venerdì 15 febbraio 2019

HO NAVIGATO IN AUTO SOTTO LE STRADE DI MILANO






L’acqua scorre torbida e impetuosa: con un salto sparisce nel cunicolo che per duecentosettantatrè metri striscia sotto piazza Napoli. C’è il sole. Fra le aiuole i ragazzi giocano: sulle panchine, avvolti in sciarpe e fazzoletti scuri, i vecchi discorrono lentamente. È bella questa piazza”, dice la signorina, “sembra un giardino, non tanto grande ma pieno di verde, come è difficile trovare a Milano. Quando l’ho attraversata nel tunnel sotterraneo dell’Olona m’è sembrata però immensa: un viaggio interminabile, di ore, ed erano solo minuti”. Si ferma. È successo qui”, e indica un punto nel letto del canale che dista pochi metri dall’occhio nero del cunicolo. “Non sono più riuscita a controllare la mia millecento che con un balzo è schizzata nell’acqua. Un gran tonfo, una gran paura. Poi l’auto si è messa a dondolare, subito trascinata dalla corrente. Io stringevo disperatamente il volante e premevo con tutte le forze il clacson”.


“Mi vedranno, mi salveranno, pensavo. Quando ho abbassato il finestrino per gridare mi trovavo già al buio, sotto la volta bassa e umida del tunnel, soffocata da un puzzo che mi chiudeva la gola. Davanti a me, in fondo in fondo, c’era un puntino chiaro: là il canale tornava all’aria aperta, dovevo arrivare dall’altra parte se volevo restare viva. Ma dalle fessure delle portiere entrava acqua, la sentivo gorgogliare, avevo le caviglie bagnate. Dio mio, cosa faccio? mi sono chiesta con terrore”.


Elisabetta Novi rievoca con calma la sua avventura. È viva per miracolo, lo sa, e da questa rapida e inattesa vicinanza con la morte le è rimasto un ricordo lucido e chiaro, ma le è restato anche un entusiasmo nuovo per la vita. “È come se una molla addormentata da anni si sia di colpo liberata proiettandomi verso il futuro”, confessa. “I giorni che sono venuti dopo quella tremenda esperienza sono stati giorni di febbrile felicità. Ho scoperto, risvegliandomi da un lungo torpore, che stare al mondo è bello, che la gente è buona, cordiale, simpatica sotto la scorza dura e indifferente delle abitudini di ogni giorno”.


La signorina Novi ha cinquantaquattro anni. È alta, bionda, truccata con garbo, vestita con gusto: tre fili di perle attorno al collo. Lavora nella segreteria del liceo scientifico “Vittorio Veneto”, vive sola in un appartamentino di tre stanze al numero cinque di via Vespri Siciliani: un cucinino, la camera da letto, un salotto. I libri che gremiscono il piccolo scaffale l’aiutano, con la televisione, a sentirsi meno estranea al mondo nelle ore vuote della sera. 

Prima del salto nell’Olona la vita della signorina Novi era fluita sui binari un po’ monotoni di un tranquillo schema borghese.


Da sempre, ogni mattino, sveglia alle sette e un quarto: alle otto e dieci la signorina esce di casa, alle nove meno cinque è già seduta al suo tavolo di lavoro. Pranza da sola, in fretta; cena da sola, ascoltando la radio o guardando la televisione. Al giovedì pomeriggio vacanza, in luglio al mare, alla domenica un salto a Monza dove abita un fratello sposato. Una fila lunghissima di giorni uguali, un po’ malinconici, ai quali è abituata. Anche la sua salute non ama le emozioni: soffre di un lieve disturbo cardiaco, è tormentata dai reumatismi e dalla sinusite. “Erano vent’anni che non mi tuffavo in acqua, non credevo proprio di sapere ancora nuotare”.


In questa vita senza fremiti c’è una parentesi breve e terribile: diciotto minuti che contano come diciotto anni. È successo il 29 novembre scorso quando la sua auto (una 1100 verde oliva, comperata per sfuggire alla tirannia dei tram superaffollati) scivolò nelle acque gelide del canale: un salto di tre metri e poi un’agghiacciante avventura nel cunicolo buio che attraversa la piazza.


Elisabetta Novi non sa spiegare dove ha trovato tanta forza e tanta freddezza. In un momento si è scrollato di dosso ogni timore e per diciotto minuti si è battuta disperatamente, con straordinaria lucidità, per sopravvivere: c’è riuscita. Ora porta con sé il ricordo tremendo ed esaltante di un’avventura eccezionale, della quale parla volentieri precisandone, secondo per secondo, le emozioni, le speranze, le paure. 

Ecco il suo racconto.


Ore 8.10. La signorina Novi sale sull’auto parcheggiata davanti a casa. Indossa un cappotto verde, scarpe marrone, borsetta di coccodrillo. È una giornata grigia, molto fredda. Una spruzzatina di neve vela l’asfalto.


