giovedì 21 febbraio 2019

UN DELITTO QUASI PERFETTO

UN BIMBO HA SVELATO IL DELITTO DEL CIANURO

Articolo di Neera Ferreri da “Oggi” n. 7 del 18 febbraio 1960





"Berto, mio genero, se ne stava con le spalle contro il muro e gli occhi bassi. Non piangeva: sembrava indifferente. “Ma dimmi che morte ha fatto mia figlia. Parla”, gridavo io. Lui non rispondeva e non mi guardava. Allora sentii che l’aveva ammazzata lui. Il cuore, il collasso cardiaco come diceva il dottore, non c’entrava con la morte della mia Rita. Troppe cose mi avevano preoccupato negli ultimi tempi: corsi a raccontarla ai carabinieri e chiesi l’autopsia. Da principio nessuno voleva credermi. Nessuno…"


Il rapidissimo fiume di parole dialettali con cui Caterina Tesio ci aveva quasi aggredito, si interruppe di colpo. Il volto pallido e magro dell’anziana contadina che ha fatto scoprire un delitto perfetto accusando implacabile il genero Umberto Monge, sembrò scavarsi ancor più dalla pena. Per un lungo momento si udì soltanto il chiocciare delle galline che, fuori, sotto la pioggia sottile, razzolavano nel fango dell’aia. La luce grigia che filtrava dalle finestre sottolineava lo squallore della cucina dove la donna ci aveva ricevuto.


Fu Guglielmo Tesio, il marito di Caterina, a proseguire il racconto con voce sommessa: “Non ci credevano. Invece ha visto che morte ha fatto mia figlia?” chiese, e indicò con un cenno il titolo di un quotidiano spiegato sul tavolo: La confessione del giovane operaio che avvelenò la moglie col cianuro. “Mio genero doveva dirci che non era più contento di Rita”, soggiunse in tono accorato. “Avrei ripreso in casa mia figlia col bambino e la bambina che stava per nascere, senza discutere”. Il contadino scosse la testa e andò a sedersi da una parte, con le mani fra le ginocchia. Finché restammo nella casa non aprì più bocca, lasciando narrare alla moglie la loro tragedia.


“Mio genero”, riprese la donna con voce alta e aggressiva, “non ha neppure pensato a Sergio, suo figlio. Oggi il bambino ha quattro anni, ma presto si chiederà perché suo padre ha ucciso la mamma. La verità è che Berto credeva di non essere scoperto. Ci sarebbe forse riuscito senza un discorso del bambino che lo fece tradire. Fu la mattina del primo novembre, esattamente venti giorni prima che mia figlia morisse. Ero qui in cucina. Berto sedeva proprio dov’è ora mio marito. Sergio, che era in casa nostra da molti giorni, vide sul tavolo il mazzo di crisantemi che dovevo portare al cimitero e l’agguantò. Non mi piaceva vedergli in mano quei fiori da morto. Lo rimproverai: “Lasciali stare, dalli alla nonna”. “No, li voglio portare alla mamma al cimitero”, mi rispose il bambino. “Che dici? La mamma non è morta, è a Torino”, esclamai. Allora intervenne mio genero: “Non ti preoccupare”, disse rivolto al figlio, “quest’anno non abbiamo bisogno di portarli alla mamma. Al cimitero glieli porteremo un altro anno”. Rimasi turbata, ma pensai a uno scherzo macabro. Solo più tardi compresi il significato di quelle parole”.


L’episodio narrato da Caterina Tesio è determinante nella tragica vicenda che ha riempito di sbigottito stupore quanti conoscevano Umberto Monge per un ottimo lavoratore e per un buon padre di famiglia. Infatti è soprattutto quell’episodio che dette un certo indirizzo alle indagini. Il delitto era così ben architettato che solo dopo due mesi di ricerche svolte dal capitano Faccio (il Maigret di questa imbrogliata vicenda) e dal maresciallo Amelotti, si sono avute prove concrete.



Ormai le vere lacune riguardano la personalità dell’operaio, che pure non ha niente di inquietante. “Berto ha sempre avuto un carattere chiuso”, ci ha detto un fratello di Umberto Monge. “A noi non ha mai confidato niente sul suo matrimonio, né ci ha mai chiesto consiglio. Si volle sposare molto giovane e noi non volevamo: questo posso dire. Aveva appena ventun anni e Rita venti. Magari l’avessero chiamato militare per togliergli quell’idea dalla testa!”.


Le nozze si celebrarono il 14 febbraio 1952. Umberto Monge, che non aveva voluto coltivare la terra come i suoi familiari e faceva l’operaio a Saluzzo, andò ad abitare poco lontano dai suoceri. I primi anni, sembra, furono tranquilli: non aveva neppure preoccupazioni finanziarie fra il salario, l’eredità lasciatagli dal padre e la sua abitudine a spaccare il centesimo. Nell’aprile del 1953 Rita mise al mondo il primo bambino che morì, un anno dopo, di broncopolmonite.


