Il nome di Torino,
in questi giorni, fa il giro del mondo: lo riportano settimanali e quotidiani
d’Europa e d’America, lo citano emittenti radio: di Torino non si è mai parlato
tanto, nemmeno in autunno in occasione del Salone dell’Automobile. A questo
nome se ne associa un altro: quello di Diabolich,
l’assassino fantasma.
Oggi ha già
raccontato ai suoi lettori, nel numero 11 del 13 marzo scorso, l’inizio di
questa clamorosa e drammatica vicenda: l’omicidio di Mario
Giliberti, un giovane di 27 anni, originario di Lucera (Foggia) che fu
trovato morto la sera del 25 febbraio scorso nella sua stanzetta in via Fontanesi 20, trafitto da una quindicina di
colpi d’arma da taglio e punta.
Si è detto Diabolich,
assassino fantasma. Sull’atmosfera di Torino in questi giorni grava la psicosi
del delitto che un pazzo omicida può
commettere da un momento all’altro contro chiunque. L’assassino o il presunto
assassino scrive lettere a un giornale cittadino promettendo altri delitti
perfetti. Dice: “Vi rendo noto che senza fallo
un secondo intervento farà la mia lama…” oppure “Un altro amico cadrà…” Diabolich è uno
spettro che però ha carne e ossa, penna e carta per scrivere, un trincetto per
uccidere, e degli amici. Ma tutti hanno degli amici e Diabolich può essere uno di quelli. Si è
creata così un’atmosfera che non è lontana da quella che Clouzot ha portato tante volte sullo
schermo.
Ci si è ricordati anche dell’incubo delle bombe nelle scatole da scarpe che terrorizzò più
volte New York dal 1940 fino all’inizio dello scorso anno: il pazzo
dinamitardo, identificato poi in George Meteski,
depositava di tanto in tanto nei più disparati posti della città, quasi sempre
locali pubblici, i suoi ordigni esplosivi.
Ogni torinese passa in questi giorni in rassegna i
propri amici, fa per ognuno di essi un esame di coscienza, si chiede se gli ha
mai fatto dei torti, prova ad immaginarlo armato di trincetto mentre avanza
alle sue spalle, pensa di trovarselo davanti, sulle scale, di notte, mentre
rincasa.
I primi a dare il segno di questo panico diffuso sono
gli isterici, gli ipersensibili, gli emotivi. La mattina di giovedì 13 marzo –
il giorno che era stato indicato da Diabolich
per un suo delitto – una signora telefonò alla Volante con voce concitata: “Per carità, correte in corso Regio Parco 32, mio marito è
stato ucciso da Diabolich”.
La polizia si precipitò, sfondò la porta dell’alloggio
che le era stato indicato, trovò l’ingresso deserto: la maniglia della porta di una stanza venne mossa energicamente
dall’interno. L’uscio era chiuso a chiave dal di fuori, gli agenti l’aprirono e
si trovarono davanti il marito della donna
che aveva telefonato. Era rosso in viso per la collera: sua moglie, uscendo per
la spesa, lo aveva inavvertitamente chiuso dentro alla stanza, poi si era
ricordata di qualche cosa che doveva dirgli e gli aveva telefonato: ma lui non
poteva rispondere e lei aveva pensato subito che lo avesse ucciso Diabolich.
Alle 14 dello stesso giorno un commesso si presentò in
questura a riferire che la sera innanzi,
alle 21, mentre transitava sul ponte che scavalca la Dora in fondo a via
Fontanesi, la strada del delitto, aveva visto due uomini scendere da una “1400”
e gettare con circospezione un pacco o una cassetta in acqua. Vigili del fuoco
e agenti di polizia scandagliarono il fiume
fino a notte inoltrata, ripresero le ricerche – sempre inutilmente – l’indomani
mattina, mentre sulle rive si assiepava una folla inquieta e ansiosa.
Sono due episodi scelti a caso fra i tanti che si
offrono in questi giorni di tensione, di
sospetto. La psicosi generale ricevette un ulteriore vigoroso impulso, per una
strana coincidenza, nella serata dello stesso g giorno indicato dall’assassino per il suo nuovo delitto.
