto per vivere in questi ultimi tempi?”
“Che cosa vuole che abbia fatto? Mi sono arrangiato, alla
meno peggio, con qualche lavoretto o affaruccio, tenendo la contabilità di
qualche azienda. Ma non è certo quello che sognavo. Avevo dei progetti, speravo
di fare strada nella vita, di conquistare una buona posizione economica, di
impiantare una florida azienda commerciale. Ero convinto di avere i numeri per
riuscire: ora mi sento un fallito. Non so più sorridere, non so più parlare con
la gente, non so più essere cordiale e simpatico: tutte cose essenziali per
quel genere di lavoro. Non ho più fiducia in me stesso, non posso quindi
pretendere di ispirarne agli altri. Recentemente, in un ritorno di ottimismo,
ho chiesto un prestito, assai modesto, per concludere un affare sicuramente
vantaggioso: una normale operazione finanziaria, una facilitazione che un
altro, al mio posto, avrebbe ottenuto senza difficoltà. A me il prestito è
stato negato. Del resto, siamo giusti: che fiducia può riscuotere uno come me,
ancora inguaiato in una vicenda giudiziaria che non si sa come andrà a finire?”
“Al processo di Venezia la sua vita fu buttata in piazza
senza reticenze. Si seppe che lei, fidanzato ufficialmente con Mariella Spissu,
aveva nello stesso tempo una relazione sentimentale con la sorella di costei,
Rossana, dalla quale ha avuto un figlio. Le cose sono rimaste come allora o in
questi ultimi tempi ha deciso di regolarizzare in qualche modo questa
situazione?”
“Finché dura questo incubo, come si fa a parlare di
fidanzata, di moglie, di relazione sentimentale? Certo i miei sentimenti non
sono mutati. Ma chi vuole che in tempo di guerra, durante i bombardamenti, pensasse
a costruirsi una casetta? Ho il mio bambino, per fortuna, al quale ho dato il
mio nome: ha cinque anni e mezzo, va già a scuola, è molto intelligente. Oggi è
lui la mia sola ragione di vita. Se, dopo questo processo, riuscirò a trovare
la forza e la serenità per ricominciare da capo e mettere ordine nella mia esistenza,
il merito sarà soltanto suo”.
Giuseppe Montesi è ora sul banco degli imputati. La sua
situazione è sconcertante: egli non deve rispondere soltanto del reato di
calunnia, ma per vie traverse, con una procedura quanto meno insolita, il
“povero Zio Giuseppe” potrà essere additato all’opinione pubblica come
responsabile della morte di Wilma, cioè reo di un delitto che non si sa neppure
se è stato commesso.
Perché il lettore si orienti in quella intricata e
misteriosa giungla che fu per anni il Caso Montesi, sarà forse utile ricordare
che l’inizio della vicenda risale al 9 aprile 1953, allorché Wilma Montesi esce
di casa alle 17; alle 21 non è ancora rientrata e la madre, in apprensione,
telefona ai parenti, poi denuncia la scomparsa della ragazza alla polizia; per
tutta notte si fanno ricerche affannose, alle quali partecipa attivamente lo
zio Giuseppe. L’11 aprile il cadavere di Wilma sarà ritrovato sulla spiaggia di
Torvaianica.
Il 21 settembre 1954 il giudice Sepe, dopo sei mesi di
indagini, forse influenzato dalla morbosa impazienza dell’opinione pubblica,
prese una decisione drastica: fece arrestare Piero Piccioni e Ugo Montagna.
Pochi giorni dopo, precisamente il 28 settembre, il direttore (Franco Biagetti)
e tre dipendenti (Leo Leonelli, Mario Garzoli, Lia Brusin) della tipografia
Casciani, andarono spontaneamente in questura a dichiarare che il 9 aprile 1953
Giuseppe Montesi, a quell’epoca impiegato presso la loro stessa tipografia,
aveva abbandonato l’ufficio alle 17, cioè all’ora esatta in cui Wilma uscì di
casa per andare incontro alla sua tragica fine; precisarono che se n’era andato
in gran fretta, subito dopo aver ricevuto una telefonata, dicendo che doveva
recarsi a Ostia per un affare urgente; la Brusin aggiunse inoltre di averlo
sentito varie volte, prima di quel giorno, telefonare dall’ufficio ad una certa
Wilma.
Erano accuse circostanziate e gravissime, ma Sepe non le
giudicò attendibili, anzi gli apparvero come un indizio di colpevolezza a
carico di Piccioni e Montagna. Prima di tutto risultò che il più autorevole dei
quattro accusatori, Franco Biagetti, conosceva Piccioni; a Sepe sembrò quindi
strano che quella sensazionale rivelazione arrivasse proprio in quel momento,
cioè pochi giorni dopo l’arresto di Piccioni e Montagna. Da un anno e mezzo
l’opinione pubblica era ossessionata dal Caso Montesi; la giustizia cercava
affannosamente di scoprire come e con chi Wilma aveva trascorso le ore
precedenti la sua morte: tutti i pazzi e i visionari correvano a fare le loro
brave rivelazioni. E i quattro della tipografia, che sapevano cose tanto
importanti, se ne stavano zitti.
