mercoledì 30 gennaio 2019

IL CASO MONTESI - XI




LA DIFESA DI PICCIONI


Articolo dell’avvocato Prof. Giacomo P. Augenti, difensore di Piero Piccioni





Un mio giudizio sulla requisitoria? Non potrei scriverne alcuno, anche perché la mia qualità di difensore potrebbe dar luogo a riserve. Le osservazioni che farò saranno più che altro delle messe a punto perché non si creda a tante inesattezze che, a proposito di questo documento, si son fatte. E poiché leggo delle illazioni capaci di fuorviare l’opinione pubblica fondata su premesse che appaiono derivate dalla requisitoria, ecco perché ho accolto l’invito.



Ritenere la tesi del pediluvio “come una costruzione accolta dai congiunti della giovane forse per timore che risultassero fatti che potessero lederne la memoria” mi pare azzardato: a parte il contrasto con la stessa figura della Montesi così come è fissata nella requisitoria, questo timore non potrebbe essere dato se non dalla conoscenza di situazioni illecite delle quali i familiari dovevano essere o partecipi o conniventi. Eppure è stata esclusa persino una eventuale relazione peccaminosa della Wilma con persona del suo stesso gruppo familiare. Quindi se nessun interesse è stato accertato, la morte accidentale come può definirsi una ipotesi “comoda” alla famiglia?



Guai se ci si dovesse fermare su questa tesi. Infinita potrebbe essere la gamma degli interessi e i fatti lesivi dell’onore di Wilma non potrebbero mai concernere Piero Piccioni. Avevano timore i familiari di una eventuale accusa di istigazione al suicidio? Avevano timore che prendesse forma il sospetto dello zio? Quindi un interesse ad “accogliere” la tesi del pediluvio è solo presunto. La gente ride o sorride a proposito di questa tesi e la requisitoria non l’accoglie pensando che alle 17.30 non poteva Wilma essere alla stazione, perché una portiera ha fissato inappellabilmente l’ora di uscita a dopo le 17. E se si fosse sbagliata? E se qualche parente, uscendo alle 16.30 dall’ufficio, l’avesse accompagnata con la macchina alla stazione? I conti, allora, tornerebbero. (e perchè questo fantomatico parente non lo avrebbe detto? N.d.R.)



Del resto la stampa, che è ampiamente citata nella requisitoria, ha una sua notizia pregevole. Nel Giornale d’Italia del 17 aprile 1953 si accenna ad una “vicina di casa”, ad “una signora che ha riferito come la Wilma le avesse confidato di soffrire di un leggero eczema al piede destro, che le dava un fastidiosissimo prurito. Orbene alla Wilma la signora aveva consigliato di fare dei bagni di mare”.

Si dice che il riconoscimento della Passarelli fu “erroneo o interessato”. E perché non potrebbe essere erronea la indicazione dell’ora da parte della portiera?



Che una semplice immersione poi dei soli piedi non costituisse motivo per cagionare un malore mortale, eh no, questo veramente non si può dire. Su questo e su altri punti – talvolta persino alla lettera – la requisitoria ha seguito la perizia stragiudiziale Pellegrini. E sia, ma che un pediluvio al mare non possa essere causa di morte non si può affermare con tanta sicurezza. Certo, non dico che si dovesse tener conto di quanto aveva raccontato un pescatore, nelle prime indagini, di un caso cioè che egli ricordava essere avvenuto nel 1929 simile a quello della Montesi. Ma che nella letteratura medica non vi siano casi di immersioni parziali degli arti, ai quali, in individui molto sensibili, segue la morte, questo non si può dire. Sono malesseri in rapporto con uno choc istaminico prodotto dall’acqua fredda (cfr. Radvan di Bucarest) e i cadaveri presentano frequenti macchie scure sul viso. È un accidente grave, chiamato idrocuzione per parallelismo con l’elettrocuzione. In un fascicolo de L’avenir medical del 1953 sono citati casi impressionanti sotto questo aspetto.



