LA
DIFESA DI PICCIONI
Articolo
dell’avvocato Prof. Giacomo P. Augenti, difensore di Piero Piccioni
Un
mio giudizio sulla requisitoria? Non potrei scriverne alcuno, anche perché la
mia qualità di difensore potrebbe dar luogo a riserve. Le osservazioni che farò
saranno più che altro delle messe a punto perché non si creda a tante inesattezze
che, a proposito di questo documento, si son fatte. E poiché leggo delle
illazioni capaci di fuorviare l’opinione pubblica fondata su premesse che
appaiono derivate dalla requisitoria, ecco perché ho accolto l’invito.
Ritenere
la tesi del pediluvio “come una costruzione accolta dai congiunti della giovane
forse per timore che risultassero fatti che potessero lederne la memoria” mi
pare azzardato: a parte il contrasto con la stessa figura della Montesi così
come è fissata nella requisitoria, questo timore non potrebbe essere dato se
non dalla conoscenza di situazioni illecite delle quali i familiari dovevano
essere o partecipi o conniventi. Eppure è stata esclusa persino una eventuale
relazione peccaminosa della Wilma con persona del suo stesso gruppo familiare.
Quindi se nessun interesse è stato accertato, la morte accidentale come può
definirsi una ipotesi “comoda” alla famiglia?
Guai
se ci si dovesse fermare su questa tesi. Infinita potrebbe essere la gamma
degli interessi e i fatti lesivi dell’onore di Wilma non potrebbero mai
concernere Piero Piccioni. Avevano timore i familiari di una eventuale accusa
di istigazione al suicidio? Avevano timore che prendesse forma il sospetto
dello zio? Quindi un interesse ad “accogliere” la tesi del pediluvio è solo
presunto. La gente ride o sorride a proposito di questa tesi e la requisitoria
non l’accoglie pensando che alle 17.30 non poteva Wilma essere alla stazione, perché
una portiera ha fissato inappellabilmente l’ora di uscita a dopo le 17. E se si
fosse sbagliata? E se qualche parente, uscendo alle 16.30 dall’ufficio, l’avesse
accompagnata con la macchina alla stazione? I conti, allora, tornerebbero. (e perchè questo fantomatico parente non lo avrebbe detto? N.d.R.)
Del
resto la stampa, che è ampiamente citata nella requisitoria, ha una sua notizia
pregevole. Nel Giornale d’Italia del 17 aprile 1953 si accenna ad una “vicina
di casa”, ad “una signora che ha riferito come la Wilma le avesse confidato di
soffrire di un leggero eczema al piede destro, che le dava un fastidiosissimo
prurito. Orbene alla Wilma la signora aveva consigliato di fare dei bagni di
mare”.
Si
dice che il riconoscimento della Passarelli fu “erroneo o interessato”. E perché
non potrebbe essere erronea la indicazione dell’ora da parte della portiera?
Che
una semplice immersione poi dei soli piedi non costituisse motivo per cagionare
un malore mortale, eh no, questo veramente non si può dire. Su questo e su
altri punti – talvolta persino alla lettera – la requisitoria ha seguito la
perizia stragiudiziale Pellegrini. E sia, ma che un pediluvio al mare non possa
essere causa di morte non si può affermare con tanta sicurezza. Certo, non dico
che si dovesse tener conto di quanto aveva raccontato un pescatore, nelle prime
indagini, di un caso cioè che egli ricordava essere avvenuto nel 1929 simile a
quello della Montesi. Ma che nella letteratura medica non vi siano casi di
immersioni parziali degli arti, ai quali, in individui molto sensibili, segue
la morte, questo non si può dire. Sono malesseri in rapporto con uno choc
istaminico prodotto dall’acqua fredda (cfr. Radvan di Bucarest) e i cadaveri
presentano frequenti macchie scure sul viso. È un accidente grave, chiamato
idrocuzione per parallelismo con l’elettrocuzione. In un fascicolo de L’avenir
medical del 1953 sono citati casi impressionanti sotto questo aspetto.
