martedì 5 marzo 2019

IL CASO MONTESI XIII


L’ENIGMA DI GIANNA LA ROSSA 
AL CENTRO DEL PROCESSO MONTESI


Articolo di Arturo Lusini da “Oggi” n. 4 del 24 gennaio 1957


Dopo la tempesta mediatica del 1954/1955, conclusa con il rinvio a giudizio dei tre principali sospettati (Piccioni per l'omicidio, Polito e Montagna per favoreggiamento e depistaggio) la serie degli articoli sul misterioso caso riprende nel gennaio 1957 con l'apertura del processo di Venezia.  



Per quanti colpi di scena siano ancora possibili nella nuova fase della vicenda Montesi, pubblico ministero, giudici e avvocati non si distrarranno dal compito di dare con i mezzi classici del pubblico dibattito una risposta definitiva agli interrogativi fondamentali che consistono nell’accertare la responsabilità attribuita dalla sentenza istruttoria ai tre imputati “maggiori”: Piero Piccioni, di aver cagionato la morte di Wilma Montesi abbandonandone il corpo sul battente delle onde a Torvaianica; Saverio Polito ed Ugo Montagna di avere, d’accordo fra loro, aiutato Piccioni a eludere le investigazioni dell’autorità giudiziaria, indirizzando le indagini della polizia verso l’ipotesi di una disgrazia.



Dopo quasi quattro anni dalla morte della Montesi (il cui corpo, com’è noto, fu ritrovato sulla spiaggia di Torvaianica l’11 aprile 1953), dopo tre riprese di indagini da parte dell’autorità giudiziaria, seguite da due archiviazioni e da una richiesta d’istruzione formale, dopo un’istruttoria di quindici mesi durante i quali furono interrogate centinaia di persone, dopo una requisitoria di 200 pagine dattiloscritte e una sentenza di rinvio a giudizio motivata in 424 pagine dedotte dai 92 volumi di atti istruttori, sono rimasti impigliate nelle maglie della giustizia 13 persone: i tre imputati “maggiori”: i guardiani di Capocotta, Anastasio Lilli, Terzo Guerrini, Palmira Ottaviani, Venenzio Di Felice, imputati di aver affermato il falso e taciuto il vero circa il passaggio attraverso la tenuta di automobili a bordo di una delle quali, secondo l’assunto della sentenza di rinvio, doveva trovarsi Wilma in compagnia di Piccioni; Adriana Bisaccia, imputata di simulazione di reato; Francesco Tannoia, Mercedes Borgatti, Michele Simola, Pasquale Venuti, Maddalena Caramello, per aver deposto il falso; il quattordicesimo imputato, Pierino Pierotti, morì tempo addietro in un incidente automobilistico.

Piccioni, Montagna, Polito affrontano il processo con tranquillità; la loro preoccupazione, semmai, consiste nel desiderio molto vivo che tutto finisca presto, il più presto possibile, non solo per ragioni morali ma anche pratiche. 

Dopo la scarcerazione Piero Piccioni riprese a lavorare per il cinema, collaborando alla colonna sonora di Notre Dame de Paris, scrivendo quelle per Guendalina e per la riedizione del Monello di Chaplin; scrisse anche alcune composizioni e orchestrazioni per la formazione di Armando Trovaioli. Ma per la radio non ha lavorato più: le proposte di lavoro giuntegli dall’estero, soprattutto dagli Stati Uniti, hanno dovuto essere accantonate in attesa del giudizio. Nonostante le sue visite in qualche salotto romano, prontamente riprese dai fotografi, nonostante la cortesia formale di cui lo circondano amici e conoscenti, Piero Piccioni si sente un isolato: una volta conclusa la vicenda, trasferirsi negli Stati Uniti, almeno per qualche tempo, è ciò che egli desidera di più.

Montagna, colpito con un imponibile di 83 milioni dopo averne denunciati 7, segue con preoccupazione gli sviluppi del ricorso pendente presso gli organi fiscali. La clientela, allontanatasi dopo l’arresto, non lo chiama neppure più col titolo di marchese; Capocotta, dove si compiaceva d’invitare personaggi utili alla sua attività di mediatore, è stata restituita agli eredi Savoia. Polito, ammalato ed invecchiato, è stato assolto da certi addebiti mossigli su denuncia di Rachele Mussolini, ma non ha molte speranze di veder risolto il suo ricorso contro la revoca della pensione di guerra prima della sentenza del processo di Venezia.


