L’acqua
scorre torbida e impetuosa: con un salto sparisce nel cunicolo che per duecentosettantatrè metri striscia sotto piazza Napoli. C’è il sole. Fra le
aiuole i ragazzi giocano: sulle panchine, avvolti in sciarpe e fazzoletti
scuri, i vecchi discorrono lentamente. “È bella questa piazza”, dice la
signorina, “sembra un giardino, non tanto grande ma pieno di verde, come è
difficile trovare a Milano. Quando l’ho attraversata nel tunnel sotterraneo
dell’Olona m’è sembrata però immensa: un viaggio interminabile, di ore, ed
erano solo minuti”. Si ferma. “È successo qui”, e indica un punto nel letto del
canale che dista pochi metri dall’occhio nero del cunicolo. “Non sono più
riuscita a controllare la mia millecento che con un balzo è schizzata
nell’acqua. Un gran tonfo, una gran paura. Poi l’auto si è messa a dondolare,
subito trascinata dalla corrente. Io stringevo disperatamente il volante e
premevo con tutte le forze il clacson”.
“Mi
vedranno, mi salveranno, pensavo. Quando ho abbassato il finestrino per gridare
mi trovavo già al buio, sotto la volta bassa e umida del tunnel, soffocata da
un puzzo che mi chiudeva la gola. Davanti a me, in fondo in fondo, c’era un
puntino chiaro: là il canale tornava all’aria aperta, dovevo arrivare
dall’altra parte se volevo restare viva. Ma dalle fessure delle portiere
entrava acqua, la sentivo gorgogliare, avevo le caviglie bagnate. Dio mio, cosa
faccio? mi sono chiesta con terrore”.
Elisabetta
Novi rievoca con calma la sua avventura. È viva per miracolo, lo sa, e da
questa rapida e inattesa vicinanza con la morte le è rimasto un ricordo lucido
e chiaro, ma le è restato anche un entusiasmo nuovo per la vita. “È come se una
molla addormentata da anni si sia di colpo liberata proiettandomi verso il
futuro”, confessa. “I giorni che sono venuti dopo quella tremenda esperienza
sono stati giorni di febbrile felicità. Ho scoperto, risvegliandomi da un lungo
torpore, che stare al mondo è bello, che la gente è buona, cordiale, simpatica
sotto la scorza dura e indifferente delle abitudini di ogni giorno”.
La
signorina Novi ha cinquantaquattro anni. È alta, bionda, truccata con garbo,
vestita con gusto: tre fili di perle attorno al collo. Lavora nella segreteria
del liceo scientifico “Vittorio Veneto”, vive sola in un appartamentino di tre
stanze al numero cinque di via Vespri Siciliani: un cucinino, la camera da
letto, un salotto. I libri che gremiscono il piccolo scaffale l’aiutano, con la
televisione, a sentirsi meno estranea al mondo nelle ore vuote della sera.
Prima del salto nell’Olona la vita della signorina Novi era fluita sui binari
un po’ monotoni di un tranquillo schema borghese.
Da
sempre, ogni mattino, sveglia alle sette e un quarto: alle otto e dieci la
signorina esce di casa, alle nove meno cinque è già seduta al suo tavolo di
lavoro. Pranza da sola, in fretta; cena da sola, ascoltando la radio o
guardando la televisione. Al giovedì pomeriggio vacanza, in luglio al mare,
alla domenica un salto a Monza dove abita un fratello sposato. Una fila
lunghissima di giorni uguali, un po’ malinconici, ai quali è abituata. Anche la
sua salute non ama le emozioni: soffre di un lieve disturbo cardiaco, è
tormentata dai reumatismi e dalla sinusite. “Erano vent’anni che non mi tuffavo
in acqua, non credevo proprio di sapere ancora nuotare”.
In
questa vita senza fremiti c’è una parentesi breve e terribile: diciotto minuti
che contano come diciotto anni. È successo il 29 novembre scorso quando la sua
auto (una 1100 verde oliva, comperata per sfuggire alla tirannia dei tram
superaffollati) scivolò nelle acque gelide del canale: un salto di tre metri e
poi un’agghiacciante avventura nel cunicolo buio che attraversa la piazza.
Elisabetta
Novi non sa spiegare dove ha trovato tanta forza e tanta freddezza. In un
momento si è scrollato di dosso ogni timore e per diciotto minuti si è battuta
disperatamente, con straordinaria lucidità, per sopravvivere: c’è riuscita. Ora
porta con sé il ricordo tremendo ed esaltante di un’avventura eccezionale,
della quale parla volentieri precisandone, secondo per secondo, le emozioni, le
speranze, le paure.
Ecco il suo racconto.
Ore
8.10. La signorina Novi sale sull’auto parcheggiata davanti a casa. Indossa un
cappotto verde, scarpe marrone, borsetta di coccodrillo. È una giornata grigia,
molto fredda. Una spruzzatina di neve vela l’asfalto.
