I funzionari della questura di Torino hanno avuto l’ordine di leggere un libro giallo. Si
tratta di uno dei tanti romanzi economici che si possono acquistare a poco
prezzo nelle edicole: reca il titolo Uccidevano
di notte e narra, tra l’altro, le imprese di un certo Diabolic autore di una catena di delitti perfetti.
In questura lo hanno letto tutti con la massima attenzione: è stato infatti
accertato che al romanzo si ispira uno dei due misteriosi omicidi che, nel
corso di 24 ore, hanno posto la polizia torinese di fronte a una serie di
delicati problemi.
Uno dei due omicidi, il cosiddetto “delitto del cianuro”, è stato risolto in
breve tempo: un operaio della RIV, Vittorio Sanloran, era rimasto vittima di un
tragico scherzo, opera di alcuni suoi colleghi che incoscientemente avevano
avvelenato la sua bottiglia d’acqua con mezzo grammo di cianuro, pensando forse che una dose così piccola di veleno
fosse sufficiente a causargli un mal di pancia e nient’altro.
Molto diverso è l’altro delitto, quello ispirato al
romanzo giallo: qui si ha veramente l’impressione di vivere in un’atmosfera
allucinante, da romanzo poliziesco.
Gli avvenimenti, così come si sono succeduti,
potrebbero costituire la trama di un film.
Lunedì 24 febbraio la redazione di un quotidiano
torinese ricevette una strana telefonata. Una voce d’uomo, un po’ rauca e con
accento non piemontese, chiedeva di parlare “con
il direttore o con un’altra persona molto importante”. Quando
finalmente gli passarono un cronista disse: “Ho
ucciso uno in via del Po”. “Dove, dove?”
chiese il cronista. “Vicino al Po, cercate e
troverete il cadavere”, rispose l’uomo e troncò la comunicazione. La
polizia, avvertita, svolse subito indagini nella zona del Po, i vigili del
fuoco dragarono il fiume e nel corso delle ricerche scoprirono in corpo di un
bambino annegato alcuni giorni prima.
Il cadavere di un uomo assassinato
fu rinvenuto invece la sera di mercoledì al pianterreno di uno stabile
di via Fontanesi 20, poco distante dal fiume: il corpo era quello del
ventisettenne Mario Giliberti, un
meridionale trasferitosi da poco più di un anno a Torino dove aveva trovato
lavoro come operaio alla Fiat.
Giovedì mattina alla polizia e al quotidiano che aveva
ricevuto la misteriosa telefonata pervennero due copie di una lettera scritta a
mano in stampatello. Diceva:
“Caro Ispettore, (Caro Direttore nella copia inviata
al giornale)
Sono venuto da lontano per via
di compiere il mio delitto, da non confon-
dersi con uno qualsiasi. Ho studiato la
cosa perfetta
in modo da non lasciare traccia ne-
anche di un ago. Con il delitto è
cessato insi-
eme l’odio per lui. Questa sera parto,
ore 20.
Un tempo io e la vittima eravamo molto
amici e portavamo la divisa insieme. Poi lui mi tradì come fossi un cane. Oggi
stava bene, così la mia vendetta lo ha raggiunto. Spero che scoprirete il suo
cadavere prima che diventi marcio. Leggendo attentamente troverete con
precisione dove è stato compiuto il mio delitto perfetto”.
La lettera recava la firma Diabolich
e risultava spedita martedì, almeno dodici ore prima che venisse scoperto il
delitto. Leggendo le ultime sillabe delle prime sei righe si otteneva
l’indicazione esatta del luogo in cui era stato rinvenuto il cadavere del Giliberti: il mittente non poteva essere che
l’assassino.
