L’ENIGMA DI GIANNA LA ROSSA
AL CENTRO DEL PROCESSO
MONTESI
Articolo di Arturo Lusini da “Oggi” n. 4 del 24 gennaio
1957
Dopo la tempesta mediatica del 1954/1955, conclusa con il rinvio a giudizio dei tre principali sospettati (Piccioni per l'omicidio, Polito e Montagna per favoreggiamento e depistaggio) la serie degli articoli sul misterioso caso riprende nel gennaio 1957 con l'apertura del processo di Venezia.
Per quanti colpi di scena siano ancora possibili nella
nuova fase della vicenda Montesi, pubblico ministero, giudici e avvocati non si
distrarranno dal compito di dare con i mezzi classici del pubblico dibattito
una risposta definitiva agli interrogativi fondamentali che consistono
nell’accertare la responsabilità attribuita dalla sentenza istruttoria ai tre
imputati “maggiori”: Piero Piccioni, di aver cagionato la morte di Wilma
Montesi abbandonandone il corpo sul battente delle onde a Torvaianica; Saverio
Polito ed Ugo Montagna di avere, d’accordo fra loro, aiutato Piccioni a eludere
le investigazioni dell’autorità giudiziaria, indirizzando le indagini della
polizia verso l’ipotesi di una disgrazia.
Dopo quasi quattro anni dalla morte della Montesi (il cui
corpo, com’è noto, fu ritrovato sulla spiaggia di Torvaianica l’11 aprile
1953), dopo tre riprese di indagini da parte dell’autorità giudiziaria, seguite
da due archiviazioni e da una richiesta d’istruzione formale, dopo
un’istruttoria di quindici mesi durante i quali furono interrogate centinaia di
persone, dopo una requisitoria di 200 pagine dattiloscritte e una sentenza di
rinvio a giudizio motivata in 424 pagine dedotte dai 92 volumi di atti
istruttori, sono rimasti impigliate nelle maglie della giustizia 13 persone: i
tre imputati “maggiori”: i guardiani di Capocotta, Anastasio Lilli, Terzo
Guerrini, Palmira Ottaviani, Venenzio Di Felice, imputati di aver affermato il
falso e taciuto il vero circa il passaggio attraverso la tenuta di automobili a
bordo di una delle quali, secondo l’assunto della sentenza di rinvio, doveva
trovarsi Wilma in compagnia di Piccioni; Adriana Bisaccia, imputata di
simulazione di reato; Francesco Tannoia, Mercedes Borgatti, Michele Simola,
Pasquale Venuti, Maddalena Caramello, per aver deposto il falso; il
quattordicesimo imputato, Pierino Pierotti, morì tempo addietro in un incidente
automobilistico.
Piccioni, Montagna, Polito affrontano il processo con
tranquillità; la loro preoccupazione, semmai, consiste nel desiderio molto vivo
che tutto finisca presto, il più presto possibile, non solo per ragioni morali
ma anche pratiche.
Dopo la scarcerazione Piero Piccioni riprese a lavorare per
il cinema, collaborando alla colonna sonora di Notre Dame de Paris, scrivendo
quelle per Guendalina e per la riedizione del Monello di Chaplin; scrisse anche
alcune composizioni e orchestrazioni per la formazione di Armando Trovaioli. Ma
per la radio non ha lavorato più: le proposte di lavoro giuntegli dall’estero,
soprattutto dagli Stati Uniti, hanno dovuto essere accantonate in attesa del
giudizio. Nonostante le sue visite in qualche salotto romano, prontamente
riprese dai fotografi, nonostante la cortesia formale di cui lo circondano
amici e conoscenti, Piero Piccioni si sente un isolato: una volta conclusa la
vicenda, trasferirsi negli Stati Uniti, almeno per qualche tempo, è ciò che
egli desidera di più.
Montagna, colpito con un imponibile di 83 milioni dopo
averne denunciati 7, segue con preoccupazione gli sviluppi del ricorso pendente
presso gli organi fiscali. La clientela, allontanatasi dopo l’arresto, non lo
chiama neppure più col titolo di marchese; Capocotta, dove si compiaceva
d’invitare personaggi utili alla sua attività di mediatore, è stata restituita
agli eredi Savoia. Polito, ammalato ed invecchiato, è stato assolto da certi
addebiti mossigli su denuncia di Rachele Mussolini, ma non ha molte speranze di
veder risolto il suo ricorso contro la revoca della pensione di guerra prima
della sentenza del processo di Venezia.