Fu questo lutto, forse, l’origine della tragedia che si è scatenata tre mesi fa. Margherita Tesio, che già soffriva di ipertiroidismo e disfunzioni cardiache, fu colta da sindrome depressiva: non faceva che piangere e lamentarsi. L’operaio volle farla ricoverare in una clinica per malattie nervose. Ma i medici, dopo averla tenuta in osservazione alcuni giorni, la rimandarono a casa. Anzi, siccome Umberto Monge si rifiutava di portarla via, una suora della casa di cura si irritò: “Lei dovrebbe essere ricoverato, non sua moglie”, gli disse indignata. Questo non impedì a Margherita Tesio di tornare altre due volte in ospedale.


Intanto i due sposi erano andati ad abitare a Nichelino, una borgata presso Torino. Qui Umberto si era fatto costruire una casa per essere più vicino al nuovo posto di lavoro (era stato assunto come fuochista alla “Mirafiori”). A Nichelino i contrasti si accentuarono. “Berto tornava dalla fabbrica e c’era ancora da accendere il fuoco per la cena. Spesso doveva lavare, rigovernare, cucire”, ci ha raccontato una sorella dell’operaio. E una vicina ha affermato: “La signora Rita non aveva molta cura della sua persona: usciva di casa con vestaglie strappate e alzava le spalle se il marito le diceva di cambiarsi”. “È che non le dava i soldi né per far da mangiare né per comprarsi un vestito: è così avaro”, hanno obiettato i parenti della donna. Qual è la verità? Forse neppure in questo caso si può separare nettamente il torto dalla ragione. La donna si riscuoteva dalla sua apatia solo per correre a curare l’orto di qualche vicina o quando andava dai genitori dove nessuno lesinava un uovo, né la rimproverava vedendola in ciabatte.


Comunque, quella moglie sciatta, massaia poco abile, pesava al parsimonioso Umberto Monge. “Io con trecento lire al giorno campo”, diceva ai suoceri, “con Rita e il bambino me ne occorrono mille”. I soldi preferiva impiegarli in un altro modo: dopo l’assunzione alla Fiat si era comprato anche la 500, ed aveva altre ambizioni, avrebbe voluto, forse, dimenticare le sue origini contadine. Ma a ricordargliele c’era Margherita. Quali oscure inquietudini presero dunque a tormentarlo anche se in apparenza era rimasto l’uomo tranquillo che tutti conoscevano?


A trasformare la sua insofferenza in sordo rancore bastò la nuova maternità della moglie. Nel giugno 1959 accompagnò Rita da un’ostetrica di Nichelino, Francesca Salvai. Come spesso accade quando le visite sono superficiali, la levatrice fece una diagnosi inesatta e quella fu la miccia della tragedia. Ella disse che Margherita era al terzo mese di gravidanza: a quella inaspettata notizia Umberto Monge sobbalzò: “Ma allora il bambino non è mio. Tre mesi fa mia moglie era a Saluzzo dai genitori, e non abbiamo avuto rapporti”.


Cominciò da quel momento ad essere tormentato dall’idea di sbarazzarsi della moglie? È un fatto che i rapporti tra i due sposi divennero difficili. La donna tornò ancora dai genitori con Sergio: un po’ abitava a Saluzzo, un po’ a Casalgrasso dove i Tesio coltivano un altro podere. Tornò a Nichelino col figlio verso la metà di ottobre, ma pochi giorni dopo Umberto riportò il bambino a Casalgrasso. “È meglio che lo tenga tu ancora un po’ di tempo”, disse alla cognata Domenica, una ragazza di ventun anni che è la madrina di Sergio. “È un bambino vivace e Rita si stanca troppo con lui”. “Fui ben felice di accettare”, ci raccontò la stessa Domenica Tesio, mentre Sergio, con i dentini attaccati a un pezzo di pane, ascoltava attento i discorsi della zia. “Mia sorella avrebbe dovuto venire il giorno dei Santi”, continuò la ragazza, “per andare al cimitero dov’è sepolto il suo primo bambino. Invece arrivò mio cognato. Non l’ho portata per non farla strapazzare, mi disse. La presi per buona ma, nei giorni che seguirono, cominciai a preoccuparmi seriamente: Rita non era mai stata tanto tempo senza vedere Sergio”.


Guglielmo Tesio doveva recarsi a Torino per affari e si fermò a Nichelino. Era il 19 novembre. Suonò al cancello che, con una rete, separa la casa dalla strada; Rita uscì sulla terrazza. Piangeva. “Papà, non ti posso aprire”, disse. “Berto mi ha chiuso in casa e non ho le chiavi”. Guglielmo Tesio riuscì a entrare nel cortiletto con l’aiuto dell’inquilina dei Monge, e cercò perfino una scala a pioli per liberare la figlia. Fu tutto inutile. “Domani vieni a casa”, disse a Rita prima di andarsene, dopo un paio d’ore. “Non ho soldi”, rispose Rita. “Berto non me li dà, e poi ha chiuso anche il guardaroba perché non scappi”. L’uomo avvolse mille lire intorno a un sasso e lo gettò sulla terrazza. “Lascia perdere i vestiti”, disse. “Domani prendi la corriera e vieni a Saluzzo”.


