“Me
l’hanno fatto impazzire”, dice a bassa voce la signora Gianna Cannarozzo mentre piangendo avvicina alle
labbra una piccola fotografia di suo marito, una sorridente immagine dei giorni
felici quando, in un tempo che le sembra ormai così remoto, anche la sua
famiglia aveva una casa.
Esile, con un viso dai lineamenti infantili e minuti
(ha trentaquattro anni ma ne dimostra almeno dieci di meno), la signora Gianna Cannarozzo nasconde sotto una fragile
apparenza una forza e un coraggio che stupiscono chi l’avvicina. Da lunedì 17
gennaio si è chiusa per lei la prima parte della tragedia che ha sconvolto la
sua esistenza, una delle più spaventose che possano travolgere una donna. Quel
giorno tornavano in Ancona suo fratello Venturino Sorana e Paolo e Alberto Cannarozzo,
i fratelli di suo marito.
Venivano da Portogruaro
dove, la mattina precedente, avevano accompagnato Michele alla sua ultima
dimora, presa in affitto per sei mesi, misera e provvisoria come tutte quelle
che l’avevano ospitato durante la vita: la tomba contrassegnata dal numero 83. “Avete baciato Linuccio per me? Avete messo nella sua
bara le fotografie dei nostri bambini?” chiedeva
singhiozzando Gianna Cannarozzo. Si era alzata dal letto dove
ininterrottamente, appoggiata con dignitosa fierezza ai cuscini, aveva
ascoltato negli ultimi giorni le parole di conforto di amici, parenti e
giornalisti. Era l’unica stanza in cui aveva potuto riceverli, la sola in cui
ci fosse un po’ di spazio almeno per qualche sedia (le altre tre, compresa la
cucina, sono tutte ingombre di letti e divani).
La vedova di Michele
Cannarozzo, del “sognatore di una casa
terrena” come lui stesso si definì nel suo famoso “memoriale”, ha
rasentato per qualche ora l’orlo pauroso della follia. Fu la sera del 13 scorso
quando brutalmente, aprendo la radio, apprese che suo marito si era ucciso a
Caorle. Da allora il comune di Ancona le ha
tolto l’uso del gas per impedire che un’altra vittima possa aggiungersi a
quelle della tragica domenica del 9 gennaio. Ma, superato il pericolo dello
smarrimento, la signora Gianna è già entrata con lucida fermezza nella seconda
parte del suo dramma, forse la più difficile.
Rimasta sola, priva di mezzi (se avrà una pensione,
essa – si prevede – non supererà le dodici-tredicimila lire), vuole comunque
tradurre in realtà il sogno che ha condotto il suo Linuccio alla follia: dare
ai suoi figli una casa. E’ la sola speranza che l’aiuta a vivere ancora. “Robertino”, dice, “aveva
soltanto due mesi quando scendemmo qua sotto. Adesso ha dodici anni”.
Dodici anni trascorsi nel sottosuolo
di via Maratta 31. Destinato all’uso di cantina per gli inquilini del modesto
palazzo (vi passano ancora i tubi di scarico) ma adibito ad abitazione, esso
ospitava, prima della famiglia del “maresciallo
folle di Ancona” una maestra di pianoforte. C’era la guerra e le era
sembrata una fortuna riuscire a trovare un alloggio. Ma un giorno le sue vicine
la sentirono urlare, la sua voce esasperata saliva dal fondo dello scantinato:
gridava che non avrebbe potuto resistere, in quella casa, neppure un altro
giorno. “Sentite?”, diceva, “sentite il pianoforte? Non si è messo a suonare da solo,
stanno accordandolo i topi”.
La sfortunata inquilina lasciò ben presto il
sotterraneo, ma i topi gli sono rimasti fedeli. Uno di essi ha continuato le
sue acrobazie sopra una rete metallica, nella stanza da letto della signora
Gianna, anche nei tristissimi giorni in cui, lontano centinaia di chilometri,
diviso da lei ormai per sempre, Michele Cannarozzo
cercava di calmare nella pace della morte l’orribile tumulto della sua mente.
Anche nel 1942 quando, accettando l’ospitalità dei
suoi genitori, la signora entrò nel triste scantinato
di via Maratta, non aveva Linuccio accanto a sé. La guerra li aveva separati
obbligandoli ad abbandonare la casa di Caorle
dov’erano stati felici: la loro prima casa di sposi, quattro locali pieni di
sole, con le finestre che guardavano sul lungomare.
Era già nata Paola, che adesso ha quindici anni, e il loro accordo era
perfetto. Lo è sempre stato fino all’ultimo giorno, affermano concordi le sue
cognate e tutte le sue vicine, fino alla notte del 9 gennaio, a quella domenica
che era stata simile a tutte le altre, con la messa delle dieci nella chiesa
del Sacro Cuore, il pranzo più abbondante e la piccola sorpresa festiva di
Michele: i cioccolatini per i figli, un mazzetto di fiori per la moglie.