I punti sui quali poggerà l’accusa contro Piero Piccioni
sono una decina, secondo l’elenco che ne fece Sepe. Ma è presumibile che il collegio
difensivo, composto dagli avvocati Carnelutti, Augenti, Delitala, De Luca,
concentrerà l’azione difensiva su quelli relativi alla conoscenza tra Piccioni
e la Montesi. Alla difesa di Piccioni importa dimostrare che il musicista non
conobbe mai Wilma Montesi e, di conseguenza, non può essere ritenuto
responsabile della sua morte: il resto, cioè come Wilma morì, e per colpa o per
dolo di chi, sembra più compito dell’accusa pubblica e di quella privata.
Molta attenzione, perciò, potrà essere dedicata al teste
Piccinini, il meccanico che credette di aver visto Wilma in compagnia di un
giovane bruno in un’auto insabbiata presso il lido di Ostia, in piena notte, in
data non sospetta, cioè un mese prima della scomparsa della povera ragazza.
Come pure potranno essere oggetto di attenta analisi le deposizioni dei vari
personaggi della zona di Torvaianica sulle cui parole la sezione istruttoria
ritenne di fondare il proprio convincimento sull’identità del personaggio che
sarebbe stato visto passeggiare tranquillamente, a fianco della Montesi, sulla
spiaggia di Torvaianica la sera prima del rinvenimento.
In linea secondaria potrebbero assumere importanza gli
altri punti, come quello relativo all’origine delle voci che indicarono in
Piccioni il responsabile della morte di Wilma: su questo punto le indagini di
Sepe non riuscirono, infatti, a superare un certo stadio; oppure, ancora,
l’effettivo tenore e significato delle telefonate di Alida Valli, la quale, da
Venezia dove si trovava per interpretare un film, secondo l’istruttoria si preoccupò
di quanto era successo a Piero Piccioni.
Per altri aspetti della vicenda l’azione del collegio
difensivo di Piccioni potrà coincidere con quella del collegio di Montagna,
composto dagli avvocati Bellavista, Vassalli, Lupis; sarà, evidentemente, per
le accuse mosse a più riprese da Anna Maria Moneta Caglio. La questione della
data del colloquio di Piccioni e di Montagna col capo della polizia, Pavone,
potrebbe essere ridiscussa a fondo, ma non disgiunta dalla soluzione del
problema della presenza della Caglio e dell’effettivo tema del colloquio: più o
meno vicino, secondo le diverse interpretazioni, a quello indicato dalla
ragazza milanese. I confronti tra Caglio e Montagna saranno, senza dubbio,
interessanti: rinnoveranno in pubblico gli scontri di cui i due personaggi
furono protagonisti nell’ufficio di Sepe a palazzo di giustizia, a Roma; con la
differenza che il fioretto con punta d’arresto degli scontri in istruttoria,
sarà sostituito dalla spada degli scontri in pubblica udienza.
Battaglia
grossa, il cui centro potrebbe, però, spostarsi in corrispondenza dell’episodio
di Gianna la Rossa, personaggio caro alla Caglio ed importante nell’istruttoria
Sepe: vi appare, infatti, come l’anello di congiunzione tra Piccioni, Montagna
e il mondo degli stupefacenti, necessario per spiegare lo stato d’incoscienza
in cui Wilma si sarebbe trovata quando sopraggiunse l’azione delittuosa che ne
provocò la morte per annegamento.
La lettera firmata Gianna la Rossa giunse a Sepe il 29
marzo 1954, il giorno stesso in cui il magistrato apriva la lunghissima
istruttoria. Era dattiloscritta, portava la data di due giorni prima ma si
riferiva a fatti risalenti all’epoca della morte della Montesi: la primavera
del ’53. In sostanza, Gianna la Rossa raccontava che “inorridita dalla
crudeltà” di Montagna e Piccioni, cercò di farli cadere in una trappola
mettendoli in contatto con trafficanti di droga della provincia di Parma e
denunciando la cosa alla questura; che la locale questura aveva insabbiato
tutto; che ad ogni buon conto, temendo di fare la fine di Wilma, ella aveva
depositato una lettera-testamento presso il parroco di un paesino del Parmense;
questi l’avrebbe consegnata dietro presentazione di uno speciale contrassegno,
il mezzo biglietto d’ingresso a un museo accluso alla lettera indirizzata a
Sepe: l’altra metà era nelle mani del parroco.