Ore 8.20. C’è traffico, come ogni mattina del resto. Ma oggi è più lento, più cauto: la paura di scivolare rallenta la fretta di ogni autista. La 1100 ha lasciato via Vespri Siciliani, ha attraversato piazza Napoli e, superato l’Olona, sta correndo in via Carlo Troya. Duecento metri in tutto, ma Elisabetta Novi va molto adagio, è solo un anno che ha la patente e non si sente ancora molto sciolta. Un colpo di clacson; guarda nello specchietto retrovisivo: il muso di un camion s’allarga velocemente alle sue spalle. “Sta slittando, mi viene addosso” pensa, e poi sente un colpo dietro e l’auto schizza via. Le ruote superano il bordo di cemento alto pochi centimetri, sfondano la fragile siepe di bosso e girano pazzamente nel vuoto. Sotto c’è l’Olona. L’acqua corre sporca e gelata, deve essere profonda.


Ore 8.21. “Cosa mi succede? M’avranno visto? Speriamo che qualcuno mi aiuti. La macchina galleggia, vediamo se riesco a saltar fuori. Non posso: le pareti del canale sono ripide e troppo alte. Ma sto entrando nel cunicolo… galleggerà l’auto sino a quando mi verranno a prendere? Già, ma come faranno a venirmi a salvare qui sotto? Forse con una barca, i vigili del fuoco: una barca e delle funi, ecco come fanno. Forse riesco a sbrigarmela da sola, basta che la macchina non affondi prima di tornare all’aperto. Sì, ce la faccio da sola. Mi pare di ricordare che dopo piazza Napoli le rive dell’Olona non sono così ripide a soprattutto non sono di cemento. Il muretto è basso e poi c’è il prato: mi tiro su e sono salva. Santo cielo che buio e che odore. Com’è bassa la volta! Mi manca il respiro. Ma l’acqua entra, ho i piedi bagnati, bisognerebbe tappare le fessure delle portiere. Com’è lontana l’uscita del tunnel!”


Ore 8.24. “L’acqua cresce. Devo alzarmi in piedi altrimenti mi bagno. Tanto ormai la macchina va a fondo, è inutile cercare di farla galleggiare stando chiusa dentro. La portiera si aprirà? Si è aperta. Eccomi in piedi. Nella volta non c’è un gancio, una scaletta con una botola. Sto affondando. Bisogna che mi tolga il cappotto altrimenti non riesco a nuotare. Devo fare alla svelta”.


Ore 8.26. Elisabetta Novi, in piedi, protesa attraverso la portiera aperta, aggrappata al bordo sottilissimo del tetto della 1100, sta tentando di sfilarsi il paltò. Alle sue spalle sente un rumore. Si volta. Nel buio una lama di luce scende dall’alto, poi una testa s’affaccia, due occhi scrutano il tunnel. “C’è, è viva. La macchina sta galleggiando, però ancora per poco”, sente dire. Poi l’uomo si rivolge a lei: “Le getto una corda”.

“E’ inutile. Non riuscirò mai ad arrampicarmi. Così vestita non passo nemmeno attraverso la botola. Pensate qualcos’altro, ma fate alla svelta, per carità!”


Ore 8.27. Dei duecentosettantatrè metri del tunnel, la 1100 ne ha percorsi centoventi. Ora affonda rapidamente. Mentre la signorina con la testa voltata all’indietro sta guardando il soccorritore (“Meno male, mi hanno visto. Adesso si organizzano e in qualche modo mi tirano fuori. Bisogna però studiare bene il modo. Ma che stupida! Stanno costruendo delle case qui attorno, figuriamoci se i muratori non sanno come fare…”) l’auto si rovescia proiettando la signorina contro la parete. Elisabetta Novi ha ancora addosso il cappotto, infilata nel braccio sinistro tiene la borsetta. Scompare sott’acqua. Ritorna a galla tossendo, ha bevuto. Sparisce di nuovo.


Ore 8.28. “Devo nuotare, devo stare a galla. Che schifo quest’acqua! Meglio buttare via la borsetta. Anche col paltò posso farcela, purché di sopra si muovano. Per carità, la macchina mi viene addosso: se mi schiaccia contro la parete è finita. Bisogna che la allontani con i piedi. Ho perso una scarpa. Pazienza. Com’è liscia questa parete! Non c’è una crepa, un buco, un chiodo!


Ore 8.30 L’Olona fa un piccolo salto: c’è un gradino alto mezzo metro e la corrente aumenta di velocità. La signorina Novi è strappata dalla parete e trascinata nel mezzo del canale. Scompare sott’acqua, riaffiora agitando le braccia e con grande fatica raggiunge l’argine destro. Graffia disperatamente il muro viscido, sperando di trovare un appiglio. Niente, non c’è niente a cui si possa aggrappare. Le mani le sanguinano, le gambe sono gelate. Si rimette a nuotare, a cinquanta metri il lunotto chiaro dove il canale sbocca all’aperto le ridà coraggio.


