giovedì 27 settembre 2018

LETTERE DALL'ALDILA'




Il fatto avvenne alle ore venti e cinquantasette al chilometro 14-310 della strada ferrata tra Pieve Ligure e Sori. L'uomo aspettava il treno da parecchio tempo, diede un balzo in avanti. Il conducente del treno, Carmine De Luise, vide una forma oscura sui binari e cercò di frenare, ma tutto fu inutile: nè lui nè l suo aiutante, Bruno Rachini, poterono far molto. Il corpo dell'uomo fu straziato dalle ruote.

Fu il maresciallo Nello Ciuffardi della stazione dei carabinieri di Sori a recarsi immediatamente sul posto per le indagini del caso, e fu lui il primo a meravigliarsi guardando il morto. La parte del corpo meno massacrata era proprio la faccia, ed era la faccia di qualcuno che al maresciallo parve di conoscere molto bene. "Il brigadiere Lo Bianco", disse il maresciallo, "perchè mai si è ammazzato?"

Invece si trattava solo di un'impressionante somiglianza: il brigadiere Lo Bianco era vivo e vegeto e appena apprese la notizia della propria presunta morte corse anche lui sul posto, unendosi agli altri carabinieri a cercare nei dintorni il portafogli, qualche carta, qualche documento che potesse servire a identificare il morto. Ma nessuno trovò niente. Il suicida del chilometro 14-310 se n'era andato incontro alla morte con le tasche vuote, aveva voluto veramente scomparire senza lasciar tracce di sè.

Era il ventinove aprile 1953; si pensò che quello fosse uno dei tanti gesti disperati e che non si sarebbe parlato più di quel morto, invece quel tragico balzo tra i binari era stato solo l'inizio di un'intricata vicenda, di un caso da romanzo giallo.

Quattro giorni dopo il suicida venne identificato ufficialmente. si presentò dapprima un certo Mercoli e disse che il morto gli pareva un suo parente, Mario Ravazzini. Poi da Milano arrivarono a Sori altre persone tra cui la signora Luisa Cattadori Ravazzini, che dichiarò che quello era suo marito Mario. Da quanto affermarono i parenti potè essere abbozzata la figura del suicida e potè essere formulata una valida ipotesi sulle ragioni del suo gesto.

Mario Ravazzini era stato un bravo ragazzo, affettuoso e cordiale, ma un poco strano, capace di cambiare umore per un'inezia, forse un poco troppo impulsivo. Aveva trent'anni e, come portiere della squadra di calcio "Fanfulla" di Lodi, aveva conosciuto la celebrità sportiva, ma poi aveva lasciato la carriera del calciatore per intraprendere il mestiere di agente di pubblicità.

Nel 1947 aveva sposato Luisa Cattadori e si era trasferito a Milano. Lì gli era nato un figlio, Giancarlo. L'ex calciatore voleva molto bene alla famiglia, lavorava volentieri e guadagnava discretamente: la sua vita, insomma, avrebbe potuto essere serena, senza gravi preoccupazioni per l'immediato avvenire, invece c'era qualcosa che non andava in Mario: la passione per il gioco.

Appena era in grado di farlo si recava a San Siro, puntava tutti i soldi di cui era in possesso sui cavalli. Qualche volta gli andava bene, ma più spesso - quasi sempre - gli andava male. E Mario Ravazzini non sapeva trattenersi, non sapeva ragionare: nell'illusione di rifarsi con un colpo grosso continuava a giocare sino all'ultimo spicciolo. Quello che ricavava dal suo mestiere sarebbe stato sufficiente per mantenere la piccola famiglia, ma invece finiva troppo presto; allora l'ex calciatore tornava a casa di malumore, afflitto, si tormentava con il rimorso, faceva propositi di grande serietà per il futuro ma poi, appena aveva qualche soldo in mano, la tentazione era troppo forte. 

Mario Ravazzini ricompariva a San Siro, puntava tutto e, purtroppo, finiva per perdere tutto. Magari per tirare avanti con le puntate si faceva prestare soldi da amici e conoscenti. Negli ultimi tempi i debiti erano andati aumentando; e l'ex calciatore era diventato sempre più scontroso e triste, usciva dal suo silenzio solo ogni tanto per dire che i giornali avrebbero pur dovuto parlare di lui un giorno o l'altro.

La moglie non capiva, le riuscì difficile capire anche quando si trovò davanti a quel corpo straziato, tanto che il maresciallo Ciuffardi permise a Luisa Cattadori di guardare solo la faccia del morto, la parte meno offesa dalle ruote del treno.

