lunedì 24 settembre 2018

UN CADAVERE NELLA ROGGIA: IL MISTERO DEL CIABATTINO CANTANTE - 2


“Il delitto di Ca’ di Bolli”, ci ha detto il procuratore della Repubblica dottor Francesco Novello, “ha veramente qualcosa di fantastico, di allucinante.  Voi giornalisti lo avete paragonato sin dal primo momento a un romanzo giallo e non vi siete sbagliati. Tuttavia, ciò che più colpisce non è il fatto in sé, ma l’ambiente in cui si è svolto il dramma: un ambiente sordido, caratterizzato dall’assenza dei più elementari valori umani e morali. Ci vorrebbe la penna di Zola per descriverlo”.

Il dottor Francesco Novello divide con i carabinieri di Lodi il merito delle indagini che hanno reso possibile l’arresto dei presunti autori di uno dei più terribili e misteriosi delitti degli ultimi dieci anni. La storia di queste indagini non è meno sensazionale della storia del crimine.

Quando la mattina del 19 luglio 1958 le contadine di Ca’ di Bolli ripescarono dal “tombone” della roggia Bertonica il macabro pacco contenente il cadavere di un uomo privo della testa e delle gambe, le autorità si trovarono di fronte a un enigma apparentemente insolubile. Non c’era un solo elemento che permettesse di scoprire l’identità della vittima, un solo indizio che consentisse di formulare un’ipotesi sul luogo e le circostanze del delitto. Le ricerche febbrili svolte nella speranza di ritrovare la testa e le gambe dello sventurato risultarono vane.

La Roggia Bertonica fu dragata, i fiumi e i canali dei dintorni vennero ispezionati palmo a palmo con l’aiuto di sommozzatori e di vigili del fuoco. La polizia scientifica riuscì a rilevare mediante un delicato procedimento le impronte digitali del cadavere; i periti analizzarono i resti del cibo – pasta e fagioli e carne in scatola – che la vittima aveva consumato poche ore prima di morire. Le fotografie degli individui scomparsi nelle settimane precedenti furono esaminate a una a una. Centinaia di persone sfilarono davanti alla salma: nessuno la riconobbe.

In realtà i carabinieri arrivarono quasi subito a un passo dalla soluzione del problema, e solo una serie di fatalità impedì loro – come avviene nei “gialli” – di compiere la mossa decisiva. 

La sera stessa del 19 luglio, infatti, un uomo offrì senza saperlo la chiave del mistero. Era il medico condotto del comune di San Martino in Strada che, incaricato dell’esame preliminare del cadavere, lo descrisse come quello di un uomo sui trentacinque anni, basso, mingherlino, probabilmente zoppo e comunque non avvezzo ai lavori pesanti: se questa descrizione, dettata più dall’intuito che da un’indagine scientifica, non fosse stata modificata dai periti (i quali parlarono addirittura di un “ventunenne longilineo”) l’identificazione della vittima sarebbe avvenuta con relativa facilità.

Tre giorni più tardi il capitano Cappi, allora comandante della stazione dei carabinieri di Lodi, scoprì la pista del ciabattino-cantante, Giulio Massaro. Le sue caratteristiche fisiche non corrispondevano a quelle elencate dai periti, e la sua stessa scomparsa era smentita dai congiunti, i quali affermavano che la presunta vittima era viva e si trovava in Riviera. Il capitano Cappi intuì che doveva trattarsi di una buona traccia e cercò di seguirla fino in fondo, ma fu costretto ad arrendersi.

Nei mesi successivi le indagini continuarono. Decine di piste furono seguite inutilmente. I carabinieri si recarono perfino a Bologna, presso la ditta che aveva confezionato la camicia della vittima, e svolsero indagini a Livorno, di dove proveniva un altro degli indumenti dello sconosciuto, un pullover di marca americana. Una serie di esperimenti permise di stabilire che il corpo doveva essere stato gettato nel canale Muzza, nel punto in cui quest’ultimo attraversa la via Emilia poco lontano da San Grato, presso Lodi.

Verso la metà di novembre qualcuno propose di archiviare la pratica. Furono il capitano Cappi e il dottor Novello a insistere perché si tornasse, come ultimo tentativo, sulla pista del ciabattino-cantante. Gli elementi di cui disponevano erano più che scarsi: un paio di lettere anonime, la segnalazione di un fratello del Massaro che ne denunciava la scomparsa, qualche diceria e, soprattutto, la sensazione che le voci intorno al viaggio del ciabattino in Riviera fossero state diffuse ad arte.