Anzi, poche settimane dopo la morte di Wilma, quando un
maresciallo dei carabinieri incaricato di fare normali accertamenti su tutti
coloro che conoscevano la vittima andò alla tipografia Casciani a chiedere
informazioni sul conto dello Zio Giuseppe, i quattro futuri accusatori ne
diedero di ottime.
Nell’estate 1955 Sepe concluse finalmente l’inchiesta e
rinviò a giudizio gli imputati. Nella sentenza istruttoria le accuse formulate
dai quattro della tipografia contro lo Zio Giuseppe furono esplicitamente
indicate come una manovra “per deviare il corso della giustizia e scagionare
Piccioni”. Giuseppe Montesi, visto come la pensava il giudice istruttore, si
sentì autorizzato a querelare per falsa testimonianza i quattro della
tipografia, in data 30 agosto 1955.
Si giunse così all’ultimo atto. Nel gennaio 1957 ebbe
inizio a Venezia il processo contro Piccioni, Montagna e Polito. Fin dalle
prime battute fu evidente che Sepe, malgrado la sua laboriosissima inchiesta,
non aveva potuto raccogliere nessun indizio serio e concreto di colpevolezza a
carico degli imputati: dopo una serie ben concatenata di colpi di scena, lo Zio
Giuseppe, chiamato solo come teste, divenne in pratica, quasi senza rendersene
conto, il vero e unico imputato.
Il pubblico ministero puntò contro di lui tutte le sue
batterie. Lo Zio Giuseppe, costretto alle corde e suonato come un pugile ormai
prossimo al KO, finì per confessare nel corso di una drammatica udienza di
avere effettivamente lasciato il lavoro in anticipo, il 9 aprile 1953, dopo
aver ricevuto una telefonata: i quattro della tipografia, dunque, su questo
punto avevano detto il vero. Giuseppe disse che si era ostinato a negare d’aver
ricevuto la telefonata e di essere uscito in anticipo per non svelare un
segreto increscioso della sua vita privata: infatti era uscito (non però alle
17, ma alle 18 o forse alle 18.30) per incontrare Rossana Spissu, sorella della
sua fidanzata, con la quale aveva una relazione intima.
Rossana confessò: gli aveva telefonato alle 17.30 e lo
aveva poi incontrato dopo le 18. Ma ecco giungere, tre giorni dopo, una nuova
teste volontaria: la signora Piastra, la quale demolì l’alibi di Giuseppe
Montesi dichiarando che il 9 aprile 1953 non poteva essere uscito dalla
tipografia per incontrare Rossana Spissu, dal momento che Rossana in quel lasso
di tempo aveva accompagnato lei e un’altra signora alla stazione Termini.
Rossana, però, rimase ferma alla sua versione.
Il processo di Venezia si concluse, com’era logico, con
la piena assoluzione di Piccioni, Montagna e Polito. Ma il più appassionante
romanzo giallo del secolo non poteva sgonfiarsi in un finale insulso e
deludente. Lo Zio Giuseppe salvò il finale, assumendo il ruolo di indiziato
permanente, in modo da lasciare uno spiraglio aperto a qualsiasi congettura. Ha
dovuto fare l’identica via crucis già percorsa da Piccioni: i sospetti, le
accuse non suffragate da prove, gli interrogatori, il carcere. Piccioni,
almeno, ne è uscito completamente riabilitato da una inequivocabile sentenza:
la situazione dello Zio Giuseppe è anche più ingrata.
I quattro della tipografia, subito dopo il processo di
Venezia, denunciarono Giuseppe Montesi per calunnia (a causa della sua
precedente querela per falsa testimonianza). Fu aperto un procedimento a suo
carico: l’8 agosto 1957 lo Zio Giuseppe fu arrestato e rimase in carcere per
tre mesi (trattamento di estremo rigore per un reato che non comporta quasi mai
il carcere preventivo). Il 4 agosto 1959 fu rinviato a giudizio per calunnia
unitamente a Rossana Spissu per falsa testimonianza. La sentenza di rinvio a
giudizio riguardava esclusivamente il reato di calunnia, ma con una procedura
singolarissima si è voluto lasciare su di lui l’ombra di un sospetto terribile.
I giudici del processo di Venezia sentenziarono che è
impossibile dire con certezza se Wilma Montesi sia morta per disgrazia o in
conseguenza di un fatto criminoso, ma nella sentenza che ha rinviato a giudizio
Giuseppe è detto che se esistesse la prova che Wilma è morta in seguito a un
fatto criminoso, il colpevole sarebbe inequivocabilmente lui soltanto.
Solo una circostanziata sentenza di assoluzione al
processo in corso, dunque (ma è un processo per calunnia che può anche
risolversi con una lieve condanna senza il minimo aggancio con la morte di
Wilma) potrebbe rendere giustizia a Giuseppe Montesi, liberandolo da un
sospetto che altrimenti gli peserà sul capo per tutta la vita.
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