Un delitto tuttora impunito scosse l’Italia nell’estate del 1960.
Era la notte tra lunedì 1 e martedì 2 agosto, e le luci nella "Villa Sassone" di Mornico Losana, in provincia di Pavia, rimasero accese a lungo, fin dopo le ventitré; anche la televisione era accesa ma nessun abitante delle case vicine ci fece caso. Tutti del resto sapevano che gli abitanti della villa erano soliti andare a letto tardissimo.
La villa apparteneva al professor Mario Ismaele Carrera, di sessantasette anni, titolare di una piccola casa editrice con sede a Varese. Un uomo d’ingegno, benestante (possedeva, oltre alla villa, un appartamento a Varese e due appartamentini ad Arma di Taggia) vedovo da qualche anno, con una figlia sposata a un dentista varesino e una nipote di sedici anni.
Da tre anni aveva assunto alle sue dipendenze una giovane di Mornico, Eva Martinotti, ex-operaia di ventinove anni, bionda e piacente, e come spesso accade se ne era invaghito al punto di lasciarsi quasi comandare da lei e mettersi contro sua figlia. Era inoltre gelosissimo della ragazza; arrivava ad accompagnarla personalmente a fare la spesa e a visitare i suoi genitori, ben sapendo che Eva approfittava di quelle occasioni per incontrarsi con i giovanotti del suo paese.
L’indomani il postino, arrivando da Mornico con due lettere e una raccomandata, trovò la porta chiusa, ma vedendo la “600” del professore regolarmente parcheggiata, pensò che lui dormisse e che Eva fosse magari uscita per la spesa. Tutti in paese sapevano che Carrera trascorreva la maggior parte delle notti in piedi a leggere e a scrivere, dormendo di giorno, e anzi s’irritava moltissimo quando veniva svegliato prima del tempo, così il postino infilò le due lettere sotto la porta senza bussare.
Anche mercoledì trascorse senza novità, e fu soltanto giovedì che un visitatore domandò al vicino di casa, Giovanni Perotti, padre di Luigina, cosa fosse accaduto al professore. “Deve essere partito,” rispose questi, “sono due sere che c’è buio e silenzio”. “Eppure c’è la macchina, e la vetrata del salone è spalancata”. Il Perotti comprese immediatamente che qualcosa di grave era accaduto, e avvisò i carabinieri.
Quando le forze dell’ordine arrivarono alla villa, trovarono tutte le porte e finestre chiuse, tranne la vetrata del salone e una finestra sul retro che dava sul bosco, con tracce di sangue, ed entrarono.
Al piano terreno tutto era apparentemente in ordine: nessuna impronta per terra, soltanto due scarpe, due mocassini neri con qualche macchiolina di sangue, e macchie di sangue sul marmo sotto la scala.
Sul pianerottolo tra la prima e la seconda rampa giaceva il corpo del professore, con indosso solo una canottiera. Massacrato con colpi alla testa, soffocato da uno straccio in bocca, strangolato da un paio di bretelle; sangue ovunque, sulle scale, sui muri, sulle poltrone, sulle pareti fino a un metro e ottanta di altezza, perfino sui quadri. Erano le tracce lasciate da un ferito che disperatamente cercava di aggrapparsi ovunque per reggersi in piedi, per andare ad aprire le finestre, per chiedere soccorso.
Eva Martinotti, invece, era immersa nella vasca da bagno, in pigiama: anche lei uccisa con una decina di colpi in testa e poi, per maggiore sicurezza, gettata ad annegare nell’acqua. Dal salone fino al bagno, tutto il pavimento aveva lunghe strisce di sangue, come se il corpo della donna fosse stato trascinato.
Nella casa tutto era in ordine perfetto: non un mobile spostato, non un armadio o un cassetto aperto. In ordine le due stanze da letto, senza nessun segno di lotta, segno che la strage era avvenuta nel salone e poi sulle scale.
Le indagini cominciarono su due basi: gli screzi nella famiglia del professore e i rapporti della cameriera con i giovanotti della zona. Decine di persone furono passate al vaglio ma, come sovente accade, chi non sapeva parlava, e chi sapeva qualcosa si teneva ben nascosto per non avere grane o per paura.
Gli inquirenti cominciarono a basarsi su svariati punti.
Uno: l’omicida era uno solo, se fossero stati due non avrebbero permesso al professore di vagare ferito da una stanza all’altra, col rischio che desse l’allarme.
