Tre chilometri a sud di Lodi la Roggia Bertonica, un canale d’irrigazione largo cinque metri, attraversa la via Emilia e affonda nel verde dei campi, tra alberi e cespugli che lo nascondono alla vista. In quel tratto il canale ha l’aspetto di un piccolo fiume limaccioso e la cascatella che forma appena fuori dalla frazione Ca’ di Bolli, dove uno sbarramento regola l’alimentazione di alcuni canali secondari, sembra quasi una cascata vera, un posticino ideale per una scampagnata.
Proprio sotto la cascatella (o il “tombone”, come lo chiamano nella zona) è stato rinvenuto il cadavere decapitato e mutilato dell’uomo che è rimasto vittima di uno dei più misteriosi delitti del dopoguerra.
La macabra scoperta è stata fatta la mattina di sabato 19 luglio 1958 da un vecchio contadino di Ca’ di Bolli che, recandosi a lavorare nei campi, ha visto roteare nel gorgo della cascata una specie di grosso pacco avvolto in una tovaglia di tela cerata e legato con alcuni giri di spago. A mezzogiorno il “pacco” era ancora allo stesso punto, sballottato dalla corrente del vortice, e solo più tardi alcune donne si avvicinavano per tentare di recuperarlo.
Una di esse, certa Giulia Abbiati, saliva su una conduttura di cemento che attraversa il canale come un ponte e di là, con l’aiuto di un falcetto assicurato a una lunga pertica, incominciava a tagliare le corde che tenevano insieme l’involto: quasi subito una mano bianca, cadaverica, affiorava tra le pieghe della tela cerata. Un’ora dopo i carabinieri estraevano dall’acqua i resti di un uomo privo della testa e delle gambe.
Il cadavere, già in stato di avanzata decomposizione, presentava uno spettacolo terrificante. Le braccia, legate ai fianchi con alcune cordicelle, conferivano al corpo una posizione simile a quella del soldato “sull’attenti”; le orribili piaghe lasciate dalle mutilazioni denotavano la fretta e l’inesperienza di chi le aveva eseguite. Sulla parte superiore del torace, vicino alla spalla, si vedevano tre ferite dovute probabilmente ad un’arma appuntita. A chi appartenevano quei miseri resti? Com’erano finiti nel canale, e per opera di chi?
A questi drammatici interrogativi stanno tentando di rispondere i carabinieri e gli agenti della squadra mobile di Milano, impegnati in un’indagine che si delinea come una fra le più difficili registrate finora negli annali della polizia. Il cadavere di Ca’ di Bolli sembra infatti tolto di peso dalle pagine di uno di quei “gialli” che offrono ai lettori la soluzione di un delitto perfetto, con la differenza che in questo caso, oltre alla soluzione, mancano anche i pochi indizi che perfino gli autori dei “gialli” si sentono in dovere di fornire ai loro investigatori.
Nel romanzo Maigret e il corpo senza testa, ad esempio, il celebre personaggio di Simenon ha a disposizione almeno due elementi-base: la probabilità che il corpo sia stato gettato nella Senna poco lontano dal punto in cui l’hanno ripescato e l’assenza sospetta di un abitante del quartiere le cui caratteristiche corrispondono presumibilmente a quelle del morto.
Nel caso di Ca’ di Bolli invece non c’è nulla: il cadavere non ha nessun segno, nessuna caratteristica particolare; il suo stato rende pressoché impossibile ogni tentativo d’identificazione (perfino il rilevamento delle impronte digitali è stato in parte compromesso dall’azione dell’acqua) e, quanto al luogo in cui è stato gettato nel canale, esso può trovarsi in un punto qualsiasi tra Cervignano, dove nasce, e la tragica cascata. E non è tutto: i sopralluoghi e gli esperimenti eseguiti dai tecnici dimostrano che il cadavere potrebbe essere giunto a Ca’ di Bolli addirittura dal canale Muzza, ossia da una zona che si estende, a nord di Paullo, fino a Cassano d’Adda.
La polizia si trova dunque di fronte a un enigma apparentemente insolubile. Gli elenchi delle persone scomparse non hanno fornito finora alcuna indicazione, perché l’età attribuita dai medici all’assassinato (30-35 anni circa) non corrisponde a quella degli individui la cui scomparsa è stata denunciata negli ultimi tempi (d’altra parte come si fa ad essere certi dell’età della vittima quando esiste il precedente della quarantacinquenne Giuseppina Strapparava, il cui cadavere decapitato venne rinvenuto sei anni fa a Verona e fu classificato dai periti come appartenente a una donna inferiore ai vent’anni?)
Gli indumenti del morto si prestano a loro volta a deduzioni contraddittorie: la canottiera, la camicia a scacchi, la cintura, i calzoni lisi e le mutande confezionate in casa sono di qualità mediocre e fanno pensare a un contadino, e più precisamente a un contadino povero. Però il pullover indossato dalla vittima è di qualità molto migliore e addirittura non è in vendita in Italia.