In via Bertola 4, uno stabile centralissimo, proprio
di fronte alla sede del giornale al quale Diabolich
invia le sue missive, ci sono al quarto piano i locali che un’agenzia
giornalistica ha lasciato liberi da circa un mese e mezzo. Alle 19.30 un
falegname e un fattorino si erano recati in uno sgabuzzino di quell’appartamento per ritirare quel poco che vi avevano
lasciato gli occupanti. L’uscio era chiuso dall’esterno con una sbarra legata
alla maniglia con filo di ferro e fermata allo stipite con chiodi
ricurvi.
Quando i due l’aprirono si trovarono davanti uno
spettacolo raccapricciante: un uomo giaceva
sul pavimento con gli occhi stravolti.
Il falegname e il fattorino si precipitarono in
strada, corsero a cercare un agente, lui telefonò alla polizia. Arrivarono
ululando le camionette della Volante, la
folla accorse, si ammassò nella strada: “Ma
allora”, dicevano le voci, “ha
proprio mantenuto la promessa”. La notizia si diffuse, fece il giro
della città in pochi minuti, il centralino della questura e quello del giornale
vennero tempestati di telefonate: “È vero che Diabolich
ha ucciso un altro uomo?”, “Diabolich è stato arrestato?”, “Chi è Diabolich?”
Non conta se nel giorno successivo a quello del
rinvenimento del cadavere di via Bertola la polizia precisò che il defunto era
un “barbone”, un tal Giuseppe Gavosto di 57
anni da Crescentino, che la sua morte risaliva ad un mese prima e che era stata
determinata da crisi cardiaca, che l’uscio
era stato chiuso dall’esterno da qualcuno il quale non si era accorto della sua
presenza nel locale; che, infine, per tutte queste circostanze si poteva con
sicurezza escludere nell’episodio dell’intervento di Diabolich.
Il nome del fantomatico
assassino galoppava nella fantasia dei torinesi, diventando il simbolo
del mistero e della minaccia nascosta, onnipresente.
Il pubblico dimenticò persino che, per la polizia, il
presunto assassino era in carcere dal primo marzo. Si tratta di un giovane
bergamasco, Aldo Cugini di 24 anni, figlio
di un commerciante in materiale da costruzione. Ex compagno d’armi di Mario Giliberti, la vittima, aveva mantenuto con
lui rapporti di amicizia. I due si erano scritti, Giliberti era andato un paio
di volte a Bergamo a fargli visita. Le indagini hanno portato alla pista bergamasca perché tra le carte trovate nella
stanza dell’assassinato c’era anche una fotografia raffigurante i due amici,
con dedica del Cugini.
L’ordine di cattura spiccato per il giovane bergamasco
è così motivato: “… in quanto sussiste pressoché
assoluta corrispondenza fra la grafia dell’imputato e la grafia di colui che
mandò ad un giornale della città la lettera in cui si dichiarava autore del
delitto”. Alla luce degli ultimi avvenimenti sembra però che Aldo
Cugini non abbia proprio nulla a che fare con Diabolich.
Quella prima lettera, firmata Diabolich, era certo dell’assassino perché
egli la spedì almeno dodici ore prima che il cadavere del Giliberti fosse
trovato e in essa era indicato, mediante un acrostico, il luogo preciso del
delitto. Ma Diabolich ha continuato a
scrivere, anche dopo che il presunto assassino era in carcere, adoperando il
solito metodo dei rebus con le lettere alfabetiche.
Dice la prima missiva giunta al giornale dopo
l’incarcerazione del Cugini: “Vi rendo noto che
senza fallo un secondo intervento farà la mia lama su un altro se non verrà
subito pubblicato articolo riabilitante amico ingiustamente sospettato. Ogni
dubbio cadrà quando vi accorgerete ch’io vi do scacco e al giovedì mantengo
particolarmente promesse fatte al mio prossimo”.
