La storia di Diabolich
era destinata a rimanere un mistero.
Nella stanza in cui il Giliberti viveva fu trovata,
come già detto, una fotografia scattata a Bergamo nel gennaio 1956 che lo
ritraeva in compagnia di un commilitone bergamasco, tale Aldo Cugini, e riportava una dedica scritta da
quest’ultimo. Le perizie calligrafiche stabilirono che fra la scrittura del
Cugini e quella delle lettere di Diabolich
c’era una notevole affinità; il Cugini quindi fu fermato, trasferito alla
Questura di Torino e sottoposto ad un interrogatorio durato 36 ore.
Il giovane aveva potuto dimostrare che, il giorno in
cui Giliberti era stato assassinato, lui si trovava a
Orzinuovi per affari (lavorava come rappresentante per l’azienda del
padre, un commerciante di materiali edili) e le indagini subito svolte presso i
suoi clienti avevano confermato la veridicità delle sue affermazioni; era
rincasato alle 17 e si era recato a far visita alla fidanzata
che abitava a Bergamo.
Anche per l’altra giornata sulla quale si appuntava
l’attenzione della polizia Cugini aveva un alibi perfetto: si trovava a Vercelli da un suo cliente, che ovviamente
confermò tutto.
Queste prove avrebbero dovuto farlo scarcerare
immediatamente, ma non fu così. Gli inquirenti sostenevano che gli altri
biglietti, quelli con i giochi enigmistici,
li aveva scritti lui in carcere, facendoli spedire poi da qualcuno non si sa
come.
La polizia sosteneva che il Cugini fosse stato visto a
Torino nei giorni del delitto, e il giovane fu messo a confronto con tre testimoni.
Uno di questi, davanti a lui, confermò di averlo visto
passare sotto i portici di Porta Nuova, cioè
in uno dei punti di maggior transito pedonale della città. L’avvocato del
Cugini, presente al confronto, gli chiese: “Ma
lei lo aveva visto altre volte in precedenza?” “No,” fu la risposta, “era la prima volta”. “E
lei, guardando la fotografia di uno sconosciuto,” ribatté l’avvocato, “è sicuro che lo vide in un determinato giorno fra
migliaia di altri passanti sconosciuti?”. L’uomo rimase esitante, poi
disse. “Mi sembra di averlo visto, ma posso anche
sbagliarmi”.
Il secondo testimone riteneva che Cugini fosse seduto
al suo fianco nella platea del cinema Ideal; il terzo l’aveva visto – secondo
lui – al mercato di Porta Palazzo.
Poiché il giudice istruttore aveva respinto la domanda
di scarcerazione, gli avvocati del Cugini
tentarono la via del ricorso, che rese necessaria una controperizia di parte.
Il perito scelto dai difensori contraddisse ogni affermazione dei consulenti
del tribunale, dimostrando che centinaia di giovani scrivevano come lui
scriveva, per cui anche la loro calligrafia poteva essere scambiata per quella
di Diabolich.
L’avvocato generale della Procura,
esaminando i motivi del ricorso, concluse che non si poteva tenere un uomo in
stato di detenzione soltanto per una rassomiglianza di calligrafie, e Cugini fu
scarcerato.
Perché ci si accanì
così tanto su Cugini?
Si parlò, all’epoca, di una “amicizia particolare” tra lui e Giliberti (sospetto non
suffragato, a quanto pare, da nessuna prova), come se una fotografia con
dedica, scattata, oltretutto, dalla fidanzata
del Cugini, fosse stata sufficiente a suscitare simili sospetti; possiamo anche
immaginare che la pressione dell’opinione pubblica, della psicosi che si era
creata a Torino intorno alla figura
dell’assassino misterioso, abbia forzato la mano della polizia spingendola a
trovare un colpevole ad ogni costo.
Il delitto di via Fontanesi 20 rimane
tuttora impunito.
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