Rintracciato il sacerdote, don Tonino Onnis parroco di
Bannone di Traversetolo, esibito il mezzo biglietto, recuperata la
lettera-testamento, il particolare che fece ritenere a Sepe di avere in mano un
documento importante fu la data, non sospetta, del 16 maggio 1953: a
quell’epoca, come rilevò il magistrato nella sua sentenza, ancora nessuno aveva
associato il nome di Piccioni a quello di Montagna. La lettera-testamento
conteneva le medesime espressioni dell’altra, i medesimi timori di fare la
stessa fine della povera Wilma, le medesime indicazioni dei due eventuali
responsabili: Piero Piccioni e Ugo Montagna.
Evidentemente però, fino al 29
marzo del 1954, il temuto evento non si era verificato: il magistrato si
preoccupò di rintracciare Gianna la Rossa e di interrogarla. Ma non fu
possibile: le varie donne poste a confronto con don Onnis non furono da lui
riconosciute, compresa un’istriana dai capelli rossi il cui cognome, Giani,
aveva fatto sperare a Sepe di aver finalmente identificato la firmataria delle due
missive.
Anna Maria Caglio ha sempre affermato che, se fosse stata
scovata, Gianna la Rossa sarebbe diventata il personaggio principale del
processo. In ottobre Anna Maria ribadì la tesi dell’omicidio volontario: la
stessa espressa nel suo secondo libro, ancora inedito. Chi ha avuto occasione
di leggerne il manoscritto lo ha giudicato, quanto meno, romanzesco.
Anna Maria, fra l’altro, spiegava di aver offerto ai
carabinieri la possibilità di identificare in modo inconfutabile Gianna la
Rossa; toccò a lei, anzi, per puro caso, dare un nome alla misteriosa
firmataria delle due oscure lettere cadute nelle mani del presidente Sepe.
Fu
per mezzo di un comune amico che Anna Maria conobbe il giovane che la mise
sulla strada di Gianna la Rossa, una donna “strana”, che non diceva mai il suo
vero nome per intero, che cambiava ogni giorno indirizzo nella città italiana
in cui a quel tempo si trovava. Era già “trascorso un anno dal processo
Montesi”, il giovane non se ne era mai interessato e fu proprio per questo che la
donna “si fece coraggio” e gli raccontò la sua storia, con molte pause e
reticenze. Storia movimentatissima, in cui entravano, secondo il manoscritto,
pellicce, gioielli, “qualche viaggio” che fruttava alla donna fino a 800mila
lire alla volta; seguì poi una fuga a Roma, dove Gianna la Rossa non poteva più
fare ritorno altrimenti “Piccioni e Montagna l’avrebbero ammazzata”: finché una
notte, mentre viaggiava in macchina tra La Spezia e Parma, in compagnia
“dell’unico amico di cui si poteva ancora fidare”, la macchina si fermò a causa
di un guasto, i due cominciarono a litigare, la donna fuggì, fuggì, fermandosi
in un paese lì vicino: un paese che Anna Maria immaginò fosse quello dove
Gianna aveva depositavo la sua lettera-testamento.
Anna Maria, dopo molte insistenze, ottenne dall’amico
(sempre secondo il manoscritto del suo libro) il numero di telefono e il nome
di battesimo di quella donna: naturalmente ne mise al corrente i carabinieri i
quali trovarono nella casa intestataria del numero telefonico alcune fotografie
di una donna, nelle quali il parroco finalmente riconobbe colei che un mese dopo
la morte della Montesi gli aveva affidato il plico.
