La sentenza con la quale la Corte d’Assise di Roma
assolveva Massimo Massai dall’accusa di aver avvelenato la sua prima moglie
Dolores Macor era stata annunciata da pochi minuti. Massimo Massai, ancora
chiuso nella gabbia, piangeva. Accanto a lui erano gli avvocati Francesco
Carnelutti e Dante Ricci che fino all’ultimo avevano combattuto la dura
battaglia. Ad un certo momento Massimo Massai tese le braccia verso i suoi
avvocati e disse: “Mi avete salvato la vita”. La folla che si assiepava attorno
alla gabbia sentì quella frase ma, Con tutta probabilità, non riuscì ad
afferrarne il più vasto significato.
Il “romanzo dell’arsenico” cominciò la mattina del 16
maggio 1949 quando Massimo Tertulliano Massai tornava da una passeggiata nel
suo piccolo podere insieme con la seconda moglie, Margherita Targetti. Quando i
due coniugi furono in vista della casa, qualcuno li avvertì che c’erano due
signori ad aspettarli. Massai chiese ai due che cosa volessero e si sentì
rispondere che erano due agenti e che lo pregavano di seguirli al
commissariato. Pochi minuti dopo il commissario di Prato mostrava al Massai il
mandato di cattura notificandogli che era in stato di arresto.
La notizia che il commerciante era stato arrestato non
destò molta sorpresa nella città. Da diverso tempo correvano voci strane, si
parlava della morte di Dolores Macor, prima moglie del Massai, con aria di
mistero.
Dolores Macor era un’avvenente ragazza del goriziano che
durante la Prima Guerra Mondiale aveva incontrato Massai nelle terre liberate.
Subito dopo il conflitto Massai sposò la ragazza e la portò a Prato in una
casetta modesta dove, tuttavia, non mancava il necessario. Era una vita che
sarebbe potuta essere felice se dopo qualche anno Dolores non si fosse
ammalata. Da principio non sembrava una cosa grave, poi a poco a poco le sue condizioni
peggiorarono, una malattia ne portava dietro un’altra. Nei primi tempi usciva
da casa, continuava a sbrigare le faccende domestiche, poi si mise a letto, non
poté muoversi più.
Durante i tre processi gli avvocati della difesa non
hanno mai negato che il Massai, avendo la moglie in tali condizioni, avesse
avuto altre relazioni; tutti sapevano, per esempio, della sua relazione con
Margherita Targetti, una vedova assai bella, impiegata al Municipio di Prato.
Lo vedevano insieme con lei, e qualcuno, naturalmente, si era preso la briga di
andarlo anche a raccontare alla povera moglie.
Quando Dolores Macor morì, il 9 dicembre del 1948, si era
già creato in città il clima adatto all’atroce sospetto. Massimo Massai non
negava che il fatto che la sua prima moglie continuasse a vivere fosse un
ostacolo alla sua relazione con la bella vedova; durante il processo gli
avvocati sono arrivati ad ammettere che egli desiderasse la sua morte. Tra
questo desiderio, sia pure riprovevole, e l’avvelenamento, correva tuttavia un
enorme abisso. Così, il commerciante di Prato prese una decisione che fece
rimanere allibita l’intera città: Dolores era stata seppellita da appena dieci
giorni quando Massai andò a nozze con Margherita Targetti.
I due sposi si stabilirono nella casa di Prato, e le voci
che correvano sulla morte di Dolores sembravano destinate, pian piano, a
perdere consistenza; ma ecco che un certo giorno la magistratura ordina che la
salma della Macor venga riesumata. Che cosa era successo? Non erano stati i pettegolezzi
più o meno maligni dei pratesi ma un esposto contenente gravi accuse presentato
alla polizia dalla sorella di Dolores, Carmen, che risiedeva a Milano ed aveva
avuto con Dolores continui rapporti di corrispondenza.
E’ molto difficile giudicare, ora, quelle accuse. Carmen
Macor consegnò alla polizia alcune lettere. La sorella scriveva dal suo letto
di dolore frasi sconcertanti. Una lettera per esempio diceva: “Mi sta facendo
qualcosa che mi fa struggere piano piano come una candela”. L’allusione al
marito era chiara.
