venerdì 18 gennaio 2019

IL CASO MONTESI - VII




CONCLUSA CON DUE ARRESTI L’OFFENSIVA DI SEPE

Articolo di Luigi Cavicchioli da “Oggi” n. 39 del 30 settembre 1954




Il procuratore Sigurani, che aveva considerato il caso “tutt’altro che chiuso” archiviandolo però due volte, va in pensione nel 1954 e gli succede Raffaele Sepe, magistrato napoletano, soprannominato “Mastino” per la sua tenacia. Sepe riprende in mano la questione e dopo qualche tempo fa arrestare Piero Piccioni e Ugo Montagna. (N.d.R.)

Piero Piccioni e Ugo Montagna sono a Regina Coeli. Nei confronti dell’ex questore Polito è stato emesso un mandato di comparizione. La magistratura ancora una volta ha dimostrato di procedere, lenta ma implacabile, per la sua strada, senza lasciarsi influenzare da nessuno. Il caso Montesi, da questo momento, cessa di essere un “tenebroso affare di Stato” e si riduce alle sue vere proporzioni: un triste episodio di cronaca nera che la giustizia esaminerà alla luce del sole. L’opinione pubblica, che nella magistratura ha sempre avuto fede, non sarà delusa e ingannata.

Piero Piccioni, pur essendo figlio di una delle più alte personalità del partito di maggioranza, dovrà rendere conto delle sue azioni alla giustizia: potrà difendersi, potrà far sentire le sue ragioni, presentare il suo alibi, ma se risulterà colpevole verrà punito come un imputato qualsiasi.

La sera di lunedì 20 al dottor Sepe sono state rimesse le richieste della Procura generale. Giocoli e Scardia, dopo aver esaminato, lavorando sedici ore al giorno, le sedicimila pagine dell’inchiesta di Sepe, hanno raccolto le loro conclusioni in quaranta cartelle dattiloscritte. Si era parlato nei giorni scorsi di insanabili divergenze di opinioni fra la Procura generale e Sepe: si trattava, come i fatti hanno dimostrato, di voci assolutamente infondate. Infatti le richieste di Giocoli e Scardia si riassumono in questi due punti: svolgere alcune indagini su qualche episodio non del tutto chiaro: iniziare l’azione penale contro i presunti responsabili, con mandato di comparizione o mandato di cattura come Sepe riteneva più opportuno.

Sepe, dopo aver svolto le indagini richieste, dopo aver meditato per ventiquattro ore, ha preso le sue decisioni: ha firmato il mandato di cattura contro Piero Piccioni, accusato di omicidio colposo aggravato nei confronti di Wilma Montesi, reato che può essere punito con la reclusione da un minimo di un anno a un massimo di sette anni; ha firmato il mandato di cattura contro Ugo Montagna, accusato di favoreggiamento, reato che può essere punto con la reclusione da due a cinque anni: ha firmato nei confronti dell’ex questore Polito il seguente mandato: “Egli è citato a comparire alle ore 10 del 25 corrente innanzi al presidente Sepe per rispondere del reato di cui agli articoli 61 n. 9, 110, 378 del codice penale per avere l’11 aprile 1953 e successivamente, in concorso con Ugo Montagna e in relazione alla morte di Wilma Montesi, aiutato Giampiero Piccioni a eludere le investigazioni dell’autorità giudiziaria, indirizzando le indagini della polizia verso l’ipotesi di un fatto accidentale (disgrazia a seguito di un pediluvio) e commettendo il fatto con abuso di poteri e violazione dei doveri di questore di Roma”. Per questo reato all’ex questore Polito potrebbe essere inflitta una condanna da tre a sei anni di reclusione.

