martedì 9 ottobre 2018

L'ODISSEA DI ANNA MARIA



Anna Maria Raso è stanca. Ora che, dopo nove lunghi anni, è riuscita a ricongiungersi con la sua famiglia, ora che è tornata nella sua bella casa che guarda il mare di Napoli su dal parco Grifeo, ora che potrebbe, finalmente, concedersi un po’ di pace dopo tante vicissitudini, non riesce a vivere qualche ora tranquilla. In casa è un pellegrinaggio continuo di gente che viene a trovarla, che viene a vederla. Sono parenti vicini e lontani, amici, conoscenti, e giornalisti, giornalisti, giornalisti. Il campanello della porta e quello del telefono squillano in continuazione. Soltanto a tarda sera riesce a essere sola con i suoi, e vanno a letto a ore impossibili. Si tratta di colmare un vuoto di nove anni, e ci vuole del tempo per farlo.

La prima notte non chiusero proprio occhio. Anna Maria arrivò alla stazione di Napoli alle tre e cinque di notte, mercoledì 8 ottobre, in compagnia dei genitori che erano andati a prelevarla a Colonia. Nella stazione la attendevano i suoi tre fratelli. Abbracci, baci, lacrime, e poi in cammino verso casa. Arrivarono a destinazione senza accorgersene, e nessuno, di tutta la famiglia, pensò al sonno: il mattino li trovò tutti riuniti che parlavano, domandavano, raccontavano.

Anna Maria desidera la pace ma dovrà ancora attendere qualche giorno per riaverla. Poi le cose, finalmente, procederanno sulla strada della normalità. Prova difficoltà a parlare in italiano, dopo anni di permanenza in Germania, e la narrazione che ci fa delle sue avventure è infiorata di parole tedesche.

Anna Maria scomparve misteriosamente il 22 ottobre 1943. La famiglia Raso risiedeva a Sora, in provincia di Frosinone, ma non era completa: mancava il padre, l’ingegner Francesco Raso, capitano di artiglieria a Palermo, di cui non si erano avute più notizie dopo lo sbarco degli alleati in Sicilia. E per questo la signora Consiglia e la figlia si erano recate a Roma, per cercare di sapere qualcosa presso il ministero della guerra sulla sua sorte. Il funzionario del ministero al quale si rivolsero chiese che gli fosse esibito un documento riguardante lo stato di servizio del capitano; a ritirarlo presso un comando militare sito in piazza del Viminale fu mandata Anna Maria, che nonostante i suoi quattordici anni aveva già dimostrato di poter validamente aiutare la madre a sbrigare le pratiche più complesse.

La ragazzina si diresse verso piazza del Viminale. Il traffico degli automezzi e delle pattuglie tedesche era molto intenso, e in ogni strada erano stati creati dei posti di blocco. La ragazza si vide smarrita, ebbe paura e perdette la strada. Rinunziò a recarsi al comando militare, ma, quando tentò di tornare indietro in via XX Settembre, da dove era partita, si accorse di avere completamente perduto l’orientamento. Non conosceva il nome dell’ufficio nel quale si era recata con la madre, né quello della strada in cui esso si trovava. Tentò di chiedere informazioni ai passanti, ma le sue domande erano troppo vaghe e imprecise perché potesse sperare in una risposta. Lo sconforto, la disperazione l’avevano vinta quando il caso mise sulla sua strada i coniugi Egon e Maria Schubert, una coppia tedesca che ella e i suoi avevano conosciuta a Palermo durante la permanenza della famiglia Raso in Sicilia. Erano profughi dalla Tunisia, dove erano stati costretti ad abbandonare una loro proprietà, e stavano compiendo il viaggio di ritorno verso la natia Germania a tappe forzate, servendosi di mezzi di fortuna.

Gli Schubert le offrirono ospitalità e protezione, ma non poterono aiutarla nella ricerca della madre, perché stavano per partire verso il nord, e non potevano rinunziare all’occasione che si era presentata in un periodo in cui i trasporti erano così difficili e aleatori. Si rifiutarono di lasciarla sola a Roma, e la portarono con loro assieme ai loro quattro figli, fino ad Adria, da dove speravano di potersi mettere in contatto con la famiglia di lei. Ma la cosa, date le difficoltà del momento, non fu possibile.

Anna Maria si trattenne con i suoi amici tedeschi ad Adria per alcune settimane, durante le quali lavorò anche, come interprete, presso un ufficio germanico. Poi il viaggio fu ripreso verso la Germania, e si concluse a Magdeburgo, dove gli Schubert riuscirono a trovare una casa e ospitarono la ragazza, che da quel momento considerarono come un’altra figlia.

Dal canto suo la madre, dopo aver aspettato invano Anna Maria per un paio d’ore, si recò al comando militare dove la sua preoccupazione si trasformò in angoscia: sua figlia non si era affatto presentata.