Ore
8.20. C’è traffico, come ogni mattina del resto. Ma oggi è più lento, più
cauto: la paura di scivolare rallenta la fretta di ogni autista. La 1100 ha
lasciato via Vespri Siciliani, ha attraversato piazza Napoli e, superato
l’Olona, sta correndo in via Carlo Troya. Duecento metri in tutto, ma
Elisabetta Novi va molto adagio, è solo un anno che ha la patente e non si
sente ancora molto sciolta. Un colpo di clacson; guarda nello specchietto
retrovisivo: il muso di un camion s’allarga velocemente alle sue spalle. “Sta
slittando, mi viene addosso” pensa, e poi sente un colpo dietro e l’auto
schizza via. Le ruote superano il bordo di cemento alto pochi centimetri,
sfondano la fragile siepe di bosso e girano pazzamente nel vuoto. Sotto c’è
l’Olona. L’acqua corre sporca e gelata, deve essere profonda.
Ore
8.21. “Cosa mi succede? M’avranno visto? Speriamo che qualcuno mi aiuti. La
macchina galleggia, vediamo se riesco a saltar fuori. Non posso: le pareti del
canale sono ripide e troppo alte. Ma sto entrando nel cunicolo… galleggerà
l’auto sino a quando mi verranno a prendere? Già, ma come faranno a venirmi a
salvare qui sotto? Forse con una barca, i vigili del fuoco: una barca e delle
funi, ecco come fanno. Forse riesco a sbrigarmela da sola, basta che la
macchina non affondi prima di tornare all’aperto. Sì, ce la faccio da sola. Mi
pare di ricordare che dopo piazza Napoli le rive dell’Olona non sono così
ripide a soprattutto non sono di cemento. Il muretto è basso e poi c’è il
prato: mi tiro su e sono salva. Santo cielo che buio e che odore. Com’è bassa
la volta! Mi manca il respiro. Ma l’acqua entra, ho i piedi bagnati,
bisognerebbe tappare le fessure delle portiere. Com’è lontana l’uscita del
tunnel!”
Ore
8.24. “L’acqua cresce. Devo alzarmi in piedi altrimenti mi bagno. Tanto ormai
la macchina va a fondo, è inutile cercare di farla galleggiare stando chiusa
dentro. La portiera si aprirà? Si è aperta. Eccomi in piedi. Nella volta non
c’è un gancio, una scaletta con una botola. Sto affondando. Bisogna che mi
tolga il cappotto altrimenti non riesco a nuotare. Devo fare alla svelta”.
Ore
8.26. Elisabetta Novi, in piedi, protesa attraverso la portiera aperta, aggrappata
al bordo sottilissimo del tetto della 1100, sta tentando di sfilarsi il paltò.
Alle sue spalle sente un rumore. Si volta. Nel buio una lama di luce scende
dall’alto, poi una testa s’affaccia, due occhi scrutano il tunnel. “C’è, è
viva. La macchina sta galleggiando, però ancora per poco”, sente dire. Poi
l’uomo si rivolge a lei: “Le getto una corda”.
“E’
inutile. Non riuscirò mai ad arrampicarmi. Così vestita non passo nemmeno
attraverso la botola. Pensate qualcos’altro, ma fate alla svelta, per carità!”
Ore
8.27. Dei duecentosettantatrè metri del tunnel, la 1100 ne ha percorsi
centoventi. Ora affonda rapidamente. Mentre la signorina con la testa voltata
all’indietro sta guardando il soccorritore (“Meno male, mi hanno visto. Adesso
si organizzano e in qualche modo mi tirano fuori. Bisogna però studiare bene il
modo. Ma che stupida! Stanno costruendo delle case qui attorno, figuriamoci se
i muratori non sanno come fare…”) l’auto si rovescia proiettando la signorina
contro la parete. Elisabetta Novi ha ancora addosso il cappotto, infilata nel
braccio sinistro tiene la borsetta. Scompare sott’acqua. Ritorna a galla
tossendo, ha bevuto. Sparisce di nuovo.
Ore
8.28. “Devo nuotare, devo stare a galla. Che schifo quest’acqua! Meglio buttare
via la borsetta. Anche col paltò posso farcela, purché di sopra si muovano. Per
carità, la macchina mi viene addosso: se mi schiaccia contro la parete è
finita. Bisogna che la allontani con i piedi. Ho perso una scarpa. Pazienza.
Com’è liscia questa parete! Non c’è una crepa, un buco, un chiodo!
Ore
8.30 L’Olona fa un piccolo salto: c’è un gradino alto mezzo metro e la corrente
aumenta di velocità. La signorina Novi è strappata dalla parete e trascinata
nel mezzo del canale. Scompare sott’acqua, riaffiora agitando le braccia e con
grande fatica raggiunge l’argine destro. Graffia disperatamente il muro
viscido, sperando di trovare un appiglio. Niente, non c’è niente a cui si possa
aggrappare. Le mani le sanguinano, le gambe sono gelate. Si rimette a nuotare,
a cinquanta metri il lunotto chiaro dove il canale sbocca all’aperto le ridà
coraggio.