Di nuovo il caso del suicida del chilometro 14-310 pareva concluso: c'era stata l'identificazione nella quale neppure si sperava. La moglie, è vero, aveva avuto qualche esitazione prima di dichiararsi sicura. Infatti, la donna aveva sperato che non fosse vero fino all'ultimo, anche quando le avevano detto che l'uomo uccisosi tra Pieve Ligure e Sori pareva proprio suo marito. Sì, Mario mancava da casa da parecchi giorni, ma non era il caso di allarmarsi: il suo mestiere di agente lo portava spesso lontano. E poi, a quanto dicevano i giornali, il morto indossava un abito nuovo marrone gessato di bianco e lei non ricordava che il marito ne avesse posseduto uno simile. Così Luisa era andata da Milano a Sori tutt'altro che convinta.

Suo marito aveva due segni caratteristici proprio sulla faccia: un neo opco più in alto del sopracciglio sinistro e una cicatrice, poco più di un graffio, sulla guancia destra. Ma la faccia del suicida era escoriata e gonfia, impossibile vedere quei due segni. Questi però erano solo particolari: i lineamenti, per quanto sconvolti, erano quelli di Mario Ravazzini. Luisa non potè fare a meno di riconoscerli e se ne tornò a Milano con l'amara certezza che Mario aveva lasciato per sempre lei e Giancarlo.

Il tempo prese a passare regolare, monotono. Luisa Cattadori si impiegò come stenografa, a casa sua madre badava al piccolo Giancarlo. Ufficio e casa, casa e ufficio, l'esistenza della vedova Ravazzini era rientrata nella più assoluta normalità, quando un altro avvenimento assurdo la sconvolse di nuovo.

Ogni quindici giorni cominciarono ad arrivare da Sidi Bel Abbès, il quartier generale della Legione Straniera in Marocco, lettere firmate Mario e scritte da una calligrafia che Luisa Cattadori riconobbe per quella del marito. Com'era possibile?

"Mi sono arruolato nella Legione Straniera", diceva una delle lettere. "Sono a Sidi Bel Abbès e attendo tempi migliori per tornare. Chiedo perdono a tutti per ciò che ho fatto. Ora devo espiare". Tutto pareva in regola in quelle lettere: la firma, la calligrafia, la spedizione.

A Luisa parve di impazzire. Eppure lei aveva visto la faccia del marito sfigurata dalla morte ma riconoscibile, lei aveva compiuto l'identificazione dopo aver perduto ogni dubbio. Com'era possibile? Ogni quindici, venti giorni le lettere arrivavano dalla Legione Straniera, erano firmate Mario, erano scritte nella calligrafia di Mario, facevano accenno a cose che solo Mario poteva sapere.

Allora lui era vivo, il suicida del chilometro 14-310 era un altro? Gli anziani genitori di Mario Ravazzini si afferrarono subito a questa ipotesi: il loro figlio non era morto, era andato lontano per sfuggire ai debiti. Anche Luisa si sentì tentata a sperare, ma non poteva. Non riusciva ancora a credere alle lettere che continuavano a giungere con notizie della vita nella Legione, con promesse di ritorno, con saluti affettuosi da parte del legionario M.R., 2°R.E.C. 2° Escadron Ploton Instruction. La donna, a forza di riflettere, arrivò a formulare un'altra ipotesi: che Mario, prima d'uccidersi, avesse scritto quelle lettere e avesse incaricato qualcuno di spedirle da così lontano perchè la sua famiglia non lo considerasse morto. Un'ipotesi un po' troppo complicata, forse, ma che in qualche modo conciliava l'assurda realtà di quei messaggi con l'amara certezza dell'identificazione.

Al caso si interessò l'Interpol, si cercò in ogni modo una spegazione, ma si sa che la Legione Straniera difende i suoi segreti. Luisa inviò al suo misterioso corrispondente un patetico appello: "Sono certa di non aver sbagliato nell'identificazione", scrisse, "ma se per caso il destino avesse voluto mettermi sotto gli occhi il sosia di mio marito, vorrei che mi si desse qualche prova perchè mi possa sincerare della sua esistenza. Se qualcuno si è prestato a spedire lettere da lui preparate, sappia che arriverà a far impazzire tutta una famiglia..." e rimase ad attendere una risposta che facesse veramente luce su quell'ombra che, dal Marocco, continuava ad inviare frasi banali: "... sto bene, faccio sei ore di sport al giorno e spero in tre o quattro anni di farmi una buona posizione...".

Luisa non sapeva più cosa pensare, forse aveva paura di finire per cedere prima o poi alla speranza. Ma davvero non poteva essersi sbagliata come sbagliò il maresciallo Ciuffardi, quando vide il suicida e lo credette il brigadiere Lo Bianco?

La parola fine a questa vicenda la diede l'Interpol alcuni mesi dopo, quando fu possibile accertarsi senz'ombra di dubbio che Mario Ravazzini fosse effettivamente vivo e arruolato nella Legione Straniera.

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