E lasciamo da parte tutto quello che si dice a proposito del reggicalze, che tutti presumono portato dalla Wilma Montesi, mentre in certe particolari condizioni neppur questo è sicuro. Quanto alle correnti ed ai periti che hanno escluso una corrente da Ostia a Torvaianica in quei giorni, beati loro! Così fosse! Magari le correnti fossero dei binari sicuri! Purtroppo non è così. Del resto, non hanno detto i periti che le loro conclusioni si basano su un metodo statistico per cui “di conseguenza è legittimo attendersi che si ottengano, in un determinato istante, valori che si possono allontanare, anche notevolmente, dai valori statistici medi”? Mi par che basti.

Le correnti non chiedono permesso alla statistica. Del resto, nelle prime indagini, tutti “una voce dicentes” ritennero che il corpo provenisse da Ostia.



I giornali hanno messo in grande evidenza la testimonianza di certa signora Salvi Anna la quale avrebbe visto una giovane bruna, riconosciuta poi per la Montesi, ed avrebbe recentemente riconosciuto gli indumenti della Montesi. E sia. Ma – leggo nella requisitoria – che “non aveva però osservato la presenza dell’uomo”. Ed allora? Perché erroneo il riconoscimento della Passarelli e sicuro quello della Salvi? E perché sicuro quello della Salvi che non ebbe nulla da dire, salvo errore, al fidanzato della Wilma, Giuliani, che si recò a Torvaianica nei giorni della fatale sciagura? La Salvi perciò, se non ha sbagliato, non ha visto Piccioni!

E poi è stata vista il 10 dalla Salvi: e come mai, in questo processo in cui non vi è giorno in cui non vi sia un testimonio volontario, capace di scoprire la verità, nondimeno dal 9 al 10 vi è un buio così fitto, così profondo? Nessuno è venuto a dire di aver visto o di aver saputo dove abbia trascorso molte ore la Montesi, mentre la famiglia la ricercava dappertutto, e la requisitoria dichiara apertamente che ogni indagine non ha accertato fatto alcuno in ordine a questo periodo. Neppure quando ha preso il gelato il 10 non l’ha vista nessuno?



Quanto alla gita “marzolina” della Montesi, della quale testimone sarebbe stato il meccanico Piccinini, io mi chiedo come mai i familiari non si siano preoccupati visto che tanto si allarmarono la sera del 9. Qui la requisitoria adotta come “tranquillante giustificazione della denuncia il fatto delle eccezionali modalità con cui si verificò l’allontanamento della Wilma senza motivo, senza monili, senza denaro”. Il che vuol dire, se non sbaglio, che quando Wilma non tornava a casa la sera e i familiari sapevano che aveva i monili e il denaro… il resto non importava! Non credo che sia così, né credo che questa spiegazione sia aderente alla serena e semplice figura della Wilma che nobilmente la requisitoria stessa costruisce.

Ed è strano che la requisitoria, mentre esclude che la Montesi avesse una doppia vita, inserisca la lettera di Gianna la Rossa consegnata al parroco don Tonino il 16 maggio 1953 (così egli dice) e della quale la sezione istruttoria con altra, e non ultima anonima, ebbe notizia nell’aprile 1954. Secondo questa ricostruzione – custodita gelosamente da questo pio sacerdote che, meno male, aveva a sua disposizione a Bannone di Traversetolo una macchina da scrivere e con la quale tanto importante documento fu redatto – Wilma Montesi sarebbe stata soppressa per traffico di stupefacenti. Naturalmente anche lei ammoniva che “al momento della lettura del suo scritto non sarebbe stata più in vita”. Che dire? Una specie di testamento segreto al quale la requisitoria non deve aver creduto, avendo già prima accertato che Wilma Montesi non aveva alcuna relazione con questa particolare e illecita attività.



A che cosa giovi dunque nel tessuto delle prove questo anonimo testamento segreto, pubblicato come l’altro e a breve distanza da quello che apparve nel processo Muto, non è dato capire. Certo, don Tonino non pensò mai di essere condotto in una vicenda giudiziaria come non vi pensò nell’agosto o settembre 1953 quando due individui di nazionalità francese lo pregarono invano di portare a Parma un pacco di cui ignorava il contenuto. “Stupefacenti”, come gli fu rivelato quando egli fu condotto in questura.