Due: l’assassino doveva conoscere molto bene la villa, poiché le luci erano state spente azionando l’interruttore generale, praticamente introvabile per chi non ne conoscesse l’ubicazione.
Tre: sembrava quanto mai improbabile che, come si era sospettato all’inizio, l’omicida fosse un innamorato della Martinotti, fatto entrare in casa da lei: i due avrebbero potuto incontrarsi comodamente al pianoterra e non al primo piano, a due passi dalla camera del professore che ci sentiva benissimo, era geloso, e notoriamente stava sveglio di notte.
Quattro: per uccidere venne usato un fermaporte di marmo, poi trovato insanguinato: ciò significa che l’assassino non era giunto nella villa armato e che aveva usato la prima arma a portata di mano.
Cinque: nella villa mancava un solo oggetto, il portafogli del professore, che teneva nella tasca posteriore dei pantaloni. Che cosa conteneva questo portafogli? Nessuno lo sapeva.
Via via che il tempo passava, ci si capiva sempre di meno. Le ipotesi si susseguivano: l’innamorato di Eva era stato scartato e così un ipotetico ladro, quindi saltò fuori un figlio naturale del professore, abitante ad Ancona, che per sua fortuna poté dimostrare di non essersi mai mosso di casa. Addirittura a un certo punto fu ventilato che le due vittime si fossero uccise a vicenda durante una lotta selvaggia tra di loro, oppure che Carrera avesse soppresso la governante, uccidendosi poi simulando un omicidio per salvare il buon nome della famiglia. Insomma, come si dice, si brancolava nel buio.
A un tratto, fra tanti fantasmi, l’attenzione degli inquirenti cominciò a concentrarsi su di una persona reale e tangibile: il dentista varesino Douglas Sapio Verdirame, genero di Carrera.
Circolava
infatti la voce che un’automobile bicolore verde
blu, targata Varese, uguale alla sua, fosse stata vista sostare più
volte davanti alla villa del massacro nei
giorni precedenti il delitto, evidentemente per fare dei sopralluoghi;
frequentando normalmente la villa, il dentista poteva sapere dove si trovasse
l’interruttore generale della corrente, e inoltre la morte
del professore gli avrebbe ovviamente procurato un vantaggio economico. Poteva aver agito in proprio,
o tramite un sicario.
Dal canto suo, Sapio Verdirame faceva notare quanto fosse improbabile l’idea di un sopralluogo da parte di una persona, come lui, che frequentava regolarmente la villa; e inoltre un sicario difficilmente si sarebbe recato a commettere un omicidio senza portarsi un’arma, dovendo quindi servirsi di un fermaporta trovato per caso.
L’eredità, inoltre, non era niente per cui rischiare l’ergastolo: un appartamento a Varese, due appartamentini ad Arma di Taggia, titoli, denaro liquido, una discreta somma quindi, ma non certo una cifra da nababbo.
L’opinione del dentista era che l’assassino fosse una persona pratica della casa: magari un amico di Eva, o qualcuno che fosse stato alla villa in passato a fare dei lavori e ci si fosse introdotto nuovamente per rubare, venendo quindi sorpreso in flagrante.
Sua moglie Matelda, figlia del professore, pensava invece che si trattasse di un uomo col quale Eva si fosse vantata, come pare fosse solita, di essere ricca: l’uomo l’avrebbe quindi ricattata costringendola ad accoglierlo in casa. A favore di questa tesi c’era il fatto che in molti, parenti e amici della ragazza, avevano riferito che lei si sentisse impaurita, come in pericolo, tanto che a un’amica aveva detto: “Prega per me, che ne ho bisogno”.
Quando però la polizia domandò a Sapio Verdirame come e dove aveva passato la notte del delitto, saltarono fuori delle notevoli stranezze.
Il dentista era partito da Arma di Taggia alle diciannove di lunedì 1° agosto. Gli piaceva viaggiare di notte, lentamente; infatti a Imperia, appena una ventina di chilometri dopo, si era fermato, aveva comperato una cartolina, spedendola alla moglie ed alla figlia che aveva lasciato da poco. A Savona un’altra sosta per la cena, ed un’altra cartolina affettuosa alla famiglia. Poi il valico del Sassello, verso la pianura padana, e da Acqui una terza cartolina, una veduta di Imperia, imbucata alla stazione. Nella cartolina diceva: “Il Sassello era pieno di piovaschi, ma la notte è calda. Stringetemi, sono triste, pensate a me”.