Ma invece di Rita il venerdì arrivò Umberto. “Cosa vi ha raccontato mia moglie?” Che l’ho chiusa in casa? Le chiavi erano sul contatore del gas”. Ancora poco convinti, i Tesio gli dissero che, il giorno dopo, sarebbe andata Domenica a prendere la sorella; ma il sabato, alle nove del mattino, qualcuno arrivò ad avvertirli che “Rita era mancata”.


Cos’era successo? Ecco la testimonianza di Giorgio Cavigliasso, l’inquilino dei Monge.

“Alle cinque del mattino Umberto Monge suonò alla mia porta. Era completamente vestito. Mi disse che sua moglie stava male e mi pregò di chiamare il dottor Felice Vezzosi, medico condotto. Quando tornai seppi che la donna era già morta. Sul comodino era un bicchiere. Non vidi altro, perché mi allontanai”.


Vezzosi stese il certificato di morte dovuta a un disturbo cardiaco conseguente alla tachicardia parossistica di cui la donna soffriva. Arrivò una sorella di Monge e arrivarono due vicine; mettendo in ordine le donne sciacquarono il bicchiere posto sul comodino. Quando, chiamati da Caterina Tesio, giunsero i carabinieri, poterono sequestrare soltanto i lenzuoli del letto, due flaconi di medicinali e una bottiglia, già aperta, di Crema di Mandorla. Poi, l’autopsia. Il referto fu chiaro: Margherita Tesio era morta per aver ingerito un’enorme dose di cianuro.


Ma si trattava di suicidio o di omicidio?


Nel dubbio i carabinieri mantennero segreto il risultato dell’autopsia, iniziando una catena di delicate indagini. Al funerale Umberto Monge seguì il feretro, taciturno, con la fronte aggrottata come si conviene a un vedovo. Poi si trasferì al Lingotto in casa della sorella. Giorni dopo venne ricoverato in clinica per subire un delicato intervento chirurgico a un rene. Quando, dopo più di un mese, tornò a casa, lo raggiunse l’invito a presentarsi alla stazione dei carabinieri di Nichelino: andò subito. Indossava un cappotto grigio, un basco, ed aveva la striscia del lutto sul bavero. “Avete scoperto qualcosa con l’autopsia?” chiese con indifferenza. La risposta non sembrò turbarlo.


L’interrogatorio durò quindici ore: poco alla volta la verità venne a galla. Ecco i punti salienti dell’interrogatorio che possiamo ricostruire. 


“Volevo farla abortire: ero d’accordo con lei”. “E volevi farlo alle cinque del mattino?”

“Il bambino non era mio: non avevo avuto rapporti con mia moglie quando era rimasta incinta”. “Non hai pensato che l’ostetrica potesse sbagliare? Tua moglie avrebbe dato alla luce una femminuccia”.


A questo punto (e pare sia stato l’unico momento di debolezza) Umberto cominciò a piangere. Il crollo si avvicinava. “Dove hai preso il cianuro?” “Alla Fiat. Serve per la galvanoplastica. Volevo ammazzarmi. Ero stanco della vita che facevo. Per errore mia moglie ha bevuto il veleno”. “Allora perché hai comperato il liquore alla mandorla? Evidentemente sapevi che il cianuro, sciolto nell’acqua, lascia un acuto odore di mandorle amare”.


Erano le cinque del mattino del 5 febbraio quando Umberto Monge firmò la sua confessione. Il 16 novembre aveva preso alla “Mirafiori” una pasticca di cianuro di sodio. Il 17 mattina aveva acquistato il liquore, poi aveva atteso il momento favorevole. L’intervento dei suoceri aveva accelerato i tempi? Non è stato possibile saperlo. Un fatto è certo: la mattina del 21 novembre Margherita chiese un bicchier d’acqua, e bevve da un bicchiere nel quale il marito aveva sciolto l’intera pasticca di veleno. Nello stesso bicchiere, più tardi, Umberto Monge versò il liquore alla mandorla, per confondere l’odore.


Il suo delitto sarebbe stato perfetto se non si fosse tradito, pochi giorni prima. Forse è proprio per aver voluto ribattere al puerile discorso di suo figlio, che l’ombra dell’ergastolo grava oggi su Umberto Monge.


N.d.r.: Umberto Monge morì nel marzo dello stesso anno, a causa di una trombosi, poche ore dopo essere stato operato di ulcera allo stomaco.

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