L’episodio quindi di Gianna la Rossa a parte altre considerazioni è, quanto meno, indifferente e lesivo della reputazione della povera Wilma. Quanto al carnet della Versolatto (la suicida d’Alessandria nel cui taccuino fu trovato il numero di telefono di Montagna e Piccioni) che i giornali hanno posto in grande evidenza solo perché conteneva il numero telefonico del Piccioni e del Montagna, non c’è da meravigliarsi: le donne che praticano l’amore cercano questi indirizzi e qualcuno o qualcuna può averli forniti alla povera suicida, ma non ne deduciamo di più. Vedremo poi in seguito quando questi numeri sono stati scritti: sarà un’indagine interessante se avremo tempo.



Queste sono le mie osservazioni. Solo non mi è riuscito comprendere – e la requisitoria ho cercato di studiarla – perché ammessa l’ipotesi del delitto, da questa consegua la certezza che sia stato Piccioni.



Io sono fermo alla tesi della disgrazia: ma fatta l’ipotesi del delitto è necessario che si sappia come questa si costruisce. Ed è necessario ancora sapere come Piccioni avrebbe agito. Lo strano di questa requisitoria (sia detto con molto rispetto e sia detto pubblicamente a quanti mi scrivono anonimamente) è questo: Wilma Montesi è stata abbandonata a Torvaianica in prossimità del mare svenuta per malore. Ma questo fatto non è provato. La storia del giorno 10 aprile 1953 finisce con la visione incancellabile della Salvi concernente la sola Wilma. Eppoi? Eppoi cosa è successo?

Avranno pur diritto Piccioni o Tizio o Caio di sapere quali sono le prove storiche o critiche contro di loro!

Disgrazia no, suicidio no, ma delitto. E come è avvenuto? Già l’esclusione del suicidio in linea polemica lascia almeno perplessi, malgrado la larga utilizzazione della parola e del pensiero di Rinaldo Pellegrini (il perito legale). E ancora, se l’annegamento avvenne sulla battigia o poco lungi, dov’è la certezza che non avvenne per un malore del quale poté essere aggredita la Montesi, “indipendentemente dall’opera altrui”? Quel che inutilmente si cerca nella requisitoria è “il fatto” del preteso abbandono della Montesi ad opera di Piccioni o d’altri in un’ora imprecisata del 10 aprile.

La stessa formula usata è significativa: “L’ipotesi delittuosa” si scrive sempre nel documento Scardia: già. Ma con “l’ipotesi” non solo gli uomini non si condannano, ma non si accusano nemmeno. Tutto il resto, tutta la zavorra delle voci, tutto quanto si è detto sul colloquio del 29 aprile 1953 col capo della polizia non merita considerazione.



Pavone non è mai stato nemmeno imputato ed a lui discorsi di salvataggio o di insabbiamento non ne furono fatti mai, come nulla egli fece. La data del 29 aprile, come già altra volta ho detto, era la sola che consentisse legare questo colloquio alla pretesa testimonianza del Torresin che avrebbe, il mattino di quel giorno, ascoltata la conversazione Piccioni-Valli e che risultò falsa. Poi la data fu modificata, ma nel primo disegno questo era lo scopo.



Ed ora attendiamo l’udienza, quella che dà l’unica garanzia dei nostri diritti e delle nostre libertà.

Non avranno ingresso le “voci” e i testimoni senza nome, vedremo in viso tutti, i mistici e i virtuosi, gli accorti e i moderati, quelli che tutto ricordano e quelli che hanno perso la memoria, quelli che tennero discorsi vili e quelli che dissero mezze frasi, vedremo forse anche gli uomini di scienza e anche a loro chiederemo quel che dovremo. La pena del giudizio che s’impone a un imputato è la pena più crudele, specie poi se questo imputato è innocente. E Gian Piero Piccioni è tale, malgrado le voci, gli anonimi, le insinuazioni e le invidie da qualsiasi parte provengano. Bisogna aver pazienza. Del resto un giudice di un tribunale rivoluzionario (Les dieux ont soif di Anatole France, pag. 193) aveva ragione quando diceva che “l’errore e la svista sono compresi nell’eccellenza della giustizia”. Occorre attendere, guai se non si avesse questa fiducia. Tanto varrebbe allora la giustizia coi dadi.




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