Carmen Macor divenne da quel momento la più spietata
accusatrice di suo cognato. Tutte le voci, tutte le testimonianze più o meno
autentiche sulle pretese “polverine” che il Massai aveva dato alla moglie
tornarono a galla. Quando cominciò il primo processo alla Corte d’Assise di
Firenze, l’aula del tribunale era impregnata di malefici, di cattive magie, di
polverine di tutti i colori.
Tutto questo però non apparteneva alla scienza: e i
giudici, viceversa, volevano che la scienza si pronunciasse. Il referto medico
sulla morte di Dolores Macor parlava di polmonite infettiva, tuttavia bisognava
fare un esame dei visceri. La necroscopia, prima, e poi la perizia sui visceri
furono affidate al Dott. Gilli e al Prof. Belucci; i risultati furono
sconcertanti. I due periti dissero ai giudici che avevano trovato nel corpo
della Macor quattro grammi di arsenico.
Era un giudizio impressionante. Un piccolo vaso
contenente la dose di arsenico rintracciata sulla salma di Dolores Macor rimase
da quel giorno sul banco dei giudici come un terribile, definitivo accusatore.
Inutilmente gli avvocati difensori fecero fare una perizia di parte e
sostennero la tesi che Dolores Macor aveva, di nascosto al marito, ingerito di
arsenico superiori a quelle prescritte e accennarono anche all’ipotesi di un
suicidio. Quando videro che la causa ormai era perduta ripiegarono sulla
seminfermità di mente dell’imputato. La Corte accettò la perizia psichiatrica e
invece che all’ergastolo condannò Massimo Massai a venti anni di reclusione. Fu
allora che il commerciante pratese affidò la sua difesa all’avvocato Carnelutti
e all’avvocato Ricci.
I due difensori si resero conto che solo la scienza
poteva riuscire a dimostrare ai giudici che il veleno assorbito da Dolores
Macor non era quello propinatole dolosamente dal marito ma quello che in
piccole dosi la malata prendeva da anni, contenuto nelle medicine.
Il capitolo
più interessante del “romanzo dell’arsenico” comincia dal giorno in cui
Carnelutti e Ricci affidano il compito di studiare il problema al professor
Pietro di Mattei, docente di farmacologia all’università di Roma. Non appena
avuto l’incarico, Di Mattei si mise subito al lavoro e scrisse una cinquantina
di pagine che costituiscono la sua relazione rivelatrice.
Anzitutto c’era da
osservare che l’arsenico non viene assorbito in ugual misura da tutti i visceri
ma ha, come tutti i farmaci, le sue sedi elettive, va cioè a depositarsi
principalmente nei reni, nelle capsule surrenali, nel fegato, nelle unghie e
nei capelli. Considerati quindi i visceri sottoposti all’esame, si poteva
concludere che la dose rintracciata non poteva essere superiore a diciassette
centigrammi, sufficiente comunque a uccidere una persona. Ma come Dolores Macor
aveva ricevuto questo veleno? La necroscopia affermava che tutto il tubo
digerente e anche gli intestini, tranne infinitesime tracce, erano esenti dalla
lesioni caratteristiche che l’arsenico provoca. Era evidente che il veleno non
era stato ingerito per bocca e ciò rendeva sempre più probabile l’ipotesi che esso
fosse penetrato attraverso le iniezioni a base di arseno-benzoli ordinate dai
medici.
Il punto, tuttavia, decisivo della relazione di Di Mattei
era quello che riguardava la “tesaurosi dell’arsenico”. La letteratura medica
corrente sosteneva che l’arsenico viene eliminato dal corpo umano in un breve
periodo di tempo. E i giudici affermavano: “Se questo è vero, vuol dire che i
diciassette centigrammi trovati nel cadavere della Macor sono stati propinati
pochi giorni o al massimo poche settimane prima della sua morte”. Il professor
Di Mattei affermava invece: “L’arsenico non si elimina con questa velocità: il
veleno, anzi, va a depositarsi in alcuni dei visceri e vi si accumula con le
conseguenze patologiche di una malattia cronica. Il veleno nella salma di
Dolores Macor fu trovato nel fegato, nei reni, nei capelli, nelle unghie: era
un lungo viaggio quello che aveva dovuto compiere per arrivare in questi
“depositi”. Il fatto che in un cadavere si trovi dell’arsenico non significa
che la persona sia stata avvelenata, non è, cioè, un corpo del reato”.
