giovedì 24 gennaio 2019

IL CASO MONTESI - VIII


SULLA FINE DI WILMA NON CUSTODISCO SEGRETI

Articolo di Wanda Montesi da “Oggi” n. 39 del 30 settembre 1954


Queste sono le dichiarazioni che, dopo prolungate insistenze, siamo riusciti a ottenere da Wanda Montesi, la sorella maggiore di Wilma. I vicini di casa chiamavano Wilma e Wanda “le sorelle siamesi” per la loro abitudine di apparire sempre in coppia. Le due sorelle dormivano nella medesima stanza ed avevano tra loro una grande confidenza.


Se dovessi giudicare dalle lettere anonime che ci vengono inviate, dalle telefonate minatorie che noi riceviamo, dovrei concludere che molti non riescono più a seguire le disgraziate vicende della mia famiglia con occhi sereni e con sentimenti umani. Con dolore, con meraviglia e con spavento ho visto crescere intorno a noi, mese per mese, il sospetto e la diffidenza. Ogni nostro silenzio, come ogni nostra parola, sono stati interpretati da molti come un indizio dei segreti che dopo un anno e mezzo di tormenti terremmo ancora celati nel seno della nostra famiglia. E di questi segreti, secondo alcuni, io sarei la principale depositaria.







































Mia sorella non c’è più, e nessuno, né i giudici, né gli avvocati, né i giornalisti, potrà restituircela. Ma io sento ora la necessità di contribuire a difendere il buon nome della mia famiglia dicendo, con grande fermezza, che nella nostra casa non esistono segreti. Io stessa non ho alcun segreto. Non custodisco alcun indizio sulla fine di Wilma che non abbia già espresso la giustizia. Poiché sono i giornali che formano l’opinione pubblica, quella opinione pubblica che ci costringe a vivere chiusi in casa, desidero ripetere con chiarezza ciò di cui sono a conoscenza.

Si dice che Wilma, il 9 aprile 1953, sia uscita di casa per recarsi a un appuntamento; altri aggiungono che ella aveva meditato di fuggire con un suo ipotetico compagno. Spiego perché non ho mai potuto credere a queste supposizioni. Sono sempre stata convinta che la meta di Wilma fu Ostia, e che vi si recò da sola. Ella aveva veramente l’intenzione di alleviare con l’acqua marina il fastidio che le procurava un calcagno irritato. A questo punto debbo dar rilievo a un particolare: anch’io fui e sono affetta dal medesimo disturbo. Sulle mie caviglie, più precisamente sul calcagno, si formavano e si formano durante l’inverno, dei geloni. Spesso, con l’addolcirsi della stagione, quei geloni si trasformano in un alone bruno punteggiato di rosso. Ad un certo punto della prima istruttoria un perito esaminò il mio disturbo, e lo trascrisse in un referto che si trova agli atti. Io credo si tratti di un difetto costituzionale, identico a quello di cui soffriva mia sorella.

Le scarpe nuove, acquistate una decina di giorni prima della sua scomparsa, resero fastidioso per mia sorella quell’inconveniente; per tentare di guarirlo dapprima Wilma cosparse il calcagno con tintura di jodio, ma ottenne un effetto peggiore, perché lo jodio aumentò l’irritazione. Di quella bruttura e di quel fastidio Wilma si lamentava; mio padre le suggerì allora di massaggiare la macchia di tintura con dell’alcool puro. Mia madre, per tranquillizzarla, aggiunse che con un po’ d’acqua marina tutto sarebbe passato. Era imminente la buona stazione, non sarebbe mancata l’occasione di fare tutti insieme una gita al mare, e quando fosse giunto il momento di togliersi le calze Wilma non sarebbe stata costretta a portarle ancora per nascondere il suo calcagno. Era questa, soprattutto, la preoccupazione di mia sorella.

Il lunedì di Pasqua è per i romani, per tradizione, la prima giornata di primavera dedicata alle gite; pensammo dunque di andare al mare ma poi vi rinunciammo, preoccupati di trovare il treno troppo affollato. Wilma condivise la nostra preoccupazione, venne volentieri al circo Togni, ma non abbandonò l’idea di andare a Ostia, infatti qualche giorno dopo, il giovedì 9 aprile verso mezzogiorno mi chiese di accompagnarla: non attribuii importanza al suo desiderio e dissi che non sarei andata: avremmo avuto qualche altra occasione, di lì a poco, di andare al mare. Wilma tacque e il discorso finì lì, mentre cominciava la nostra tragedia.

Quando proposi di andare al cinema lei rispose: “Non ci vengo. È un genere di film che non mi piace”. Verso le quattro e mezza, quando uscii con mia madre per andare al cinema, Wilma canticchiava ravviandosi i capelli. C’era la radio accesa; quella fu l’ultima immagine che ebbi di mia sorella.

