lunedì 24 settembre 2018

IL "MARESCIALLO FOLLE DI ANCONA" - 2


 “Me l’hanno fatto impazzire”, dice a bassa voce la signora Gianna Cannarozzo mentre piangendo avvicina alle labbra una piccola fotografia di suo marito, una sorridente immagine dei giorni felici quando, in un tempo che le sembra ormai così remoto, anche la sua famiglia aveva una casa.

Esile, con un viso dai lineamenti infantili e minuti (ha trentaquattro anni ma ne dimostra almeno dieci di meno), la signora Gianna Cannarozzo nasconde sotto una fragile apparenza una forza e un coraggio che stupiscono chi l’avvicina. Da lunedì 17 gennaio si è chiusa per lei la prima parte della tragedia che ha sconvolto la sua esistenza, una delle più spaventose che possano travolgere una donna. Quel giorno tornavano in Ancona suo fratello Venturino Sorana e Paolo e Alberto Cannarozzo, i fratelli di suo marito.

Venivano da Portogruaro dove, la mattina precedente, avevano accompagnato Michele alla sua ultima dimora, presa in affitto per sei mesi, misera e provvisoria come tutte quelle che l’avevano ospitato durante la vita: la tomba contrassegnata dal numero 83. “Avete baciato Linuccio per me? Avete messo nella sua bara le fotografie dei nostri bambini?” chiedeva singhiozzando Gianna Cannarozzo. Si era alzata dal letto dove ininterrottamente, appoggiata con dignitosa fierezza ai cuscini, aveva ascoltato negli ultimi giorni le parole di conforto di amici, parenti e giornalisti. Era l’unica stanza in cui aveva potuto riceverli, la sola in cui ci fosse un po’ di spazio almeno per qualche sedia (le altre tre, compresa la cucina, sono tutte ingombre di letti e divani).

La vedova di Michele Cannarozzo, del “sognatore di una casa terrena” come lui stesso si definì nel suo famoso “memoriale”, ha rasentato per qualche ora l’orlo pauroso della follia. Fu la sera del 13 scorso quando brutalmente, aprendo la radio, apprese che suo marito si era ucciso a Caorle. Da allora il comune di Ancona le ha tolto l’uso del gas per impedire che un’altra vittima possa aggiungersi a quelle della tragica domenica del 9 gennaio. Ma, superato il pericolo dello smarrimento, la signora Gianna è già entrata con lucida fermezza nella seconda parte del suo dramma, forse la più difficile. 

Rimasta sola, priva di mezzi (se avrà una pensione, essa – si prevede – non supererà le dodici-tredicimila lire), vuole comunque tradurre in realtà il sogno che ha condotto il suo Linuccio alla follia: dare ai suoi figli una casa. E’ la sola speranza che l’aiuta a vivere ancora. “Robertino”, dice, “aveva soltanto due mesi quando scendemmo qua sotto. Adesso ha dodici anni”.

Dodici anni trascorsi nel sottosuolo di via Maratta 31. Destinato all’uso di cantina per gli inquilini del modesto palazzo (vi passano ancora i tubi di scarico) ma adibito ad abitazione, esso ospitava, prima della famiglia del “maresciallo folle di Ancona” una maestra di pianoforte. C’era la guerra e le era sembrata una fortuna riuscire a trovare un alloggio. Ma un giorno le sue vicine la sentirono urlare, la sua voce esasperata saliva dal fondo dello scantinato: gridava che non avrebbe potuto resistere, in quella casa, neppure un altro giorno. “Sentite?”, diceva, “sentite il pianoforte? Non si è messo a suonare da solo, stanno accordandolo i topi”.

La sfortunata inquilina lasciò ben presto il sotterraneo, ma i topi gli sono rimasti fedeli. Uno di essi ha continuato le sue acrobazie sopra una rete metallica, nella stanza da letto della signora Gianna, anche nei tristissimi giorni in cui, lontano centinaia di chilometri, diviso da lei ormai per sempre, Michele Cannarozzo cercava di calmare nella pace della morte l’orribile tumulto della sua mente.

Anche nel 1942 quando, accettando l’ospitalità dei suoi genitori, la signora entrò nel triste scantinato di via Maratta, non aveva Linuccio accanto a sé. La guerra li aveva separati obbligandoli ad abbandonare la casa di Caorle dov’erano stati felici: la loro prima casa di sposi, quattro locali pieni di sole, con le finestre che guardavano sul lungomare. Era già nata Paola, che adesso ha quindici anni, e il loro accordo era perfetto. Lo è sempre stato fino all’ultimo giorno, affermano concordi le sue cognate e tutte le sue vicine, fino alla notte del 9 gennaio, a quella domenica che era stata simile a tutte le altre, con la messa delle dieci nella chiesa del Sacro Cuore, il pranzo più abbondante e la piccola sorpresa festiva di Michele: i cioccolatini per i figli, un mazzetto di fiori per la moglie.