I punti sui quali poggerà l’accusa contro Piero Piccioni sono una decina, secondo l’elenco che ne fece Sepe. Ma è presumibile che il collegio difensivo, composto dagli avvocati Carnelutti, Augenti, Delitala, De Luca, concentrerà l’azione difensiva su quelli relativi alla conoscenza tra Piccioni e la Montesi. Alla difesa di Piccioni importa dimostrare che il musicista non conobbe mai Wilma Montesi e, di conseguenza, non può essere ritenuto responsabile della sua morte: il resto, cioè come Wilma morì, e per colpa o per dolo di chi, sembra più compito dell’accusa pubblica e di quella privata.

Molta attenzione, perciò, potrà essere dedicata al teste Piccinini, il meccanico che credette di aver visto Wilma in compagnia di un giovane bruno in un’auto insabbiata presso il lido di Ostia, in piena notte, in data non sospetta, cioè un mese prima della scomparsa della povera ragazza. Come pure potranno essere oggetto di attenta analisi le deposizioni dei vari personaggi della zona di Torvaianica sulle cui parole la sezione istruttoria ritenne di fondare il proprio convincimento sull’identità del personaggio che sarebbe stato visto passeggiare tranquillamente, a fianco della Montesi, sulla spiaggia di Torvaianica la sera prima del rinvenimento.

In linea secondaria potrebbero assumere importanza gli altri punti, come quello relativo all’origine delle voci che indicarono in Piccioni il responsabile della morte di Wilma: su questo punto le indagini di Sepe non riuscirono, infatti, a superare un certo stadio; oppure, ancora, l’effettivo tenore e significato delle telefonate di Alida Valli, la quale, da Venezia dove si trovava per interpretare un film, secondo l’istruttoria si preoccupò di quanto era successo a Piero Piccioni.

Per altri aspetti della vicenda l’azione del collegio difensivo di Piccioni potrà coincidere con quella del collegio di Montagna, composto dagli avvocati Bellavista, Vassalli, Lupis; sarà, evidentemente, per le accuse mosse a più riprese da Anna Maria Moneta Caglio. La questione della data del colloquio di Piccioni e di Montagna col capo della polizia, Pavone, potrebbe essere ridiscussa a fondo, ma non disgiunta dalla soluzione del problema della presenza della Caglio e dell’effettivo tema del colloquio: più o meno vicino, secondo le diverse interpretazioni, a quello indicato dalla ragazza milanese. I confronti tra Caglio e Montagna saranno, senza dubbio, interessanti: rinnoveranno in pubblico gli scontri di cui i due personaggi furono protagonisti nell’ufficio di Sepe a palazzo di giustizia, a Roma; con la differenza che il fioretto con punta d’arresto degli scontri in istruttoria, sarà sostituito dalla spada degli scontri in pubblica udienza. 

Battaglia grossa, il cui centro potrebbe, però, spostarsi in corrispondenza dell’episodio di Gianna la Rossa, personaggio caro alla Caglio ed importante nell’istruttoria Sepe: vi appare, infatti, come l’anello di congiunzione tra Piccioni, Montagna e il mondo degli stupefacenti, necessario per spiegare lo stato d’incoscienza in cui Wilma si sarebbe trovata quando sopraggiunse l’azione delittuosa che ne provocò la morte per annegamento.

La lettera firmata Gianna la Rossa giunse a Sepe il 29 marzo 1954, il giorno stesso in cui il magistrato apriva la lunghissima istruttoria. Era dattiloscritta, portava la data di due giorni prima ma si riferiva a fatti risalenti all’epoca della morte della Montesi: la primavera del ’53. In sostanza, Gianna la Rossa raccontava che “inorridita dalla crudeltà” di Montagna e Piccioni, cercò di farli cadere in una trappola mettendoli in contatto con trafficanti di droga della provincia di Parma e denunciando la cosa alla questura; che la locale questura aveva insabbiato tutto; che ad ogni buon conto, temendo di fare la fine di Wilma, ella aveva depositato una lettera-testamento presso il parroco di un paesino del Parmense; questi l’avrebbe consegnata dietro presentazione di uno speciale contrassegno, il mezzo biglietto d’ingresso a un museo accluso alla lettera indirizzata a Sepe: l’altra metà era nelle mani del parroco.