Agli avvocati difensori sembrò di avere in mano un’arma
formidabile e con questa arma si presentarono al processo d’appello di Perugia.
I giudici questa volta rimasero perplessi. La parte
civile presentava una perizia del prof. Leoncini di Firenze nella quale si
ripetevano suppergiù i concetti della prima perizia; la difesa portava la
relazione di Di Mattei. La Corte ordinò, da parte sua, una superperizia ai
professori Benassi, Businco e Bernardi (la superperizia che fu chiamata dei tre
“B”) la quale concluse con un dubbio drammatico: “L’arsenico nei visceri di
Dolores Macor c’è”, dissero i tre professori, “d’altra parte mancano nella
morte di questa donna tutti i sintomi di avvelenamento per arsenico. Il problema
è angoscioso: l’unica spiegazione potrebbe essere data da un accumulo di
arsenico nei visceri ma questo ancora non è stato provato dalla esperienza
clinica”. Era la tesi di Di Mattei, ma i superperiti dicevano al tribunale:
“Può essere vero, ma ancora non è stato provato”.
E i giudici, nel dubbio, confermarono la condanna a venti
anni.
Il processo di Perugia si svolse nell’inverno del 1953.
Dal giorno in cui fu pronunciata la sentenza, il prof. Di Mattei non ebbe più
pace. Egli sentiva che attraverso la sua teoria molte persone, e non soltanto
il Massai, avrebbero potuto aver salva la vita. Non riusciva a convincersi che
un uomo venisse condannato al carcere per un errore scientifico. Ebbe allora
un’idea geniale. Essendo presidente della Accademia medica di Roma indisse un
dibattito tra alcuni scienziati italiani sulla “tesaurosi dei farmaci” e in
particolare dell’arsenico, sulla capacità, cioè, che certi farmaci hanno di
depositarsi nel corpo umano per lunghissimi periodi. Alla seduta partecipavano
i più noti medici italiani, tra i quali Frugoni, Tommasi, Antonelli, Paterni,
Paolini. Ed ecco venir fuori, una per una, prove formidabili per i giudici del
processo Massai.
“Una donna di 50 anni era stata ricoverata con sintomi di
cirrosi epatica ed avvelenamento cronico da arsenico. Quattordici anni prima
aveva fatto cure regolari di liquore arsenicale”. “Una donna recava tracce di
arsenico nei capelli dopo tredici anni che aveva fatto una cura a base di
arseno-benzoli”. Non c’era bisogno di altro.
Gli avvocati ricorsero in Cassazione e la suprema Corte
decise che il processo dovesse essere rifatto alla Corte d’Assise di Roma.
Negli stessi giorni in cui venne presa questa decisione, in Francia una donna,
Marie Besnard, lottava contro l’imputazione di avere ucciso col veleno alcune
persone.
Si era ad una svolta storica nei processi per veneficio.
Massimo Massai, che ha vissuto questi primi giorni di libertà nella sua casa di
Prato, poteva essere condannato all’ergastolo se uno scienziato appoggiato da
due avvocati valorosi non avesse difeso la sua causa. Egli pensa ora di
adottare Franca, la figlia di prime nozze di Margherita Targetti: la lasciò
bambina quando sei anni fa entrò in carcere e la ritrova una signorina. Non ha
un soldo, ma pensa di ricostruirsi una vita facendo il viaggiatore di
commercio. E’ la prima volta che un uomo accusato di un delitto infamante deve
essere riconoscente ad uno scienziato quasi più che ai suoi avvocati difensori.
(articolo di Giorgio Gigli da “Oggi” n. 6 del 10 febbraio
1955)
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