Sabato 1 marzo, la stessa voce rauca telefonava alla
redazione del giornale. “Sono quello che sapete”,
diceva. “State attenti a quello che pubblicate,
se no…”. La minaccia era più che palese. Nel frattempo infatti la
polizia e i giornali avevano scoperto il romanzo di Diabolic
che a parte l’aggiunta di una “h” finale
sembrava riprodurre tali e quali i movimenti dell’assassino di via Fontanesi, e
avevano tratto dalla lettura del libro più di una utile deduzione.
Nel romanzo c’era tutto: le circostanze del delitto,
la scelta dell’arma, la telefonata al giornale e perfino una parte del testo
della lettera. Era un’esperienza nuova per la polizia, tanto più che, come ha
dichiarato un funzionario della questura, i libri e i film ispirano spesso i
ladri e i rapinatori ma quasi mai gli assassini.
Le indagini dei giorni successivi rivelarono nuove,
sorprendenti analogie. Mario Giliberti era
stato rinvenuto cadavere nella sua abitazione (un ex negozio con retrobottega
cedutogli da uno zio calzolaio) sdraiato sul letto e avvolto in un lenzuolo,
due coperte e un pastrano. Un lembo del lenzuolo insanguinato era stato
conficcato nella bocca della vittima, come se l’assassino
avesse voluto soffocarla. Sul corpo si notavano undici ferite da arma da
taglio, probabilmente un trincetto da calzolaio, rinvenuto dall’assassino fra
gli arnesi abbandonati nell’ex negozio.
L’idea di utilizzare un’arma trovata sul luogo
apparteneva al romanzo, dal quale era stata tratta anche un’altra trovata del
criminale: quella di usare un foglio di carta proveniente dall’abitazione del
Giliberti per scrivere un biglietto di scherno: “Riuscirete
a trovare l’assassino?”.
Ma c’era dell’altro: il protagonista di Uccidevano di notte telefonava con voce
contraffatta: l’uomo che aveva chiamato la redazione del giornale torinese dava
appunto l’impressione di parlare con voce alterata. Diabolic
usava per le sue lettere-sfida una carta carbone colore viola e viola era
quella adoperata dal suo emulo.
Nel romanzo, infine, il delitto veniva scoperto dopo
due settimane; nel caso di via Fontanesi la
perizia necroscopica aveva stabilito che la morte del Giliberti doveva risalire
a una decina di giorni, o più precisamente, stando alle informazioni raccolte,
alla notte del 14 febbraio quando il giovane era stato visto per l’ultima volta
vivo. Era logico dunque supporre che anche i dati forniti dall’assassino nella
sua lettera rientrassero nello schema del romanzo, dove a un certo punto si
leggeva: “Mia preoccupazione sarà di preordinare
gli indizi, di precostituire circostanze che vi indurranno a seguire false
piste”.
La polizia però non si accontentò di queste deduzioni.
Gli ex-commilitoni del Giliberti (che si era
raffermato sei anni, congedandosi poi con il grado di sergente) furono
ricercati a uno a uno: si svolsero indagini sui parenti della vittima residenti a Torino, si interrogarono i
suoi amici, uno dei quali, Angelo Capelli detto Piero, aveva lasciato sotto la
porta del Giliberti un biglietto in cui lo invitava a farsi
vivo.
Un’inchiesta fu svolta anche sulla fidanzata della
vittima, una ragazza di 24 anni che abita a Lodi. Una perizia calligrafica fu
eseguita sulla lettera di Diabolich,
che aveva commesso l’errore di aggiungere, con grafia normale, una postilla al
testo vergato in stampatello.
Le indagini sul Giliberti furono ostacolate dalla
personalità della vittima e dal carattere dell’ambiente che frequentava. Come
il Sanloran, Mario Giliberti era un uomo
taciturno, che viveva appartato, non faceva facilmente amicizia, non si
confidava mai con nessuno. I precedenti dei suoi familiari e conoscenti erano
ottimi: tutta gente onesta, stimata, superiore a ogni sospetto. Lo stesso
Giliberti era noto come un giovane onesto, parsimonioso e lavoratore. Le
informazioni fornite dalle autorità militari e dai suoi datori di lavoro erano eccellenti.