Rintracciato il sacerdote, don Tonino Onnis parroco di Bannone di Traversetolo, esibito il mezzo biglietto, recuperata la lettera-testamento, il particolare che fece ritenere a Sepe di avere in mano un documento importante fu la data, non sospetta, del 16 maggio 1953: a quell’epoca, come rilevò il magistrato nella sua sentenza, ancora nessuno aveva associato il nome di Piccioni a quello di Montagna. La lettera-testamento conteneva le medesime espressioni dell’altra, i medesimi timori di fare la stessa fine della povera Wilma, le medesime indicazioni dei due eventuali responsabili: Piero Piccioni e Ugo Montagna. 

Evidentemente però, fino al 29 marzo del 1954, il temuto evento non si era verificato: il magistrato si preoccupò di rintracciare Gianna la Rossa e di interrogarla. Ma non fu possibile: le varie donne poste a confronto con don Onnis non furono da lui riconosciute, compresa un’istriana dai capelli rossi il cui cognome, Giani, aveva fatto sperare a Sepe di aver finalmente identificato la firmataria delle due missive.

Anna Maria Caglio ha sempre affermato che, se fosse stata scovata, Gianna la Rossa sarebbe diventata il personaggio principale del processo. In ottobre Anna Maria ribadì la tesi dell’omicidio volontario: la stessa espressa nel suo secondo libro, ancora inedito. Chi ha avuto occasione di leggerne il manoscritto lo ha giudicato, quanto meno, romanzesco.

Anna Maria, fra l’altro, spiegava di aver offerto ai carabinieri la possibilità di identificare in modo inconfutabile Gianna la Rossa; toccò a lei, anzi, per puro caso, dare un nome alla misteriosa firmataria delle due oscure lettere cadute nelle mani del presidente Sepe. 

Fu per mezzo di un comune amico che Anna Maria conobbe il giovane che la mise sulla strada di Gianna la Rossa, una donna “strana”, che non diceva mai il suo vero nome per intero, che cambiava ogni giorno indirizzo nella città italiana in cui a quel tempo si trovava. Era già “trascorso un anno dal processo Montesi”, il giovane non se ne era mai interessato e fu proprio per questo che la donna “si fece coraggio” e gli raccontò la sua storia, con molte pause e reticenze. Storia movimentatissima, in cui entravano, secondo il manoscritto, pellicce, gioielli, “qualche viaggio” che fruttava alla donna fino a 800mila lire alla volta; seguì poi una fuga a Roma, dove Gianna la Rossa non poteva più fare ritorno altrimenti “Piccioni e Montagna l’avrebbero ammazzata”: finché una notte, mentre viaggiava in macchina tra La Spezia e Parma, in compagnia “dell’unico amico di cui si poteva ancora fidare”, la macchina si fermò a causa di un guasto, i due cominciarono a litigare, la donna fuggì, fuggì, fermandosi in un paese lì vicino: un paese che Anna Maria immaginò fosse quello dove Gianna aveva depositavo la sua lettera-testamento.

Anna Maria, dopo molte insistenze, ottenne dall’amico (sempre secondo il manoscritto del suo libro) il numero di telefono e il nome di battesimo di quella donna: naturalmente ne mise al corrente i carabinieri i quali trovarono nella casa intestataria del numero telefonico alcune fotografie di una donna, nelle quali il parroco finalmente riconobbe colei che un mese dopo la morte della Montesi gli aveva affidato il plico.