L’uomo, sempre secondo i periti, potrebbe averlo acquistato solo di contrabbando, probabilmente attraverso il personale della base americana di Livorno. Ma come pensare che un povero contadino della Bassa lodigiana vada ad acquistare indumenti di contrabbando dagli americani di Livorno? Come conciliare l’ipotesi del contadino con il fatto che le braccia del cadavere sono indiscutibilmente quelle di un uomo che non ha mai svolto un lavoro pesante? E soprattutto, come spiegare il fatto che le sue mani appaiono regolarmente curate?
L’esistenza del pullover ha permesso tuttavia alle autorità di stabilire uno dei pochi elementi che fra tante contraddizioni appaiono certi: il momento approssimativo in cui avvenne l’omicidio. Il fatto che la vittima indossasse un indumento caldo dimostra in effetti che il delitto deve essere stato compiuto prima dei giorni di canicola, ossia prima del 10 luglio. Lo stato di decomposizione autorizza l’ipotesi che l’uomo sia stato gettato nell’acqua tra il 5 e il 10 luglio.
Esiste poi un secondo elemento che può essere considerato certo: lo sventurato fu prima ucciso, poi legato e indi mutilato. La mancanza di ogni traccia di emorragia dimostra che le amputazioni debbono essere state eseguite parecchio tempo dopo la morte; il fatto che l’assassino, “tranciando” orrendamente con una sega da falegname una delle gambe, abbia asportato anche due dita della mano del morto, corrispondente all’arto amputato, indica che al momento dell’amputazione la vittima era già stata legata; la mancanza di lividi infine è una prova che l’uomo fu legato quando era già morto.
Si aggiungano alcune caratteristiche somatiche dedotte dall’esame (l’uomo doveva essere bruno, alquanto robusto e sostanzialmente sano: era alto circa un metro e settanta e doveva pesare una settantina di chili) e si avrà l’elenco completo dei fatti certi, noti alla polizia nei primi tre giorni dopo la scoperta del cadavere.
Il resto sono tutte congetture. Le corde, ad esempio, con le quali la vittima e il pacco furono legati non risultano del tipo in uso presso i contadini, ma non appartengono nemmeno al comune spago che si può trovare in ogni casa: sono cordicelle sfilacciate, simili a quelle che vengono adoperate per l’imballaggio delle merci vendute dai grossisti, tuttavia l’assassino potrebbe averle trovate in un mucchio di rifiuti, come pure tra i rifiuti potrebbe aver rinvenuto la tovaglia di tela cerata in cui avvolse il cadavere. Più “logica” sembra invece la circostanza che l’assassino avrebbe eseguito le amputazioni senza svestire il cadavere, cosa che avrebbe reso più rapida e facile la macabra operazione: evidentemente è stata proprio la fretta che, unita all’inesperienza, ha suggerito questa soluzione.
Vi sono poi altre due considerazioni che, apparentemente, si basano su semplici congetture, ma che in pratica potrebbero avere un notevole peso. La prima è suggerita dalla psicologia, la seconda dalla cronaca.
Gli studiosi sono concordi nell’affermare che di regola il dissezionamento di un cadavere viene eseguito da un assassino che agisce solo, non da una banda o da un gruppo di criminali (l’operazione infatti può lasciare indifferente un uomo in preda a follia omicida, non un gruppo di “assassini a freddo” che finirebbero per impressionarsi a vicenda).
I fatti di cronaca a loro volta sembrano dimostrare che i cadaveri tagliati a pezzi appartengono quasi sempre a persone assassinate per motivi passionali.
Negli ultimi dieci anni i giornali hanno registrato la scoperta di sette cadaveri mutilati e sei di essi appartenevano a donne: quattro dei misteri furono svelati e in tutti e quattro i casi risultò che i colpevoli avevano agito in presa a passionalità morbosa.
Nel caso di Ca’ di Bolli, è vero, il cadavere è quello di un uomo, ma le circostanze esteriori sembrano avvicinarlo, almeno per quanto riguarda il movente, ai ben noti casi di Giuseppina Strapparava e di Antonietta Longo, la “decapitata di Castel Gandolfo”. Sembra anzi che la polizia stia seguendo in questo senso una pista collegata a un delitto commesso tempo fa a Milano, senza tuttavia perdere di vista l’ipotesi che le amputazioni siano state eseguite al solo scopo di impedire che l’identificazione del cadavere denunciasse i crudeli assassini.
Naturalmente, solo il tempo e le pazienti indagini della polizia potranno stabilire fino a che punto queste congetture sono fondate. Occorrerà anche una buona dose di fortuna, magari una debolezza dell’assassino, come è avvenuto in molti casi precedenti.
I carabinieri e gli agenti di polizia stanno lavorando instancabilmente. Squadre di uomini appositamente addestrati perlustrano dall’alba al tramonto i numerosi corsi d’acqua della rete d’irrigazione del Lodigiano, compiono esperimenti, misurazioni, ricerche. Dal fondo melmoso dei canali essi cercano di riportare alla superficie quella che potrebbe essere la chiave del mistero: la testa dell’uomo assassinato.
Articolo di Giovanni Cavallotti da “Oggi” n. 31 del 31 luglio 1958
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