La donna, stravolta, vagò per le strade di Roma senza una meta precisa, bussando anche alle porte dei comandi tedeschi, temendo che la fanciulla fosse stata prelevata nel corso di un rastrellamento. Poi, dopo ben quattro giorni di sfibranti ricerche decise di ritornare a Sora, con la vaga speranza di trovarvi Anna Maria. Ma la fanciulla non c’era.

Ella interessò delle ricerche il Vaticano, la Croce Rossa, enti assistenziali, comandi militari. Fece pubblicare la fotografia della figlia sui giornali, fece insomma tutto quello che poteva. Ma erano tempi difficili, quelli, in cui i mezzi di comunicazione erano scarsi e poco efficienti, e in cui il numero delle persone scomparse senza lasciare tracce era spaventosamente elevato.

Nel marzo del 1944 Francesco Raso tornò in Italia e raggiunse la famiglia, con la quale si stabilì nuovamente a Napoli.

Anna Maria, intanto, aveva tentato di mettersi in comunicazione con la famiglia, ma ciò si era rivelato impossibile. Bisognava soltanto aspettare.

Ma gli avvenimenti precipitarono anche in Germania, e l’11 aprile 1945 le truppe americane entrarono in Magdeburgo, scacciandone le forze tedesche. Subito dopo l’occupazione, gli americani emisero un bando, secondo il quale tutti gli stranieri che si trovavano nella città erano invitati a presentarsi per chiarire e regolarizzare la loro posizione. Anna Maria non mancò all’appello ma, ella dice, “ci fu una confusione” e fu trattenuta. Fu questa la seconda sparizione della giovane: gli Schubert, ai quali aveva detto che sarebbe tornata subito, la attesero per tre mesi.

Quando il campo di concentramento nel quale era stata rinchiusa fu affidato alla direzione degli inglesi, tutte le donne furono rimesse in libertà, e tra esse Anna Maria poté tornare presso i suoi protettori che non speravano più di rivederla. Ma era destino che ella non potesse trovare pace. Era uscita dal campo da due giorni appena, quando nella città, improvvisamente, fecero ingresso i russi, ai quali Magdeburgo era stata assegnata nella spartizione della Germania occupata. Ancora una volta Anna Maria fu fermata, ma si trattò di otto giorni soltanto.

Si poneva intanto, sempre più angoscioso, il problema dell’esistenza. Gli Schubert non avevano più nulla e vivevano di lavoro, e in quel tempo il lavoro era scarso e difficile. Anna Maria aveva già dimostrato una spiccata tendenza ad apprendere le lingue. Parlava già bene il tedesco, cominciò a studiare il russo. Nel frattempo impartiva lezioni private di lingua italiana, la cui conoscenza, in Germania, è richiesta a coloro che vogliono diplomarsi in musica. Apprese il nuovo arduo idioma in un tempo relativamente breve e, dopo essere stata impiegata per un certo periodo presso un campo di concentramento, ottenne un impiego presso un ospedale militare, sempre come interprete.

Ella non aveva dimenticato la sua famiglia. Scrisse una lunga lettera, alla quale non ebbe mai risposta perché non giunse a destinazione. Risultato vano questo tentativo, tentò di rintracciare il padre e, nell’ottobre del 1945, interessò delle ricerche la Croce Rossa di Magdeburgo: questa volta ebbe una risposta, ma si trattava di una risposta sbagliata. Seppe, infatti, che il maggiore Raso, prigioniero al Cairo, era stato trasferito in Australia, mentre suo padre, internato in Tunisia e poi in Algeria, era stato rinviato in Patria essendo stato colpito da un’infezione a un occhio. Si trattava evidentemente di un caso di omonimia, ma la ragazza non poteva saperlo.

Fino al 1950 non tentò mai di superare la cortina di ferro per un solo, naturalissimo motivo: temeva che i russi, catturandola, la mandassero in Siberia. Nel dicembre del 1950 un’amica le disse che il momento più opportuno e più sicuro per attraversare la frontiera era la notte di Natale, in cui tutti i soldati erano ubriachi. Anna Maria non ci pensò due volte: salutò gli Schubert, i quali tentarono invano di dissuaderla, e partì senza un piano prestabilito, tanto è vero che tentò la fuga nel punto più sorvegliato, nella zona di Marien Born, dove esisteva un comando della polizia russa e un comando militare tedesco. 

Percorse diciotto chilometri senza incontrare anima viva, attraverso la pianura e la foresta, poi finalmente vide la sbarra di confine. La libertà era lì a due passi. Accelerò la corsa, felice di essere riuscita nel suo avventuroso tentativo, quando urtò contro qualcosa di vivo. Era un soldato sovietico, una recluta evidentemente, che non dimostrava più di diciassette anni e che se ne stava appiattato sotto un albero, mimetizzato dalla divisa verde e da rami e foglie. Anna Maria ebbe paura, ma più di lei ebbe paura il soldatino che se l’era vista piombare addosso mentre pensava a chi sa cosa, forse alla famiglia lontana che stava trascorrendo senza di lui il Natale.