Al capitano Cappi, trasferito nel frattempo a Moncalieri, succedette il capitano Vincenzo Russo che, con l’aiuto dei brigadieri Cavassa e Frau, proseguì le difficili indagini che procedettero, una volta di più, col ritmo di un “giallo” e si arricchirono di episodi come quello dei carabinieri che operarono travestiti da messi comunali per non mettere in allarme le persone sospettate.

 Pezzo per pezzo, come in un gioco di pazienza (basti pensare che l’elenco dei “luoghi aventi attinenza al delitto” comprende quindici indirizzi in quattro località diverse) la vita del Massaro fu ricostruita nei minimi particolari, finché dal quadro generale incominciarono ad affiorare gli elementi del crimine.

Giulio Massaro aveva lasciato nel 1940 il comune di Ponte di Brenta, suo paese natale, ed era venuto, appena diciottenne, a Milano, un po’ per cercare fortuna, un po’ per allontanarsi dalla matrigna. La gamba destra, anchilosata dalla poliomielite, lo faceva apparire quasi deforme e questa menomazione contribuiva a rendere più acuta la sua sensibilità e la sua tendenza alla malinconia. 



Lo avevano avviato al mestiere di ciabattino, ma lui aspirava a ben altro: amava la musica, sognava le glorie della ribalta. In effetti aveva una bella voce, e fu proprio con la voce che conquistò l’amore dell’unica donna della sua vita: Anna Amazio, una ragazza di Pozzuoli, giunta a Milano nei primi mesi del dopoguerra.

Anna e Giulio si conobbero nel 1945 e si sposarono nel ’47. Lui aveva venticinque anni, lei diciotto. Il viaggio di nozze fu rimandato a data da destinarsi e la vita coniugale iniziò in una stanzetta di via Guicciardini, ceduta a Giulio Massaro da una famiglia di amici. 

La serenità, purtroppo, durò solo qualche mese: ben presto la miseria incominciò ad avvelenare la vita dei coniugi. L’innata leggerezza di Anna si risvegliò: vi furono accuse d’infedeltà, liti, scenate, perfino una querela contro una donna che aveva affibbiato una qualifica infamante alla giovane signora Massaro. La nascita del piccolo Riccardo, venuto al mondo nel 1954, non migliorò la situazione.

Nel dicembre del 1956, infine, Anna Amazio decise di lasciare la sua abitazione priva di riscaldamento e di recarsi, con il bambino, a Bresso, in casa del fratello maggiore Vittorio, che aveva abbandonato da pochi mesi la moglie e i due figli. E, proprio a Bresso, Anna incontrò quel Luigi Dansi che oggi si trova con lei rinchiuso nelle carceri di Lodi sotto l’imputazione di concorso in omicidio.

Doveva essere uno strano gruppo quello che si formò a Bresso: Anna, una giovane graziosa e piena di desiderio di divertirsi; Luigi Dansi, un uomo chiuso e collerico, spesso in lite con la moglie; Vittorio, un eterno disoccupato che riusciva a vivere chissà come, ed era sempre impegolato in storie di donne (in quel periodo viveva con un’amica dalla quale aveva appena avuto un figlio). 

Eppure, questi personaggi non tardarono ad affiatarsi. Si è detto che Anna conoscesse Dansi fin dal ’47, e si è parlato addirittura di rapporti anormali tra lei e il fratello: ma queste, per ora, sono tutte voci. Certo è soltanto che Anna dimostrò subito un grande attaccamento per i coniugi Dansi e che, nel febbraio del 1957, lei e la moglie di Dansi, Fernanda Francesconi, furono diffidate dai carabinieri per condotta immorale.



Incominciava così il calvario di Giulio Massaro. Il suo amore quasi morboso lo spingeva a ignorare le infedeltà della moglie e, nello stesso tempo, lo distruggeva moralmente. 

I successi ottenuti come cantante, le vittorie ai vari concorsi della “Ugola d’Oro” e del “Microfono d’Oro”, le fotografie che lo ritraevano accanto a Nilla Pizzi e Gino Latilla, non bastavano a sollevargli lo spirito. D’estate mieteva successi nelle balere e, talvolta, anche in dancing eleganti (a Riccione, nel 1956, era arrivato a percepire 7.000 lire per sera). Ma ogni volta che tornava a casa, si sentiva riprendere dalla disperazione.

Gli anni precedenti erano stati duri, ora, però la situazione andava migliorando. Giulio guadagnava qualcosa con il canto e utilizzava il denaro per creare ad Anna quelle comodità che lei aveva sempre desiderato. Aveva comprato un armadio nuovo, una macchina da cucire, una radio: sua moglie, però, aveva aspirazioni molto superiori.