Quando il futuro attentatore del cinema Metropolitan di Ancona era tornato dalla guerra, portava sulla divisa le stellette del valore. Erano il riconoscimento, diceva il diploma che le accompagnava, di un’eroica impresa: dopo l’armistizio, a bordo di una motolancia, era riuscito ad attraversare tutto l’Adriatico e aveva raggiunto Bari per sfuggire ai tedeschi, mettendo in salvo tutti i suoi uomini. La casa di Caorle era ormai perduta per lui, altri l’avevano occupata. Ma il maresciallo Cannarozzo era convinto che ben presto gli avrebbero dato un’altra abitazione: aveva perduto la casa, spiegava, per andare a combattere, a compiere cioè il suo dovere.

Nello scantinato di via Maratta il maresciallo di finanza Michele Cannarozzo portò tutto quello che possedeva: qualche libro, molti ricordi di guerra e la sua camera nuziale, coi mobili di Cantù in radica chiara (per riaverli, lui e Gianna avevano dovuto tornare nel Veneto e acquistarli di nuovo uno per uno: il nuovo proprietario della casa di Caorle li aveva già rivenduti). “Ci staremo per pochi mesi”, ripeteva a sua moglie. Sua suocera e suo suocero, Enrico Sorana, divisero con loro i locali e l’affitto: cinquemila lire i coniugi Sorana, diecimila la famiglia Cannarozzo: molti per uno stipendio che non arrivava alle cinquantamila

Poi, nel ’45, altri due inquilini – marito e moglie – vennero a inasprire le sofferenze di quella difficile coabitazione. I due nuovi arrivati cucinavano in cortile con un fornello a carbone, proprio a ridosso delle finestre del seminterrato che fittissime reti metalliche proteggono tuttora dall’invasione delle pantegane (i grossi topi delle fognature). Per molte ore della giornata il fumo invadeva le stanze della famiglia Cannarozzo, finché ci fu una violenta scenata, la prima ribellione del maresciallo contro la casa di via Maratta.

Ma il fumo rimase, denso e prepotente. Veniva adesso da un forno (esiste tuttora) situato in fondo al cortile. Funziona giorno e notte, con poche ore d’intervallo e un incessante stridore, come di marmo raschiato. Un maresciallo della finanza marina ha bisogno d’impeccabili camicie e, d’estate, di candide divise; per salvarle sua moglie fu costretta a stenderle in casa.

Piccoli drammi di ogni giorno inevitabili nell’esistenza dei coabitanti. Ce ne sono ancora moltissimi ad Ancona, una città dove i bombardamenti hanno risparmiato i quartieri alti, colpendo inesorabilmente quasi tutte le case modeste. Ogni volta che sorge un palazzo, che si profila la possibilità dell’assegnazione di alloggi nei quartieri bassi di Ancona, intorno all’argomento si accendono appassionate discussioni: se ne parla nei caffè, nei negozi: speranza e delusione si alternano ogni volta nell’animo dei diseredati.

Anche Michele Cannarozzo sperò più volte e più volte fu deluso. Negli ultimi anni l’ulcera e l’artrite l’avevano reso insofferente, impedendogli inoltre di battere il mare con la motovedetta alla caccia dei contrabbandieri. Il suo stipendio, di conseguenza, era diminuito: diciottomila lire ogni mese. 

Restava chiuso tutto il giorno in ufficio: la notte lo stridore del forno gli sembrava insopportabile e ogni mattina, mentre si lavava nello stanzino privo di bagno che da’ sulla strada, rimaneva a fissare assorto al di là della finestra, che è al livello del marciapiede, i cani che si fermavano presso le sbarre e le scarpe di tutti i passanti, rapide o lente, lucide o polverose. Era incominciata l’ossessione che avrebbe fatto di lui “L’assassino di Ancona”.


Il resto è noto. Quando due anni fa s’illuse di poter ottenere un appartamento “a riscatto” nelle case popolari di Via Baracca, Paola (la figlia maggiore) era già adolescente, ma continuava a dormire nella medesima camera con il fratello e la nonna. Il padre soffriva per questa promiscuità: gli dispiaceva anche che Paola non potesse mai invitare qualche compagna di scuola, che Robertino fosse costretto, come lei, a studiare sopra una cassa in anticamera, accanto al divano dove dorme un altro ospite del seminterrato: Federico, un nipotino che ha dodici anni.