Quando il futuro attentatore del cinema Metropolitan di Ancona era tornato dalla guerra,
portava sulla divisa le stellette del valore. Erano il riconoscimento, diceva
il diploma che le accompagnava, di un’eroica
impresa: dopo l’armistizio, a bordo di una motolancia, era riuscito ad
attraversare tutto l’Adriatico e aveva raggiunto Bari per sfuggire ai tedeschi,
mettendo in salvo tutti i suoi uomini. La casa di Caorle era ormai perduta per
lui, altri l’avevano occupata. Ma il maresciallo Cannarozzo era convinto che
ben presto gli avrebbero dato un’altra abitazione:
aveva perduto la casa, spiegava, per andare a combattere, a compiere cioè il
suo dovere.
Nello scantinato di
via Maratta il maresciallo di finanza Michele Cannarozzo portò tutto quello che
possedeva: qualche libro, molti ricordi di guerra e la sua camera nuziale, coi
mobili di Cantù in radica chiara (per riaverli, lui e Gianna avevano dovuto
tornare nel Veneto e acquistarli di nuovo
uno per uno: il nuovo proprietario della casa di Caorle li aveva già
rivenduti). “Ci staremo per pochi mesi”,
ripeteva a sua moglie. Sua suocera e suo suocero, Enrico Sorana, divisero con
loro i locali e l’affitto: cinquemila lire i
coniugi Sorana, diecimila la famiglia
Cannarozzo: molti per uno stipendio che non arrivava alle cinquantamila.
Poi, nel ’45, altri due inquilini
– marito e moglie – vennero a inasprire le sofferenze di quella difficile coabitazione. I due nuovi arrivati cucinavano in
cortile con un fornello a carbone, proprio a ridosso delle finestre del
seminterrato che fittissime reti metalliche proteggono tuttora dall’invasione
delle pantegane (i grossi topi delle fognature). Per molte ore della giornata
il fumo invadeva le stanze della famiglia Cannarozzo, finché ci fu una violenta
scenata, la prima ribellione del maresciallo
contro la casa di via Maratta.
Ma il fumo rimase, denso e prepotente. Veniva adesso
da un forno (esiste tuttora) situato in
fondo al cortile. Funziona giorno e notte, con poche ore d’intervallo e un
incessante stridore, come di marmo raschiato. Un maresciallo
della finanza marina ha bisogno d’impeccabili camicie e, d’estate, di candide
divise; per salvarle sua moglie fu costretta a stenderle in casa.
Piccoli drammi di ogni giorno inevitabili
nell’esistenza dei coabitanti. Ce ne sono
ancora moltissimi ad Ancona, una città dove i bombardamenti
hanno risparmiato i quartieri alti, colpendo inesorabilmente quasi tutte le
case modeste. Ogni volta che sorge un palazzo, che si profila la possibilità
dell’assegnazione di alloggi nei quartieri bassi di Ancona, intorno
all’argomento si accendono appassionate discussioni:
se ne parla nei caffè, nei negozi: speranza e delusione si alternano ogni volta
nell’animo dei diseredati.
Anche Michele Cannarozzo
sperò più volte e più volte fu deluso. Negli ultimi anni l’ulcera e l’artrite
l’avevano reso insofferente, impedendogli inoltre di battere il mare con la
motovedetta alla caccia dei contrabbandieri. Il suo stipendio, di conseguenza,
era diminuito: diciottomila lire ogni
mese.
Restava chiuso tutto il giorno in ufficio: la notte lo
stridore del forno gli sembrava insopportabile e ogni mattina, mentre si lavava
nello stanzino privo di bagno che da’ sulla strada, rimaneva a fissare assorto
al di là della finestra, che è al livello del marciapiede,
i cani che si fermavano presso le sbarre e le scarpe di tutti i passanti,
rapide o lente, lucide o polverose. Era incominciata l’ossessione
che avrebbe fatto di lui “L’assassino di Ancona”.
Il resto è noto. Quando due anni fa s’illuse di poter
ottenere un appartamento “a riscatto”
nelle case popolari di Via Baracca, Paola (la figlia maggiore) era già adolescente, ma continuava a dormire nella medesima
camera con il fratello e la nonna. Il padre soffriva per questa promiscuità:
gli dispiaceva anche che Paola non potesse mai invitare qualche compagna di
scuola, che Robertino fosse costretto, come lei, a studiare sopra una cassa in
anticamera, accanto al divano dove dorme un altro ospite
del seminterrato: Federico, un nipotino che ha dodici anni.
Michele Cannarozzo era convinto che, questa volta, avrebbe avuto l’appartamento. “Me l’hanno promesso” confidò una volta a
Tanina, la sorella maggiore. L’aveva rivista a Messina in una triste
circostanza: la morte della madre avvenuta nel luglio del ’53. “Allora potrò finalmente invitarti a casa mia”.