Il manoscritto poi comprende altri episodi assai drammatici e movimentati, come quello che sarebbe occorso ad Anna Maria stessa il giorno in cui, avendo portato un suo cane lupo di nome Nerone nel gabinetto di un veterinario, credette di sorprendervi uno strano traffico a base di pacchetti portati via di corsa da persone che la fissavano con “espressione di paura e d’odio” e introdotti da altre, il cui semplice ingresso in presenza della Caglio aveva “atterrito” il veterinario e i suoi aiutanti. Ma nell’economia del libro apparivano come episodi di rincalzo rispetto a quello di Gianna la Rossa, che trovò posto nell’istruttoria Sepe.

Saverio Polito dovrà difendersi, in particolare, dall’accusa di aver avallato la tesi del “pediluvio” e l’alibi di Piccioni, e di aver agito d’accordo con Montagna, i contatti col quale, secondo l’istruttoria, erano molto frequenti ed amichevoli; di aver mantenuto le sue affermazioni e ripetuto i suoi dinieghi nonostante le risultanze cui il magistrato era pervenuto. Sicuramente Polito al processo ribadirà la propria posizione, badando a comprovare con testimonianze la sua probità di funzionario e reagendo contro episodi particolari, come quello della telefonata confidenziale a Ugo Montagna che, intercettata durante l’istruttoria, servì a Sepe per documentare l’intesa fra il questore di Roma e il mediatore d’immobili amico di Piccioni.

Tutti e quattro i diretti congiunti di Wilma Montesi, il padre, la madre, la sorella, il fratello, sono stati citati come testimoni. Ma essi non potranno seguire l’intero processo tutti insieme: dal giorno della scomparsa di Wilma e delle prime campagne giornalistiche le condizioni economiche dei Montesi cominciarono a diventare precarie; subirono un vero crollo all’epoca della malattia del capofamiglia, che per molte settimane rimase ricoverato in ospedale a causa di una pleurite prolungata dalle quotidiane preoccupazioni morali e materiali. Con l’andar del tempo la malattia di Rodolfo Montesi si è aggravata: i debiti contratti per la costruzione della sua segheria non sono stati ancora pagati, gli introiti non sono sufficienti neppure per affrontare le spese processuali che la parte civile ha a proprio carico e quelle per i viaggi che i vari membri della famiglia dovrebbero fare a Venezia settimanalmente.

In quanto a Wanda Montesi, la sorella maggiore di Wilma, le cure per il suo primo bambino Marcello, avuto un anno e mezzo fa dal suo matrimonio con il falegname Silvano Pucci, e una nuova incipiente maternità le impediranno di affrontare come gli altri le fatiche e le emozioni del processo. Sergio Montesi, il fratello minore, amareggiato per la pubblicità che è stata fatta intorno al nome della sua famiglia, ha abbandonato all’inizio dell’anno il suo Liceo a causa del disagio che provava fra i vecchi compagni e professori. Decisa a difendere la memoria della figlia e a colpire i responsabili della sua morte con tutti i mezzi della legge, Maria Petti Montesi, la madre di Wilma, sarà il personaggio più battagliero della parte civile, rappresentata dagli avvocati Cassinelli, Freda e Pasetto.

“Se è stato un Piccione, lo faremo arrosto”, ha detto cupamente Rodolfo Montesi. “Ma tutti dovranno sapere, alla fine del processo, chi era mia figlia: una ragazza onesta, senza segreti, senza peccati. Lo grideremo in faccia a tutti, lo faremo ripetere a tutti coloro che lo hanno messo in dubbio". Maria Petti ha avuto espressioni ancora più drammatiche: “Se in questo momento sapessi chi è stato, non gli lascerei fare un passo per la strada”.

Con la citazione dei cinque periti, Ascarelli, Canuto, Macaggi, Frache e Carrella, Cassinelli intende che si sia chiarito il significato medico-legale della “ipoplasia” (cuore di piccole dimensioni) riscontrata durante le perizie sulla salma della Montesi. L’ipoplasia può condurre a collassi, in certe particolari circostanze anche alla morte: se ne può dedurre che la Montesi poté cadere in stato d’incoscienza anche senza l’azione degli stupefacenti, caratteristici di un mondo tenebroso che i familiari hanno sempre escluso dalle abitudini e dalla vita semplice della povera ragazza.

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