La sua vita sembrava essere trascorsa nella più
perfetta normalità: poche settimane prima di morire, Mario aveva scritto alla
fidanzata dicendole che sarebbe stato felice di sposarla e che desiderava,
anzi, anticipare la data delle nozze.
Nessuno screzio aveva turbato i rapporti tra i due giovani.
Per alcuni giorni le indagini seguirono piste
occasionali. Qualcuno aveva visto una donna bussare
alla porta del Giliberti: la ragazza fu rintracciata, ma risultò del tutto
estranea al delitto. Due uomini dichiararono di aver udito, passando la sera
del 14 febbraio davanti allo stabile di via Fontanesi, un grido di aiuto
rivolto ad un certo Valerio. La polizia
scoprì tra i conoscenti del Giliberti un giovane che si chiamava Valerio e lo interrogò, anche questa volta senza
risultati.
Si tentò perfino di usare le tracce costituite da due
tazzine da caffè trovate nella stanza del morto e dal primo biglietto-sfida, che secondo le deduzioni tratte
da una serie di analisi chimiche (la carta non rivelava tracce di sangue o di
umidità e quindi doveva essere stata maneggiata da una persona con le mani
pulite, ma non lavate di fresco) faceva supporre un ritorno dell’assassino sul luogo del delitto. Ma tutto fu
inutile.
Finalmente, domenica, si poté compiere un passo
avanti: in base alle perizie grafologiche la polizia fermò il ventisettenne Aldo Cugini, un ex compagno d’armi del Giliberti,
attualmente residente a Bergamo. Il Cugini ha negato ogni addebito, ma la sua
scrittura (che secondo gli esperti rivela “sorprendenti
somiglianze” con quella di Diabolich)
sembra indiziarlo. D’altra parte molti degli interrogativi legati al delitto
rimangono tuttora senza risposta.
È stato appurato ad esempio che Mario Giliberti fu ucciso mentre dormiva, da
persona che conosceva non solo le sue abitudini, ma anche la disposizione della
sua casa, ed è stato accertato inoltre che dalla stanza del morto sono
scomparse due sveglie, un orologio di metallo, un bracciale d’oro e una somma
di denaro che dovrebbe aggirarsi intorno alle 20.000
lire; in più l’assassino ha strappato alcuni buoni fruttiferi postali
che ovviamente non avrebbe potuto riscuotere.
Si tratta dunque di un omicidio commesso a scopo di rapina, e poi presentato come una vendetta per stornare i sospetti, oppure ci
troviamo di fronte ad un delitto per vendetta “camuffato” da rapina?
Nel primo caso è difficile immaginare che il Cugini, appartenente a una famiglia benestante,
abbia compiuto il viaggio da Bergamo Torino per derubare un amico molto più
povero di lui e comunque troppo risparmiatore per tenere in casa grosse somme
di denaro liquido. Nel secondo caso rimane da stabilire quale motivo di odio o di rancore
potesse esistere fra il Giliberti e il Cugini.
In ambedue i casi la logica sembra dunque scagionare
il Cugini, che tra l’altro ha presentato un alibi
apparentemente valido. E allora?
Sotto questo aspetto la personalità del Giliberti –
che non parlava mai di sé e non salutava i vicini di casa, ma intratteneva rapporti epistolari con parecchie persone e aveva
amici lontani che gli inviavano fotografie con dedica – rappresenta l’ostacolo
maggiore.
Nel passato di Giliberti tutto sembra limpido e chiaro,
eppure tutto, ad un certo punto, assume un’aria stranamente misteriosa. Ed è poco probabile che si riesca a
scoprire che cosa c’è dietro questa cortina di riservatezza: se esiste un segreto, Mario Giliberti deve averlo portato con
sé nella tomba.
Articolo di Giovanni Cavallotti da "Oggi" n. 11 del 13/3/1958
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