Il manoscritto poi comprende altri episodi assai
drammatici e movimentati, come quello che sarebbe occorso ad Anna Maria stessa
il giorno in cui, avendo portato un suo cane lupo di nome Nerone nel gabinetto
di un veterinario, credette di sorprendervi uno strano traffico a base di
pacchetti portati via di corsa da persone che la fissavano con “espressione di
paura e d’odio” e introdotti da altre, il cui semplice ingresso in presenza
della Caglio aveva “atterrito” il veterinario e i suoi aiutanti. Ma
nell’economia del libro apparivano come episodi di rincalzo rispetto a quello
di Gianna la Rossa, che trovò posto nell’istruttoria Sepe.
Saverio Polito dovrà difendersi, in particolare,
dall’accusa di aver avallato la tesi del “pediluvio” e l’alibi di Piccioni, e
di aver agito d’accordo con Montagna, i contatti col quale, secondo
l’istruttoria, erano molto frequenti ed amichevoli; di aver mantenuto le sue affermazioni
e ripetuto i suoi dinieghi nonostante le risultanze cui il magistrato era
pervenuto. Sicuramente Polito al processo ribadirà la propria posizione,
badando a comprovare con testimonianze la sua probità di funzionario e reagendo
contro episodi particolari, come quello della telefonata confidenziale a Ugo
Montagna che, intercettata durante l’istruttoria, servì a Sepe per documentare
l’intesa fra il questore di Roma e il mediatore d’immobili amico di Piccioni.
Tutti e quattro i diretti congiunti di Wilma Montesi, il
padre, la madre, la sorella, il fratello, sono stati citati come testimoni. Ma
essi non potranno seguire l’intero processo tutti insieme: dal giorno della
scomparsa di Wilma e delle prime campagne giornalistiche le condizioni
economiche dei Montesi cominciarono a diventare precarie; subirono un vero
crollo all’epoca della malattia del capofamiglia, che per molte settimane
rimase ricoverato in ospedale a causa di una pleurite prolungata dalle
quotidiane preoccupazioni morali e materiali. Con l’andar del tempo la malattia
di Rodolfo Montesi si è aggravata: i debiti contratti per la costruzione della
sua segheria non sono stati ancora pagati, gli introiti non sono sufficienti
neppure per affrontare le spese processuali che la parte civile ha a proprio carico
e quelle per i viaggi che i vari membri della famiglia dovrebbero fare a
Venezia settimanalmente.
In quanto a Wanda Montesi, la sorella maggiore di Wilma,
le cure per il suo primo bambino Marcello, avuto un anno e mezzo fa dal suo
matrimonio con il falegname Silvano Pucci, e una nuova incipiente maternità le
impediranno di affrontare come gli altri le fatiche e le emozioni del processo.
Sergio Montesi, il fratello minore, amareggiato per la pubblicità che è stata
fatta intorno al nome della sua famiglia, ha abbandonato all’inizio dell’anno
il suo Liceo a causa del disagio che provava fra i vecchi compagni e
professori. Decisa a difendere la memoria della figlia e a colpire i
responsabili della sua morte con tutti i mezzi della legge, Maria Petti Montesi,
la madre di Wilma, sarà il personaggio più battagliero della parte civile,
rappresentata dagli avvocati Cassinelli, Freda e Pasetto.
“Se è stato un Piccione, lo faremo arrosto”, ha detto
cupamente Rodolfo Montesi. “Ma tutti dovranno sapere, alla fine del processo,
chi era mia figlia: una ragazza onesta, senza segreti, senza peccati. Lo grideremo
in faccia a tutti, lo faremo ripetere a tutti coloro che lo hanno messo in
dubbio". Maria Petti ha avuto espressioni ancora più drammatiche: “Se in questo
momento sapessi chi è stato, non gli lascerei fare un passo per la strada”.
Con la citazione dei cinque periti, Ascarelli, Canuto,
Macaggi, Frache e Carrella, Cassinelli intende che si sia chiarito il
significato medico-legale della “ipoplasia” (cuore di piccole dimensioni)
riscontrata durante le perizie sulla salma della Montesi. L’ipoplasia può
condurre a collassi, in certe particolari circostanze anche alla morte: se ne
può dedurre che la Montesi poté cadere in stato d’incoscienza anche senza
l’azione degli stupefacenti, caratteristici di un mondo tenebroso che i
familiari hanno sempre escluso dalle abitudini e dalla vita semplice della
povera ragazza.
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