E
lasciamo da parte tutto quello che si dice a proposito del reggicalze, che
tutti presumono portato dalla Wilma Montesi, mentre in certe particolari
condizioni neppur questo è sicuro. Quanto alle correnti ed ai periti che hanno
escluso una corrente da Ostia a Torvaianica in quei giorni, beati loro! Così
fosse! Magari le correnti fossero dei binari sicuri! Purtroppo non è così. Del
resto, non hanno detto i periti che le loro conclusioni si basano su un metodo
statistico per cui “di conseguenza è legittimo attendersi che si ottengano, in
un determinato istante, valori che si possono allontanare, anche notevolmente,
dai valori statistici medi”? Mi par che basti.
Le
correnti non chiedono permesso alla statistica. Del resto, nelle prime
indagini, tutti “una voce dicentes” ritennero che il corpo provenisse da Ostia.
I
giornali hanno messo in grande evidenza la testimonianza di certa signora Salvi
Anna la quale avrebbe visto una giovane bruna, riconosciuta poi per la Montesi,
ed avrebbe recentemente riconosciuto gli indumenti della Montesi. E sia. Ma –
leggo nella requisitoria – che “non aveva però osservato la presenza dell’uomo”.
Ed allora? Perché erroneo il riconoscimento della Passarelli e sicuro quello
della Salvi? E perché sicuro quello della Salvi che non ebbe nulla da dire,
salvo errore, al fidanzato della Wilma, Giuliani, che si recò a Torvaianica nei
giorni della fatale sciagura? La Salvi perciò, se non ha sbagliato, non ha
visto Piccioni!
E
poi è stata vista il 10 dalla Salvi: e come mai, in questo processo in cui non
vi è giorno in cui non vi sia un testimonio volontario, capace di scoprire la
verità, nondimeno dal 9 al 10 vi è un buio così fitto, così profondo? Nessuno è
venuto a dire di aver visto o di aver saputo dove abbia trascorso molte ore la
Montesi, mentre la famiglia la ricercava dappertutto, e la requisitoria
dichiara apertamente che ogni indagine non ha accertato fatto alcuno in ordine
a questo periodo. Neppure quando ha preso il gelato il 10 non l’ha vista
nessuno?
Quanto
alla gita “marzolina” della Montesi, della quale testimone sarebbe stato il
meccanico Piccinini, io mi chiedo come mai i familiari non si siano preoccupati
visto che tanto si allarmarono la sera del 9. Qui la requisitoria adotta come “tranquillante
giustificazione della denuncia il fatto delle eccezionali modalità con cui si
verificò l’allontanamento della Wilma senza motivo, senza monili, senza denaro”.
Il che vuol dire, se non sbaglio, che quando Wilma non tornava a casa la sera e
i familiari sapevano che aveva i monili e il denaro… il resto non importava!
Non credo che sia così, né credo che questa spiegazione sia aderente alla
serena e semplice figura della Wilma che nobilmente la requisitoria stessa
costruisce.
Ed
è strano che la requisitoria, mentre esclude che la Montesi avesse una doppia
vita, inserisca la lettera di Gianna la Rossa consegnata al parroco don
Tonino il 16 maggio 1953 (così egli dice) e della quale la sezione istruttoria
con altra, e non ultima anonima, ebbe notizia nell’aprile 1954. Secondo questa
ricostruzione – custodita gelosamente da questo pio sacerdote che, meno male,
aveva a sua disposizione a Bannone di Traversetolo una macchina da scrivere e
con la quale tanto importante documento fu redatto – Wilma Montesi sarebbe
stata soppressa per traffico di stupefacenti. Naturalmente anche lei ammoniva
che “al momento della lettura del suo scritto non sarebbe stata più in vita”.
Che dire? Una specie di testamento segreto al quale la requisitoria non deve
aver creduto, avendo già prima accertato che Wilma Montesi non aveva alcuna
relazione con questa particolare e illecita attività.
A
che cosa giovi dunque nel tessuto delle prove questo anonimo testamento segreto,
pubblicato come l’altro e a breve distanza da quello che apparve nel processo
Muto, non è dato capire. Certo, don Tonino non pensò mai di essere condotto in
una vicenda giudiziaria come non vi pensò nell’agosto o settembre 1953 quando
due individui di nazionalità francese lo pregarono invano di portare a Parma un
pacco di cui ignorava il contenuto. “Stupefacenti”, come gli fu rivelato quando
egli fu condotto in questura.