Con l’ultima parola di ogni riga si può comporre la
frase: “Un altro amico cadrà giovedì prossimo”.
La lettera si concludeva con un anagramma: “Sievi
avari amori tita” che tradotto
risulta: “Via Maria Vittoria sei”.
Gli agenti corsero a questo indirizzo, indagarono, non trovarono nulla di
anormale ma, per sicurezza, presidiarono il palazzo. L’atmosfera di paura si diffuse sempre più.
Le lettere, del resto, hanno continuato ad arrivare
regolarmente alla redazione del giornale. Un anagramma dice: “Attenzione, non incolpate Aldo, lui non sa amare come io
amo e non saprebbe uccidere come uccido io”. Al fondo di un’altra
missiva, arrivata sabato 15 marzo, vi sono due gruppi di lettere:
“etturoomlisedispaiseegalonsasènemteiolec” e “ducomiroernnclolveiuamiiclanhodaece”
Nessuno è riuscito ad anagrammarli in modo compiuto e
intelligibile, gli appassionati d’enigmistica
vi si sono gettati con fervore. Anche chi non ha mai giocato con le parole è
tentato: ritaglia tanti pezzetti di carta quante sono le lettere alfabetiche,
ne scrive una su ogni pezzetto e prova a comporre parole. Conseguenza:
un’ondata di telefonate alla polizia e al giornale da parte di persone che
credono di aver risolto il rebus e declamano
con voce pomposa stranissime parole senza senso.
C’è anche chi telefona allarmato e chiede la
protezione della polizia. “E perché?” “Perché io
sono Eliseo Lesseri”. “E con questo?”, “Ma come, non avete decifrato il primo
gruppo di lettere? Significa: Eliseo Lesseri, aspetti molto sangue domenica. Mi
avanza una “e” ma io ho paura lo stesso”.
Che probabilità ci sono che le lettere seguite alla
prima siano autentiche? Quella è in carattere corsivo,
queste sono in maiuscolo stampatello: ma fra
tutte c’è realmente qualche affinità.
Le hanno esaminate tre periti torinesi iscritti
nell’albo dei consulenti tecnici del tribunale. Tutti, dopo avere premesso che
soltanto una lunga perizia basata anche su
micrografie può consentire un giudizio sicuro, si sono trovati concordi nel
dire che gli scritti rivelano molte analogie e possono essere della stessa mano.
Uno dei tre, il prof. Bino Benini, così ha concluso il
suo motivato parere: “Gli accertamenti
dimostrati in forma visiva dalla comparazione, unitamente alle considerazioni
di carattere generale, legittimano altrettanti indizi che inducono a ritenere
non improbabile che le missive messe a confronto provengano da una stessa
funzionalità grafica”.
Domenica 16 marzo, però, fra la corrispondenza che il
giornale ritira alla posta è stata ancora ritrovata una lettera firmata Diabolich, simile alla prima in modo più
palese delle altre. Anche la calligrafia è in corsivo, come quella della missiva che dette l’avvio all’ingarbugliata
vicenda, mentre il tenore del testo sembra convalidare la nuova ipotesi che
questa sia la vera mano dell’assassino, sebbene si finga “l’amica di Diabolich”.
Così inizia infatti lo scritto: “Vi parla l’amica di Diabolich. Il primo foglio fu
spedito da me e non d Diabolich, e per lui torno a scrivere. Diabolich dichiara
che nessun delitto sarà compiuto, dato che il suo è stata una vendetta e non un
gioco da ripetersi…”. Dopo aver criticato polizia, giornalisti e
periti che non hanno capito la differenza degli scritti, conclude dicendo che
scrive come la prima volta, “con stessa carta
carbone, con stesso lapis”. E afferma: “Questa
è l’ultima. Mai più scriverò. A voi domani”.
Sarà vera questa lettera? Da questo interrogativo
dipende evidentemente la soluzione dell’enigma
e anche la sorte di un uomo – il Cugini – incarcerato sotto una gravissima imputazione.
Articolo di Giovanni Premoli da "Oggi" n. 13 del 27 marzo 1958
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