Michele Cannarozzo era convinto che, questa volta, avrebbe avuto l’appartamento. “Me l’hanno promesso” confidò una volta a Tanina, la sorella maggiore. L’aveva rivista a Messina in una triste circostanza: la morte della madre avvenuta nel luglio del ’53. “Allora potrò finalmente invitarti a casa mia”. Anche Tanina fu sicura che Linuccio sarebbe stato accontentato: c’era di mezzo una parola d’onore, e la parola d’onore è sacra per i siciliani. L’appartamento popolare in via Baracca era al terzo piano con la vista sul mare: sembrava un palazzo signorile, con il suo lucido portone, i balconcini bianchi di stile moderno, e i pini a ombrello nello spiazzo antistante. Tutte le passeggiate del maresciallo avevano ormai come meta, nelle ore libere, la casa di via Baracca. Conosceva per nome tutti i muratori, ogni sera con Gianna perfezionava i progetti per la nuova sistemazione dei mobili.


L’appartamento fu assegnato al capitano De Tommasi.

C’era però, nello stesso isolato, un altro edificio in costruzione: Michele Cannarozzo riprese a sperare. Ma nell’ultimo elenco mancava il suo nome. Il “maresciallo folle di Ancona” si mise a scrivere i suoi memoriali.

Adesso, per molti infelici, Cannarozzo è diventato il “vendicatore dei senzatetto”. Gianna ne è commossa, ma insieme profondamente turbata. Non può dimenticare che l’odio di suo marito contro la società ha provocato, esplodendo, altri lutti tremendi, oltre  a quello della sua famiglia. Per molti anni, fino a quando Paola e Roberto saranno adulti e potranno dividerla con lei, dovrà portare da sola il peso della tristissima eredità che suo marito le ha lasciato morendo: il rimorso per le vittime innocenti del Metropolitan: Elda Pierangeli, Luigina Bartozzi, le loro famiglie, i trentotto feriti. Teme il giorno in cui, per la strada, potrà imbattersi in qualcuno di loro.

Ma il colpo di pistola con cui suo marito si è tolto la vita, sulle sponde del torrente Reghena, ha purificato il dolore di quelli che sono rimasti. Non c’è odio per la moglie e per i figli del “maresciallo folle”. Il dottor Walter Pierangeli, vedovo per la terza volta, ha ripreso in questi giorni a visitare i suoi ammalati (è un noto dermatologo), ma è ancora ospite della sorella e della mamma di Elda; non legge più i giornali e soprattutto li nasconde alla  suocera, temendo che sia riprodotta su qualcuno di essi la sala del Metropolitan subito dopo la strage, con la macabra immagine delle due vittime decapitate.

Al dottor Pierangeli, lunedì scorso, è stata restituita la borsetta di Elda, smarrita nel panico che seguì l’esplosione delle bombe lanciata dal maresciallo impazzito. E’ di camoscio nero, completamente irrigidita dal sangue: il dottor Pierangeli l’ha aperta, ha tolto l’astuccio del rossetto, il portacipria d’argento, le chiavi di casa. Ma ci vorrà ancora del tempo prima che possa ritrovare la forza di aprire, con quelle chiavi, la porta del suo appartamento nella villa di viale Zara. Lui e la sua giovane moglie (aveva soltanto ventinove anni) ne occupavano il piano rialzato; è una palazzina elegante, di quelle che esasperavano il desiderio di Cannarozzo, con due palme al centro di aiuole ben pettinate, la scalinata di marmo che porta all’ingresso, il sole e l’aria che entrano da ogni finestra e una cantina che serve solo per il carbone.

Anche la casa dell’altra vittima, Luigina Bartozzi, a Marina di Montemarciano (12 chilometri da Ancona), è civettuola, con la sua vasta terrazza, i muri bianchi, le persiane verde e le tendine leggere. E anche in questa famiglia la bomba omicida del maresciallo ha colpito ferocemente. Dopo diciassette anni di matrimonio Luigina e suo marito si volevano bene come il primo giorno, dicono i familiari: insieme, per tanti anni, avevano sognato una casa e infine erano riusciti a costruirla.

Adesso, nella villetta, suo marito e i suoi due figli, Aldo di quindici anni e Giovanna di dodici, si aggirano con desolazione. Aldo Bartozzi e Paola Cannarozzo hanno la medesima età: sono iscritti entrambi alla prima superiore dell’istituto “G. Stracca” di Ancona. Si sono incontrati durante l’intervallo, la mattina di lunedì scorso, fra la lezione di storia e quella di italiano. Un po’ in disparte li guardavano i compagni, messi in soggezione dalla loro grande sventura; poi, nel silenzio, Aldo e Paola si sono salutati come sempre. Ma nel rapido sguardo scambiato dai due ragazzi c’era, per la prima volta, un invincibile sgomento: una profonda paura per il mondo dei grandi, quel mondo che fra pochissimo tempo li avrebbe accolti entrambi.









Articolo di Anita Pensotti da “Oggi” n. 4 del 27 gennaio 1954

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