Ore 8.30. “Ormai ci sono. Ce l’ho fatta. Ci saranno venti metri, forse meno. Certamente l’uomo che si è prima affacciato mi sta aspettando: ha avuto tutto il tempo per organizzarsi, chiamare gente, cercare corde, scale, telefonare ai pompieri. Mi gira la testa ma non devo svenire proprio adesso che sta per finire. Ci saranno dieci metri”.


Ore 8.31. È tornata all’aria aperta. Ora non c’è più quel terribile odore che le stringeva la gola, né il rumore assordante dell’acqua che urtava con violenza la parete. Elisabetta Novi guarda in su: tre metri più in alto, al di sopra di una parete liscia ed interminabile, s’affacciano decine di volti, occhi impauriti, preoccupati: una donna si asciuga gli occhi. Non è vero che l’argine dopo piazza Napoli si abbassi.


Ore 8.32. “È finita, è proprio finita, nessuno può aiutarmi. La parete è troppo alta. Se qualcuno si tuffa fa la mia stessa morte. Ecco perché quella donna piange: sa che sono perduta”.


Ore 8.33. “Come mai non li sento parlare? Eppure vedo le loro labbra muoversi: forse gridano, forse mi suggeriscono qualcosa. Può darsi che si cominci a morire così, impazzendo lentamente”.


Ore 8.34. Elisabetta Novi ha già percorso più di cento metri allo scoperto. Non nuota più: scivola contro il muretto dell’argine seguita dall’alto da una folla sempre più fitta che cammina con lei. Nessuno osa tuffarsi. Il rischio è troppo grosso.


Ore 8.35. “Lo so perché non mi aiutano. Non hanno corde, non hanno trovato nulla. Ma come hanno impiegato tutto questo tempo? Sarà mezz’ora che sono qui e in mezz’ora non hanno saputo organizzarsi. Lo so perché non si buttano. Fra trecento metri l’Olona si inabissa e sparisce: deve passare sotto il Naviglio Grande di Ripa Ticinese e poi chissà quando riaffiora. È un salto tremendo: non lotto più, basta. Non voglio nemmeno pensare di tornare di nuovo sottoterra. Era destino che morissi così”.


Ore 8.36. Una corda sfiora le spalle di Elisabetta Novi. La donna alza un braccio molto lentamente, tende le dita, tocca il cavo, non riesce ad afferrarlo: lentamente si allontana passando sotto il ponte di via Savona. I suoi gesti sono sempre più stanchi. Su in strada qualcuno grida: “Fate alla svelta, ormai è allo stremo, non ne può più. Abbiamo qualche minuto di tempo”.


Ore 8.37. Al di là del ponte un’altra corda è caduta proprio davanti a Elisabetta. Questa volta l’afferra. “Grazie, grazie. Non so cosa posso fare adesso, ma è certo che non allenterò mai questa stretta. Morirò con la corda in mano, ma non la mollo. Che sia tutto finito? Mi sembra un miracolo, eppure ho fiducia. Non devo svenire, non devo sentire il freddo che mi ha paralizzato le gambe e le braccia, non devo sentire il dolore delle mani piagate. Val la pena di soffrire un altro po’”.


Ore 8.38. Elisabetta Novi ode una voce accanto a lei. “Coraggio. Sono legato, si appoggi a me”. Si volta. Vede un viso sconosciuto e due occhi scuri. Lentamente comincia a salire. Gli uomini dalla strada tirano la corda con cautela: hanno paura che il cavo si spezzi. Finalmente Elisabetta Novi appoggia i piedi a terra, non dice nulla: guarda i visi sorridenti dei suoi soccorritori e s’affloscia svenuta.


Si risvegliò sull’autolettiga che ululando attraversava la città per portarla all’ospedale. Due giorni dopo alla porta della sua cameretta bussò qualcuno: era un muratore, col vestito inzaccherato, le mani grosse. Elisabetta non ricordava d’averlo mai visto, ma guardandolo negli occhi di colpo rammentò quello sguardo: era l’uomo che si era calato nel canale e l’aveva salvata. Si chiama Giovanni Bellusci, ha 36 anni e abita a Grisolia in provincia di Cosenza.


“Sono venuto a vedere come sta e a salutarla”, le disse. “Torno a casa. Ormai fa freddo e di manovali qui a Milano non hanno più bisogno. In primavera, se qualcuno mi troverà un posto, verrò di nuovo qui. Tanti auguri. Questi sono due fiori. È stata molto coraggiosa, signorina”.

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