Era un bravo ragazzo e fece finta di non averla vista. La videro però, mentre stava per attraversare lo sbarramento di filo spinato, gli agenti della polizia russa, e la arrestarono. Dopo due giorni di interrogatori fu rimessa in libertà e poté ritornare a Magdeburgo dove, con la morte nel cuore, riprese il suo lavoro.

Ella però non aveva abbandonato l’idea della fuga, ma si era resa conto che, per metterla in pratica, era necessario un piano meticoloso, e nell’agosto del 1951 ritentò l’avventura, dopo aver scrupolosamente studiato il percorso su una mappa e dopo essersi messa in contatto con gente che avrebbe potuto agevolarla. Scelse la zona delle montagne dell’Harz. Riuscì a raggiungere, a bordo di un’automobile (non può rivelare, ovviamente, i nomi di coloro che l’aiutarono nell’impresa) la zona di frontiera. Attese che scendesse la notte, poi si mosse, e si era già curvata per passare sotto il filo spinato quando una voce le intimò l’alt. Ella non si fermò, fece finta di non avere udito: fu una grande imprudenza che avrebbe potuto costarle la vita ma, in quel momento, era decisa a tutto. Ma non accadde nulla. Evidentemente l’aveva avvistata un soldato tedesco che, come la recluta russa, aveva voluto lasciar correre dopo essersi reso conto che si trattava di una ragazza.

La grande avventura era finita. Si trattò di compiere qualche chilometro a piedi per raggiungere la vicina stazione di Yerxhein, e di lì Hannover.

Non aveva più denaro. Per procurarselo dovette lavorare come assistente sociale presso un campo profughi; vi rimase fino a dicembre, poi riprese il suo viaggio, fermandosi a Colonia, dove avrebbe potuto svolgere le pratiche per il passaporto poiché ad Hannover non esisteva un consolato italiano.

A Colonia le capitò un’altra disavventura. Nella stazione, dove erano in corso lavori di restauro, per sfuggire a una tegola caduta dall’alto, ruzzolò per le scale cadendo in malo modo. Riportò una grave commozione cerebrale che la costrinse in ospedale per tre mesi.

Uscita dall’ospedale si mise in contatto con il consolato e la Croce Rossa, per il passaporto e per le ricerche della famiglia, ma chi le diede un grande aiuto fu il padre Vincenzo Macheroni della Missione cattolica italiana in Germania, che lo assistette e che scrisse ai suoi parenti, informandoli dell’esistenza della ragazza ritenuta perduta. Una copia della lettera fu inviata a Genova, allo zio paterno, un’altra ai parenti di Sora, mentre a Napoli non ne fu spedita nessuna: Anna Maria, infatti, era convinta che i suoi non si trovassero lì, dopo aver scritto una prima volta senza ottenere risposta.
 
E si giunge così al settembre del 1952. Domenico Raso, lo zio paterno di Anna Maria, residente a Genova, si trova a Napoli assieme alle figlie Lucia e Letizia per assistere alla festa di Piedigrotta, quando viene colpito da un attacco di paralisi e muore. Le due figlie, già da anni orfane di madre, rimangono sole, ma la casa degli zii è aperta per loro, ed esse si stabiliranno a Napoli.

Consiglia Raso parte per Genova, accompagnata dalle nipoti, per prelevare la loro roba e chiudere la casa ormai vuota, e trova nella cassetta delle lettere una busta indirizzata al cognato morto, affrancata con un francobollo tedesco. La apre e legge:
 
“Missione Cattolica Italiana in Germania


Colonia, 16-9-1952


Pregiatissimo signore,


a questa Missione occorrerebbero urgentemente notizie riguardanti un suo parente, il sig. dr. Francesco Raso. Si prega caldamente di voler comunicare se egli vive ancora e a quale indirizzo gli si potrebbe scrivere. E’ qui da noi la giovane sua nipote Anna Maria Raso, di Francesco e Consiglia Lo Russo, nata a Napoli il 26 gennaio 1929. Ella è giunta, grazie a Dio, incolume dalla zona russa.


Mi pare così cristiano, giusto e umano poter riallacciare i legami tra detta sua nipote e i di lei genitori.


Grato del favore che ella non mancherà davvero di farmi, prego gradire il mio ossequio cordiale.


D. Vincenzo Macheroni”

L’incontro tra Anna Maria e i suoi genitori avvenne nella stazione di Colonia, il 3 ottobre, alle sei del mattino. Francesco e Consiglia Raso non videro subito la figlia, che, invece, li riconobbe da lontano e corse incontro a loro per abbracciarli.

Poi il ritorno, con tappe, a Berna, a Biella, a Genova. E infine Napoli. E ora? Ora Anna Maria Raso ha un solo desiderio: quello di mettersi a studiare, subito, l’inglese, il francese e lo spagnolo.



Articoli di Corrado Martucci da “Oggi” n. 41 del 9/10/1952 e n. 43 del 22/10/1952

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