Poi aveva proseguito per Alessandria e, secondo il suo racconto, Novara, il ponte di Oleggio, Gallarate. Ormai era notte fonda, i negozi erano chiusi, non era possibile comperare altre cartoline. Si era fermato un paio di volte a dormire e (secondo il suo racconto) era arrivato a Varese alle 4.30; nessuno, comunque, da Savona fino a Varese poteva confermare la sua versione.
Da Acqui, insomma, si perdevano le sue tracce, e la polizia poté ben immaginare che avesse potuto fare, dopo Alessandria, una digressione verso Tortona, Voghera e Casteggio, riprendendo quindi la via di Varese attraverso Pavia e Milano.
Inoltre si presentò il gestore di una stazione di servizio di Varese, al quale in agosto si era presentato un signore elegante, con un’auto 1100 verde-blu, chiedendogli di lavarla; lui e la moglie si erano accinti all’opera mentre il cliente stava nelle vicinanze, e quando avevano trovato delle grosse macchie di sangue sulla portiera dell’auto lo avevano chiamato. “Ah, sì. Si vede che è stato quel ferito che ho raccolto per strada”, aveva commentato lui, raccontando poi di un incidente stradale al quale aveva assistito.
Tutto questo fece sì che, il 20 agosto, Douglas Sapio Verdirame fosse arrestato e tradotto nelle carceri di Voghera, da cui uscì il 31 ottobre in libertà provvisoria.
Tutto a posto quindi… anzi no. Il castello accusatorio, che del resto si reggeva soltanto su indizi, cominciò a sgretolarsi quando, durante un confronto, il benzinaio e sua moglie non riconobbero né l’auto né il misterioso cliente; gli inquirenti allora ordinarono una serie di perizie ematologiche su di una microscopica macchiolina di sangue ritrovata nella 1100. Risultato? Zero.
La difesa di Sapio Verdirame evidenziò quindi una serie di punti a favore del loro assistito. Primo: gli esperti dissero che era impossibile stabilire con esattezza l’ora e il giorno in cui l’editore e la governante erano stati uccisi, perché d’estate i cadaveri si decompongono più rapidamente. Quindi poteva essere che il massacro fosse avvenuto il giorno 2 o addirittura il 3.
Secondo, il movente dell’interesse non reggeva: il dentista non aveva bisogno di soldi e l’eredità non era poi quella gran cosa. Terzo, il professore era stato colpito da un pugno e quindi finito con le sue bretelle; la donna era stata uccisa con un fermaporte. I due assassinii, dunque non erano premeditati.
Quarto: due mesi circa dopo il crimine, mentre il dottor Verdirame era ancora in carcere, qualcuno aveva rotto i sigilli apposti sulla porta della villa, era penetrato all’interno senza rubare niente. Era quindi molto probabile che tra i due eventi criminosi, gli omicidi e l’effrazione, esistesse una correlazione.
Infine, il passato della governante, ragazza vivace cui molte avventure venivano attribuite, anche con uomini sposati. Si può supporre che Eva, nella notte tra l’1 e il 2 agosto, attendesse un uomo alla villa. Il professore si era coricato presto, lei era rimasta alzata (infatti il suo letto fu trovato intatto). L’ospite era arrivato, era cominciata una discussione, il professore si era svegliato; l’assassino aveva perso la testa sferrandogli un pugno tremendo, facendolo rotolare per le scale, infine lo aveva raggiunto e strangolato.
L’assassino, poi, potrebbe aver obbligato Eva a cancellare le proprie tracce, minacciandola o convincendola con le buone per poi ucciderla col famoso fermaporte, e questo spiegherebbe le tracce dei piedi della ragazza trovate un po’ ovunque, e la digestione. Infatti nello stomaco del professore era stato ancora trovata la cena di quella sera, in quello di Eva no, segno che i due erano morti a distanza di ore l’uno dall’altra.
Con questa meccanica si poteva spiegare anche la visita notturna compiuta due mesi dopo: l’assassino cercava un oggetto, una lettera, un indumento, insomma qualcosa che avrebbe potuto tradirlo e che gli inquirenti non avevano ancora trovato.
Nel novembre 1962 il tribunale di Pavia assolse Douglas Sapio Verdirame per insufficienza di prove, e il fatto cadde così nel dimenticatoio.
Il delitto di "Villa Sassone" rimane tuttora impunito.
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