Sepe ha firmato i mandati martedì 21, nelle prime ore del pomeriggio. Le operazioni per l’arresto degli imputati sono state affidate a un funzionario della questura di Roma, il dottor Immé. Piero Piccioni aveva passato il pomeriggio a Roma, lavorando in collaborazione col fratello Leone alla compilazione del commento parlato su brani di musica jazz da incidere in dischi. Mancavano pochi minuti alle 19 quando i due fratelli si sono separati: Piero si è avviato verso l’abitazione della famiglia Piccioni in via Conciliazione, mente Leone si è trattenuto fuori per un impegno. In casa non c’era nessuno. L’on. Attilio, con la figlia Chiaretta, si trovava a Grottaferrata dove la famiglia si riuniva ogni sera quando i figli Piero, Leone e Donatella avevano terminato i loro impegni di lavoro.

Davanti alla porta di casa Piero Piccioni ha trovato due uomini che si sono presentati come commissari di polizia e lo hanno invitato a seguirli. “Dove e perché?” ha domandato lui. “Lei è in arresto: per favore, non faccia storie” hanno detto i due funzionari, al che l’imputato ha risposto: “Già, ho capito: andiamo pure” e li ha seguiti a bordo di un’automobile che si è diretta immediatamente a Regina Coeli. Qui il figlio dell’ex ministro è stato invitato a consegnare gli oggetti personali ed è stato introdotto nella cella a lui assegnata.

Poco dopo sono giunti a casa Leone e Donatella Piccioni: il portiere li ha informati che Piero era stato “portato via da due signori che avevano tutta l’aria di essere poliziotti”. Leone è andato a informarsi al commissariato e ha ottenuto conferma.

Si trattava ora di informare il padre. L’onorevole Attilio Piccioni è seriamente ammalato di cuore, e si temeva che la notizia potesse stroncarlo: né Leone né Donatella osavano dirgli la verità.

Solo diverse ore più tardi, dopo le 22, Attilio Piccioni ha saputo da un amico che Piero era stato arrestato; dapprima è diventato pallido e si è temuto che fosse sul punto di svenire, ma si è ripreso e ha detto: “Al punto in cui siamo, questa è forse la cosa migliore. Adesso almeno Piero potrà difendersi di fronte alla magistratura e di fronte all’opinione pubblica. Per quello che mi riguarda io sono più che mai certo della sua innocenza”.

Ugo Montagna, invece, anche in questa circostanza ha voluto rimanere fedele a sé stesso: ha mantenuto, fino all’ultimo, un atteggiamento spavaldo e sprezzante. Non ha voluto che lo arrestassero “come un criminale qualsiasi”: è andato di persona accompagnato dal suo stato maggiore di avvocati, come “un generale che si arrende dopo avere strenuamente combattuto”, a bussare addirittura al portone di Regina Coeli, chiedendo di essere incarcerato. Un giornale romano della sera ha commesso una gaffe ed è uscito in edizione straordinaria annunciando che Piero Piccioni e Ugo Montagna erano stati entrambi arrestati, quando solo il primo era già in prigione, mentre il secondo era ancora ricercato affannosamente dai funzionari della questura. Un commissario e alcuni agenti sono andati a cercarlo, verso le 19, al suo domicilio di Via Rabirio. Li ha ricevuti Goffredo Montagna, il quale ha loro comunicato: “Mio fratello non è in casa: a quest’ora non c’è mai”. “Lo aspetteremo”, ha detto il commissario. “Come volete: però vi avverto che Ugo di solito rientra molto tardi” ha detto Goffredo. “Non fa nulla, abbiamo tempo”, ha risposto il commissario.