Ore
8.30. “Ormai ci sono. Ce l’ho fatta. Ci saranno venti metri, forse meno.
Certamente l’uomo che si è prima affacciato mi sta aspettando: ha avuto tutto
il tempo per organizzarsi, chiamare gente, cercare corde, scale, telefonare ai
pompieri. Mi gira la testa ma non devo svenire proprio adesso che sta per
finire. Ci saranno dieci metri”.
Ore
8.31. È tornata all’aria aperta. Ora non c’è più quel terribile odore che le
stringeva la gola, né il rumore assordante dell’acqua che urtava con violenza
la parete. Elisabetta Novi guarda in su: tre metri più in alto, al di sopra di
una parete liscia ed interminabile, s’affacciano decine di volti, occhi
impauriti, preoccupati: una donna si asciuga gli occhi. Non è vero che l’argine
dopo piazza Napoli si abbassi.
Ore
8.32. “È finita, è proprio finita, nessuno può aiutarmi. La parete è troppo
alta. Se qualcuno si tuffa fa la mia stessa morte. Ecco perché quella donna
piange: sa che sono perduta”.
Ore
8.33. “Come mai non li sento parlare? Eppure vedo le loro labbra muoversi:
forse gridano, forse mi suggeriscono qualcosa. Può darsi che si cominci a
morire così, impazzendo lentamente”.
Ore
8.34. Elisabetta Novi ha già percorso più di cento metri allo scoperto. Non
nuota più: scivola contro il muretto dell’argine seguita dall’alto da una folla
sempre più fitta che cammina con lei. Nessuno osa tuffarsi. Il rischio è troppo
grosso.
Ore
8.35. “Lo so perché non mi aiutano. Non hanno corde, non hanno trovato nulla.
Ma come hanno impiegato tutto questo tempo? Sarà mezz’ora che sono qui e in
mezz’ora non hanno saputo organizzarsi. Lo so perché non si buttano. Fra
trecento metri l’Olona si inabissa e sparisce: deve passare sotto il Naviglio
Grande di Ripa Ticinese e poi chissà quando riaffiora. È un salto tremendo: non
lotto più, basta. Non voglio nemmeno pensare di tornare di nuovo sottoterra.
Era destino che morissi così”.
Ore
8.36. Una corda sfiora le spalle di Elisabetta Novi. La donna alza un braccio
molto lentamente, tende le dita, tocca il cavo, non riesce ad afferrarlo:
lentamente si allontana passando sotto il ponte di via Savona. I suoi gesti
sono sempre più stanchi. Su in strada qualcuno grida: “Fate alla svelta, ormai
è allo stremo, non ne può più. Abbiamo qualche minuto di tempo”.
Ore
8.37. Al di là del ponte un’altra corda è caduta proprio davanti a Elisabetta.
Questa volta l’afferra. “Grazie, grazie. Non so cosa posso fare adesso, ma è
certo che non allenterò mai questa stretta. Morirò con la corda in mano, ma non
la mollo. Che sia tutto finito? Mi sembra un miracolo, eppure ho fiducia. Non
devo svenire, non devo sentire il freddo che mi ha paralizzato le gambe e le
braccia, non devo sentire il dolore delle mani piagate. Val la pena di soffrire
un altro po’”.
Ore
8.38. Elisabetta Novi ode una voce accanto a lei. “Coraggio. Sono legato, si
appoggi a me”. Si volta. Vede un viso sconosciuto e due occhi scuri. Lentamente
comincia a salire. Gli uomini dalla strada tirano la corda con cautela: hanno
paura che il cavo si spezzi. Finalmente Elisabetta Novi appoggia i piedi a
terra, non dice nulla: guarda i visi sorridenti dei suoi soccorritori e
s’affloscia svenuta.
Si
risvegliò sull’autolettiga che ululando attraversava la città per portarla
all’ospedale. Due giorni dopo alla porta della sua cameretta bussò qualcuno:
era un muratore, col vestito inzaccherato, le mani grosse. Elisabetta non
ricordava d’averlo mai visto, ma guardandolo negli occhi di colpo rammentò
quello sguardo: era l’uomo che si era calato nel canale e l’aveva salvata. Si
chiama Giovanni Bellusci, ha 36 anni e abita a Grisolia in provincia di
Cosenza.
“Sono
venuto a vedere come sta e a salutarla”, le disse. “Torno a casa. Ormai fa
freddo e di manovali qui a Milano non hanno più bisogno. In primavera, se
qualcuno mi troverà un posto, verrò di nuovo qui. Tanti auguri. Questi sono due
fiori. È stata molto coraggiosa, signorina”.
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