Bisognava vedere il palazzotto di piazza Tevere, a San Donato Milanese, dove Luigi Dansi si trasferì nell’agosto del 1957, per comprendere lo stato d’animo di Anna Amazio. Lo stabile, con il suo atrio ornato di stucchi e le sue scale di marmo, sembra indubbiamente una reggia in confronto alla catapecchia di via Conca del Naviglio. Ci voleva ben altro che la macchina da cucire per staccare Anna da Luigi Dansi.

Con l’andare del tempo la relazione fra i due divenne così palese da costringere la moglie di Dansi, Fernanda, ad abbandonare il tetto coniugale. Ormai Anna, che ufficialmente era la domestica di Dansi, trascorreva buona parte del suo tempo a San Donato; aveva con sé anche il bambino. Giulio Massaro implorava, scongiurava la moglie di non abbandonarlo. 

In che giorno maturò la tragedia? Le autorità inquirenti credono di conoscere il momento preciso che coincide con il trasferimento definitivo di Anna in casa Dansi, avvenuto circa un mese prima del delitto. 

Giulio Massaro aveva tollerato tutto, aveva accettato perfino il denaro che sua moglie portava a casa senza spiegarne la provenienza, aveva accettato la vergogna pur di continuare a vivere accanto alla donna che amava: ma dopo la partenza di Anna il suo atteggiamento mutò, poteva sopportare tutto ma non l’abbandono

L’uomo che, fino a quel momento, si era limitato ad implorare, incominciò a fare scenate e a profferire minacce. Una sua denuncia provocò un’azione di sorpresa dei carabinieri in Piazza Tevere: una sua visita a San Donato diede luogo a una lunga lite. 

Il 1° luglio Giulio Massaro si recò nuovamente a San Donato e intimò alla moglie di tornare a casa. Una settimana più tardi, nel pomeriggio del 7 luglio, Fernanda Francesconi se lo vide arrivare a casa in stato di estrema agitazione. “Vado a San Donato a definire una volta per sempre le cose”, le disse Giulio. Fernanda cercò di calmarlo e lo invitò a mangiare con lei: pasta e fagioli e carne in scatola. Poco prima delle ventidue Giulio se ne andò: disse che si sarebbe recato in piazzale Medaglie d’Oro, a prendere la corriera per San Donato Milanese. 

Da quel momento nessuno ricorda di averlo visto. Il suo corpo fu rinvenuto dodici giorni dopo nel “tombone” della roggia Bertonica: nel novembre suo fratello Giovanni, giunto da Padova, ne riconobbe gli indumenti che erano uguali ai suoi.

Non è difficile dunque ricostruire il delitto, così come esso si presenta secondo l’accusa: Giulio Massaro sarebbe giunto a San Donato e avrebbe pagato con la vita la sua ennesima scenata. Poi, il suo corpo sezionato forse con l’aiuto di Vittorio Amazio (che a quanto sembra si trovava sul posto), sarebbe finito nelle acque del canale. 

Rimangono tuttavia parecchi interrogativi. Fu un delitto premeditato o l’uccisione avvenne per caso nel corso di una lite? Chi dei tre fu l’esecutore materiale? Con quale arma fu procurata la morte? Dove si trovano la testa e le gambe della vittima? E infine, dove avvenne il delitto?

Ad alcune di queste domande si è già tentato di dare una risposta: le autorità, ad esempio, propendono per l’ipotesi del delitto preterintenzionale e, quanto alla testa e alle gambe mancanti, si ritiene che esse possano essere state seppellite nella base del terrapieno dell’Autostrada del Sole, che in quell’epoca si stava costruendo. 

Discordi sono invece le teorie sul luogo in cui è avvenuto il delitto. In piazza Tevere, affermano alcuni (ma l’ipotesi non regge, perché nell’abitazione si trovava Riccardo, il figlio di Massaro); nel capannone della ditta “Rubeda”, il piccolo stabilimento gestito dai fratelli di Luigi Dansi, sostengono altri; in aperta campagna, dicono altri ancora. Ma fino a questo momento non si sa nulla di preciso.

Vi è infine un’altra domanda importante: dato che davanti alla casa di piazza Tevere scorre il canale Redefossi, e dato che a non più di cinque chilometri da San Donato passa il fiume Lambro, come mai i colpevoli preferirono percorrere più di venti chilometri per gettare il cadavere nel Canale Muzza che, a parte la distanza, era più lento e quindi meno “comodo” del fiume?

La risposta a questo interrogativo servirà probabilmente a dissipare gli ultimi dubbi e a chiarire definitivamente quello che per molti mesi è stato chiamato il “Mistero di Ca’ di Bolli”.


Articolo di Giovanni Cavallotti da “Oggi” n. 9 del 26 febbraio 1959

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