Anche Tanina fu sicura che Linuccio sarebbe stato accontentato: c’era di mezzo
una parola d’onore, e la parola d’onore è
sacra per i siciliani. L’appartamento popolare in via Baracca era al terzo
piano con la vista sul mare: sembrava un palazzo signorile, con il suo lucido
portone, i balconcini bianchi di stile moderno, e i pini a ombrello nello
spiazzo antistante. Tutte le passeggiate del maresciallo avevano ormai come
meta, nelle ore libere, la casa di via Baracca. Conosceva per nome tutti i
muratori, ogni sera con Gianna perfezionava i progetti per la nuova
sistemazione dei mobili.
L’appartamento fu assegnato
al capitano De Tommasi.
C’era però, nello stesso isolato, un altro edificio in
costruzione: Michele Cannarozzo riprese a
sperare. Ma nell’ultimo elenco mancava il suo nome. Il “maresciallo folle di Ancona” si mise a
scrivere i suoi memoriali.
Adesso, per molti infelici, Cannarozzo è diventato il “vendicatore dei senzatetto”. Gianna ne è
commossa, ma insieme profondamente turbata. Non può dimenticare che l’odio di
suo marito contro la società ha provocato, esplodendo, altri lutti tremendi,
oltre a quello della sua famiglia. Per molti anni, fino a quando Paola e
Roberto saranno adulti e potranno dividerla con lei, dovrà portare da sola il
peso della tristissima eredità che suo
marito le ha lasciato morendo: il rimorso per le vittime innocenti del Metropolitan:
Elda Pierangeli, Luigina Bartozzi, le loro famiglie, i trentotto feriti. Teme
il giorno in cui, per la strada, potrà imbattersi in qualcuno di loro.
Ma il colpo di pistola
con cui suo marito si è tolto la vita, sulle sponde del torrente Reghena, ha
purificato il dolore di quelli che sono rimasti. Non c’è odio per la moglie e
per i figli del “maresciallo folle”. Il dottor Walter Pierangeli, vedovo per la
terza volta, ha ripreso in questi giorni a
visitare i suoi ammalati (è un noto dermatologo), ma è ancora ospite della
sorella e della mamma di Elda; non legge più i giornali e soprattutto li
nasconde alla suocera, temendo che sia riprodotta su qualcuno di essi la
sala del Metropolitan subito dopo la strage, con la macabra immagine delle due
vittime decapitate.
Al dottor Pierangeli, lunedì scorso, è stata
restituita la borsetta di Elda, smarrita nel panico
che seguì l’esplosione delle bombe lanciata dal maresciallo impazzito. E’ di
camoscio nero, completamente irrigidita dal sangue: il dottor Pierangeli l’ha
aperta, ha tolto l’astuccio del rossetto, il portacipria d’argento, le chiavi
di casa. Ma ci vorrà ancora del tempo prima che possa ritrovare la forza di
aprire, con quelle chiavi, la porta del suo appartamento nella villa di viale
Zara. Lui e la sua giovane moglie (aveva soltanto ventinove
anni) ne occupavano il piano rialzato; è una palazzina elegante, di
quelle che esasperavano il desiderio di Cannarozzo,
con due palme al centro di aiuole ben pettinate, la scalinata di marmo che
porta all’ingresso, il sole e l’aria che entrano da ogni finestra e una cantina
che serve solo per il carbone.
Anche la casa dell’altra vittima, Luigina Bartozzi, a
Marina di Montemarciano (12 chilometri da Ancona), è civettuola,
con la sua vasta terrazza, i muri bianchi, le persiane verde e le tendine
leggere. E anche in questa famiglia la bomba omicida del maresciallo ha colpito
ferocemente. Dopo diciassette anni di matrimonio Luigina e suo marito si
volevano bene come il primo giorno, dicono i familiari: insieme, per tanti
anni, avevano sognato una casa e infine erano riusciti a costruirla.
Adesso, nella villetta, suo marito e i suoi due figli,
Aldo di quindici anni e Giovanna di dodici, si aggirano con desolazione. Aldo
Bartozzi e Paola Cannarozzo hanno la medesima età:
sono iscritti entrambi alla prima superiore dell’istituto “G. Stracca” di
Ancona. Si sono incontrati durante l’intervallo, la mattina di lunedì scorso,
fra la lezione di storia e quella di italiano. Un po’ in disparte li guardavano
i compagni, messi in soggezione dalla loro grande sventura; poi, nel silenzio,
Aldo e Paola si sono salutati come sempre. Ma nel rapido sguardo scambiato dai
due ragazzi c’era, per la prima volta, un invincibile sgomento: una profonda paura per il mondo dei grandi, quel mondo
che fra pochissimo tempo li avrebbe accolti entrambi.
Articolo di
Anita Pensotti da “Oggi” n. 4 del 27 gennaio 1954
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