Ugo Montagna ha passato alcune ore del pomeriggio in compagnia di una sua conoscente; poco prima delle ore 20 è stato visto in un bar del Corso, tranquillo e allegro, era ancora all’oscuro di tutto. Indossava un elegantissimo abito di lana blu, con cravatta chiara: ha preso un aperitivo. Poi, a bordo della sua nuova automobile, ha fatto un salto in via Veneto. È entrato da Doney’s, ha salutato alcuni amici, ha bevuto un altro aperitivo, è andato incontro a una signora sua conoscente, si è inchinato per baciarle la mano. Proprio in quell’istante è passato davanti al Doney’s uno strillone che, sventolando un giornale, gridava: “Piero Piccioni e Ugo Montagna arrestati e portati a Regina Coeli”. Il “marchese” è rimasto un istante perplesso, ma non ha perduto il sangue freddo. Sorridendo, ha detto alla signora: “Mi scusi” ed è uscito in fretta dal caffè. Si è recato dai suoi avvocati a chiedere consiglio, e alla fine ha deciso di arrendersi; prima però ha trovato modo di cambiarsi l’abito, indossando un completo chiaro molto leggero; con una valigia piena di biancheria di ricambio si è recato in automobile al carcere, accompagnato dai suoi avvocati Lia, Lupis e Vassallo. Ha suonato il campanello: alla guardia venuta ad aprire ha mostrato l’edizione straordinaria del giornale della sera e ha detto: “Sono Ugo Montagna. Stando a quanto è scritto qui dovrei trovarmi già rinchiuso a Regina Coeli: eccomi, desidero essere in regola”. Il sottufficiale di servizio però non lo voleva accogliere: “Io non ho ordini in merito e non posso prenderla in forza”, gli ha detto. Forse sarebbe nato un battibecco se non fosse giunto un funzionario di polizia che ha notificato il mandato di cattura al sottufficiale.

Così anche il marchese Montagna è entrato in cella dopo avere consegnato a una guardia la cinghia dei calzoni, i lacci delle scarpe e la cravatta.

All’ex questore Polito il mandato di comparizione è stato consegnato alle 21.30. Egli è rimasto impassibile, ne ha preso visione e quindi ha detto all’ufficiale giudiziario che glielo aveva consegnato: “Va bene, lei può andare”, lo ha detto freddamente, come se congedasse un subalterno. Non ha voluto fare dichiarazioni. Ha detto: “Tutte le volte che ho aperto bocca i giornalisti hanno travisato le mie parole: ora basta, per favore”.

È impressione generale che il principe d’Assia, venuto clamorosamente alla ribalta nei giorni scorsi, sia ormai definitivamente uscito dal caso Montesi. Egli è rimasto vittima di strane e ancora non ben chiarite circostanze, comunque sia lui che i suoi legali hanno appreso le ultime drammatiche notizie con la massima indifferenza. L’avvocato D’Amelio ci ha dichiarato: “Il principe Maurizio D’Assia non ha mai avuto realmente il ruolo di protagonista in questa oscura e triste vicenda: tutt’al più egli è stato uno spettatore marginale e, per la verità, piuttosto annoiato”. Tuttavia nessuna spiegazione è stata ancora fornita al principe circa il ritiro del passaporto, né da parte della magistratura né da parte della polizia. Maurizio d’Assia vorrebbe rientrare in Germania alla fine del mese, per i suoi studi: spera che nel frattempo il passaporto gli sia riconsegnato, ma non farà nulla per sollecitare il provvedimento.

Per ora il principe e i suoi legali resteranno “tranquillamente a guardare” in attesa che la magistratura svolga fino in fondo il suo compito, poi inizieranno una azione legale per ottenere luce completa sulle ragioni che hanno provocato un provvedimento tanto drastico e clamoroso come il ritiro del passaporto. A questo proposito l’avvocato del Savoia (Maurizio d’Assia era il figlio della defunta principessa Mafalda di Savoia, N.d.R.) ci ha dichiarato che “verranno esaminate le possibilità di procedere eventualmente anche nei riguardi di chi, stando a ciò che finora hanno rivelato solo i giornali, avrebbe indicato il principe al magistrato con scopi evidentemente poco chiari e non certo diretti a far luce sulla vicenda”.