L’episodio
quindi di Gianna la Rossa a parte altre considerazioni è, quanto meno,
indifferente e lesivo della reputazione della povera Wilma. Quanto al carnet
della Versolatto (la suicida d’Alessandria nel cui taccuino fu trovato il
numero di telefono di Montagna e Piccioni) che i giornali hanno posto in grande
evidenza solo perché conteneva il numero telefonico del Piccioni e del
Montagna, non c’è da meravigliarsi: le donne che praticano l’amore cercano
questi indirizzi e qualcuno o qualcuna può averli forniti alla povera suicida,
ma non ne deduciamo di più. Vedremo poi in seguito quando questi numeri sono
stati scritti: sarà un’indagine interessante se avremo tempo.
Queste
sono le mie osservazioni. Solo non mi è riuscito comprendere – e la
requisitoria ho cercato di studiarla – perché ammessa l’ipotesi del delitto, da
questa consegua la certezza che sia stato Piccioni.
Io
sono fermo alla tesi della disgrazia: ma fatta l’ipotesi del delitto è
necessario che si sappia come questa si costruisce. Ed è necessario ancora
sapere come Piccioni avrebbe agito. Lo strano di questa requisitoria (sia detto
con molto rispetto e sia detto pubblicamente a quanti mi scrivono anonimamente)
è questo: Wilma Montesi è stata abbandonata a Torvaianica in prossimità del
mare svenuta per malore. Ma questo fatto non è provato. La storia del giorno 10
aprile 1953 finisce con la visione incancellabile della Salvi concernente la
sola Wilma. Eppoi? Eppoi cosa è successo?
Avranno
pur diritto Piccioni o Tizio o Caio di sapere quali sono le prove storiche o
critiche contro di loro!
Disgrazia
no, suicidio no, ma delitto. E come è avvenuto? Già l’esclusione del suicidio
in linea polemica lascia almeno perplessi, malgrado la larga utilizzazione
della parola e del pensiero di Rinaldo Pellegrini (il perito legale). E ancora,
se l’annegamento avvenne sulla battigia o poco lungi, dov’è la certezza che non
avvenne per un malore del quale poté essere aggredita la Montesi, “indipendentemente
dall’opera altrui”? Quel che inutilmente si cerca nella requisitoria è “il
fatto” del preteso abbandono della Montesi ad opera di Piccioni o d’altri in un’ora
imprecisata del 10 aprile.
La stessa
formula usata è significativa: “L’ipotesi delittuosa” si scrive sempre nel
documento Scardia: già. Ma con “l’ipotesi” non solo gli uomini non si
condannano, ma non si accusano nemmeno. Tutto il resto, tutta la zavorra delle
voci, tutto quanto si è detto sul colloquio del 29 aprile 1953 col capo della
polizia non merita considerazione.
Pavone
non è mai stato nemmeno imputato ed a lui discorsi di salvataggio o di
insabbiamento non ne furono fatti mai, come nulla egli fece. La data del 29
aprile, come già altra volta ho detto, era la sola che consentisse legare
questo colloquio alla pretesa testimonianza del Torresin che avrebbe, il
mattino di quel giorno, ascoltata la conversazione Piccioni-Valli e che risultò
falsa. Poi la data fu modificata, ma nel primo disegno questo era lo scopo.
Ed ora
attendiamo l’udienza, quella che dà l’unica garanzia dei nostri diritti e delle
nostre libertà.
Non
avranno ingresso le “voci” e i testimoni senza nome, vedremo in viso tutti, i
mistici e i virtuosi, gli accorti e i moderati, quelli che tutto ricordano e
quelli che hanno perso la memoria, quelli che tennero discorsi vili e quelli
che dissero mezze frasi, vedremo forse anche gli uomini di scienza e anche a
loro chiederemo quel che dovremo. La pena del giudizio che s’impone a un
imputato è la pena più crudele, specie poi se questo imputato è innocente. E
Gian Piero Piccioni è tale, malgrado le voci, gli anonimi, le insinuazioni e le
invidie da qualsiasi parte provengano. Bisogna aver pazienza. Del resto un
giudice di un tribunale rivoluzionario (Les dieux ont soif di Anatole France,
pag. 193) aveva ragione quando diceva che “l’errore e la svista sono compresi
nell’eccellenza della giustizia”. Occorre attendere, guai se non si avesse questa
fiducia. Tanto varrebbe allora la giustizia coi dadi.
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