Wilma, secondo la mia convinzione, non era diretta ad alcun appuntamento, né aveva alcuna intenzione di fuggire. Molte deduzioni affrettate furono tratte dal particolare della foto del fidanzato lasciata a casa. Nessuno, infatti, ci diede il tempo di spiegare che Wilma custodiva quella foto in un astuccio di pelle, una specie di borsellino, che non portava quasi mai con sé nella borsetta. Wilma, secondo la mia convinzione, lasciò tutti gli oggetti d’oro che di solito indossava, cioè il bracciale, gli orecchini e il collier, perché temeva di perderli o di deteriorarli. Mise invece nella borsetta un orologino da polso con l’allacciatura in metallo spezzata a metà. Lo tenevamo sopra la radio per seguire i programmi musicali di cui eravamo assidue, e ne notammo la scomparsa qualche giorno dopo il 9 aprile.

Wilma, dunque, lasciò a casa gli oggetti di valore ma prese l’orologino, evidentemente per regolarsi sull’ora del rientro. Sparì anche una coppia di chiavi della porta di casa, e più tardi mio padre cambiò il meccanismo della serratura per timore che quelle chiavi fossero state trovate da un malintenzionato; sparirono, infine, quattrocento o cinquecento lire dalle tasche della giacca di mio padre, e lui se ne accorse perché uscendo e non trovando in tasca quegli spiccioli fu costretto a cambiare mille lire in un bar di piazza Verbano.

Io sono convinta che Wilma adoperò quegli spiccioli per pagarsi il breve viaggio ad Ostia. Rosetta Passarelli non solo fornì una descrizione così precisa che ogni nostro dubbio sull’identità della ragazza scomparve, ma notò anche che Wilma era serena e sorridente. Conoscevo bene mia sorella ed interpreto quel suo gesto così. Ella era semplicemente soddisfatta di aver messo in atto il suo progetto. Infatti, Wilma, prima di allora non aveva compiuto nessun viaggio, sia pure breve, da sola. Vedo ciò che sarebbe stato se il destino non fosse stato crudele con lei: sarebbe tornata a casa, avrebbe mostrato trionfante il suo biglietto, per poter dire: “Sono stata a Ostia da sola”.

Mia sorella era una ragazza tranquilla e saggia, più tranquilla di me. Fra me e lei c’era un affetto profondo e una grande comunicativa. Tutto il nostro mondo era costituito dalla nostra famiglia, ciò che ne era fuori non destava il nostro interesse. Non aveva grandi ambizioni e per la strada era inavvicinabile. Se, passeggiando, qualcuno ci seguiva mormorando delle parole al nostro indirizzo, delle due era lei quella capace di rimbeccare l’importuno, togliendogli ogni coraggio.

Per quanto non fosse entusiasta di lui, Wilma si comportò verso Angelo Giuliani con grande affetto e con perfetta fedeltà. Giuliani non pronunciò mai la frase: “Se parlassi io chi sa che nomi salterebbero fuori”. Per lui, come per noi, quei nomi non esistevano. Molte, troppe volte sono sorte voci e si sono presentati testimoni che la pubblica opinione ha finito per ascoltare. Per esempio, la ragazza marchigiana di cui in questi giorni sono state riferite alcune affermazioni non fu la nostra cameriera. Noi non avevamo cameriere. Essa salì a casa nostro una decina di volte, un giorno sì e uno no, per una o due ore alla volta, per lavare panni pesanti oppure i piatti. Mia madre le pagava 130 lire per ogni ora di lavoro e badava che le sue prestazioni non subissero interruzioni. Quella ragazza non poté materialmente raccogliere telefonate ed udire, come dire, voci maschili che chiedevano di Wilma, perché l’uso del telefono non le competeva. Essa era un’estranea, e come tale non poté mai essere chiamata, da me o da mia sorella, ad allacciare un indumento come il bustino reggicalze.

Io sono tuttora convinta che mia sorella uscì per una gita innocente. Si pettinò, si vestì, uscì con aria allegra, salì su un autobus, inebriata dalla decisione presa di compiere un piccolo atto d’indipendenza. Non posso pensare senza raccapriccio al terribile momento in cui quel sorriso scomparve. Se fu qualcuno a smorzarlo, secondo la mia convinzione, dovette trattarsi di un pazzo o di un bruto, favorito da qualche inimmaginabile combinazione, verificatasi all’improvviso. Se qualcuno fu, la punizione, presto o tardi, lo raggiungerà.

Io non posso più udire la voce di Wilma, ma spero che ella raccolga la mia preghiera. E la mia preghiera è che sia fatta luce su questa tragedia che ha sconvolto la nostra esistenza.

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