Abbiamo interrogato Silvano Muto, il giornalista che per primo, con un suo famoso articolo, sollevò lo scandalo Montesi. Egli ci ha testualmente dichiarato: “Non ho provato gioia per l’arresto di Piccioni e di Montagna come individui, che del resto non conosco personalmente, ma sono stato soddisfatto per aver visto finalmente trionfare la giustizia e perché l’azione della giustizia stessa ha collimato con quelle che erano le mie radicate convinzioni che io, attraverso difficoltà, intimidazioni e tentativi di ricatto, sono andato affermando per più di un anno”. Egli ha poi proseguito: “Ho passato delle ore non liete, assillato dallo stillicidio delle telefonate di colleghi che mi chiedevano se ancora ero a piede libero. Ma sono stato sempre tranquillo, sicuro di quanto avevo scritto. Sono stato trascinato sul banco degli accusati mentre ero certo di essere dalla parte della ragione. Nell’udienza del 28 gennaio 1954, quando ancora tutto era in sordina, io per primo, e ne rivendico la priorità, feci al presidente i nomi di Piccioni e di Montagna consegnandogli quattro fotografie degli attuali imputati. In generale si crede che i nomi di Piccioni e di Montagna siano stati fatti da Anna Maria Caglio, ma la “ragazza del secolo” non li nominò che in un secondo tempo”.

Alla nostra richiesta delle ragioni che l’avevano spinto a sospendere le pubblicazioni di Attualità, Muto ha risposto: “Sono stato accusato di aver voluto commercializzare un fatto doloroso; per questo, onde evitare ogni dubbio al riguardo, con mio grande dispiacere sono stato costretto a far cessare le pubblicazioni della mia rivista. Non mi hanno spinto né questioni politiche né d’altra natura e tanto meno ho mai conosciuto, come si è voluto dire, gli attuali imputati. Né tanto meno li conobbero i miei familiari. Quando ho avuto la certezza che la Montesi non era morta per disgrazia ho sentito il dovere di smascherare quelli che, secondo le mie indagini, erano i colpevoli: dovevano pagare, non ammettendo la mia coscienza che un cittadino, a qualunque condizione o casta esso appartenga, possa sfuggire alla giustizia. Sono convinto che l’arresto avvenuto ieri sera non è che l’inizio di una azione più vasta. Molti hanno detto che ho guadagnato milioni: in verità, a tutt’oggi non ho avuto che ingenti spese”.

La famiglia Montesi non ha rivelato eccessivo interesse per i clamorosi provvedimenti. La madre di Wilma ci ha detto piangendo: “In ogni caso nessuno potrà restituirci la nostra bambina”. I Montesi restano ancora disperatamente aggrappati alla loro convinzione e sono decisi a lottare strenuamente per difendere la memoria di Wilma che, sostengono, “era pura, ingenua, modesta, senza ambizioni folli, senza segreti”. Del resto la lettera che Wilma scrisse al fratello del fidanzato pochi giorni prima di morire (e che noi pubblichiamo in questo numero) è un documento di estremo interesse e confermerebbe che Wilma non aveva una doppia vita, che non voleva rompere il fidanzamento, non meditava di fuggire di casa: se si recò realmente al tragico appuntamento con Piero Piccioni (o con chiunque altro) forse fu quella la sua prima scappatella e la pagò con la vita.

Comunque una cosa è certa: nessuno potrà più sbarrare il passo alla giustizia e l’opinione pubblica sarà informata di tutti i retroscena del caso Montesi. La motivazione per l’arresto di Piccioni dice che sussistono “dati sufficienti per ritenere che in data 10 aprile 1953 in territorio di Torvaianica abbia causato la morte per annegamento di Wilma Montesi, la quale abbandonò poi sulla riva credendola cadavere, e che il mare portò via”. L’opinione pubblica potrà conoscere questi indizi nel corso di un pubblico processo. Se tali indizi saranno schiaccianti e tali da travolgere il massiccio alibi di Piero Piccioni, l’imputato verrà condannato come merita; se invece la sua colpevolezza non verrà dimostrata egli sarà assolto: amara prospettiva, ma prima di lui molti cittadini hanno subito l’onta di un processo al termine del quale sono stati assolti magari con formula piena. Non c’era nessuna ragione per usare un trattamento di favore a Piero Piccioni, solo perché è figlio di un ex ministro democratico cristiano.






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