Erano le ore 21.15 di domenica 9 gennaio quando le sirene delle autolettighe fecero udire il loro suono angoscioso nelle vie centrali di Ancona, e i marciapiedi e i ritrovi perdettero a un tratto la loro animazione per un tragico annuncio che corse di bocca in bocca: “Hanno gettato delle bombe nel cinema Metropolitan, hanno fatto una strage!”
Di lì a poco automezzi della polizia e dei vigili del fuoco, autoambulanze della Croce Rossa e della Croce Gialla, percorso a gran velocità il corso Garibaldi, a stento riuscirono a passare attraverso la folla che, man mano più fitta, assiepava le adiacenze del cinematografo: i particolari di una sciagura di vaste proporzioni, dapprima esagerati e vaghi per l’intrecciarsi di voci contrastanti, trovarono conferma alla vista degli spettatori urlanti e concitati che ancora stazionavano davanti alle porte d’uscita del locale.
Quattro bombe a mano, lanciate da uno sconosciuto o da un gruppo di terroristi nella galleria del cinema Metropolitan, avevano portato la morte proprio nel momento in cui la scena del film che si stava proiettando, Pane amore e gelosia, sembrava esaltare maggiormente la vita e l’amore. Ora il lamento dei feriti svaniva nel sibilo lacerante delle sirene: fu una gara di solidarietà e autopubbliche, vetture in transito e altre che sostavano nei paraggi, accorsero sul luogo della tragedia e ripartirono dirette al vicino ospedale.
Poco dopo le luci rossastre delle insegne luminose del Metropolitan si spensero con un sussulto; rimase ancora la folla costernata a imprecare contro la criminale pazzia di un uomo, contro gli ignoti autori dell’orrendo misfatto che ha tolto la vita a due giovani spose e ha ferito, più o meno gravemente, trentotto persone.
Domenica sera la sala del cinema Metropolitan era affollatissima, benché non ancora completamente gremita in ogni ordine di posti. Il titolo del film aveva richiamato parecchia gente, d’altra parte era un giorno di festa e la temperatura quasi primaverile aveva invogliato parecchi a uscire di casa, dopo cena, per fare quattro passi o andare al cinema.
Il Metropolitan è uno dei più eleganti della città, ha quasi duemila posti di cui settecento sistemati nella galleria. La terza rappresentazione era cominciata poco prima delle ventuno, molti spettatori avevano lasciato la sala, altri erano entrati, altri ancora, rimasti in piedi, si appoggiavano alla parete della cabina di proiezione. Alcuni di costoro, desiderosi di sedersi, scrutavano attentamente la penombra alla ricerca di un posto, qualcuno riusciva a trovarlo, i più tornavano indietro contrariati: nessuno, certamente, immaginava che quel desiderio poteva significare andare incontro alla morte.
Alle ventuno e tre minuti uno scoppio fece trasalire gli spettatori: molti pensarono a un incidente nella cabina di proiezione, quasi tutti lasciarono i loro posti, pensarono ch’era prudente avvicinarsi alle uscite di sicurezza. Quando le luci si accesero, una nuova detonazione scosse ancora la sala. Di lì a qualche secondo un nuovo scoppio e, immediatamente, un altro.
L’odore caratteristico che accompagna la deflagrazione delle cariche esplosive, l’urlo della folla, il lamento dei feriti, diede l’impressione di una tragedia senza limiti. Parecchi, tra i più animosi, avvertirono il nuovo incombente pericolo causato dalla ressa verso le uscite, si posero sulle porte e a gomitate, a strapponi, costrinsero la folla ad abbandonare la sala con più calma. Quelle maniere forti evitarono più gravi conseguenze e il locale in pochi minuiti fu completamente sgombero.
Rimasero alcuni feriti, due uomini accanto a due donne orrendamente mutilate, due mariti in preda alla disperazione: “Guardate la mia Luigina, guardate, me l’hanno uccisa”, gridava con gli occhi sbarrati il signor Bartozzi di Marina di Montemarciano. Più discosto, il dottor Walter Pierangeli, noto medico della città, era curvo sul corpo straziato della moglie Elda.
Trentotto letti popolano le corsie del reparto chirurgia dell’ospedale civile di Ancona: solo due feriti ancora destano apprensioni, gli altri saranno dimessi presto, potranno tornare alle loro case e raccontare la loro terribile avventura.
Ad Ancona, fino a lunedì mattina, tutti si chiedevano il perché di quel misfatto; solo la sera, ventiquattro ore dopo l’assurdo crimine, si seppe che l’autore era stato identificato: un uomo di quarantanove anni, Michele Cannarozzo, maresciallo della Guardia di Finanza marittima, abitante con la moglie e due figli ad Ancona in via Maratta. Queste laconiche precisazioni, fornite dalla questura e diramate immediatamente dalla radio, furono apprese come la fine di un incubo.
Circolavano le più svariate ipotesi e i timori più astrusi avevano creato un’attesa angosciosa: molti pensarono a una delle prime azioni di una banda di terroristi simile a quella che, trentaquattro anni addietro, aveva commesso l’eccidio del teatro “Diana” di Milano. In tutte le strade gruppetti di persone commentavano l’accaduto.
Michele Cannarozzo, un siciliano di Enna, non ebbe una giovinezza molto facile: era il primo di sei figli e trascorse a Messina, dove si era trasferita la sua famiglia, gran parte della sua fanciullezza. A vent’anni si arruolò nel corpo della Guardia di Finanza: era un dipendente scrupoloso, percorse con facilità i gradi della carriera fino a maresciallo maggiore.
Nell’agosto del ’39, assegnato al naviglio di sorveglianza della costa marchigiana, sposò una graziosa anconetana, Gianna Maria Sorana, di parecchi anni più giovane di lui; l’unione risultò perfetta, vennero al mondo due figli, Paola che ha ora quattordici anni, e Roberto, di due anni più giovane della sorella. Sono due bei ragazzi, studenti entrambi: Paola frequenta il corso di ragioneria e il fratello è alunno di seconda media.
La famiglia di Michele Cannarozzo, dalla fine della guerra, è ospite della madre di Gianna Sorana, che ha ceduto due anguste stanze situate in un seminterrato. Il sottufficiale diceva d’essere scontento della sua abitazione: i figli ormai erano cresciuti, le due stanze non erano più sufficienti alle esigenze familiari.
D’altra parte, con l’affitto che doveva pagare alla suocera e qualcosa in più che aveva pensato di aggiungere, desiderava di avere una casa tutta per sé, una di quelle nuove case popolari “a riscatto”. Ma la sua domanda, presentata fuori dai termini prescritti, era stata respinta; da quel momento il problema dell’alloggio per Michele Cannarozzo divenne una vera e propria ossessione.
La moglie cercava di calmarlo, sapeva che il marito era ammalato di nervi, i medici gli avevano riscontrato un forte esaurimento nervoso, ma il comando della Finanza non era stato mai informato di tali referti. Il maresciallo temeva che le sue infermità potessero nuocere alla carriera, sapeva che poteva essere inviato in congedo anzitempo, con le solite poche migliaia di lire mensili dei pensionati. Il suo carattere cambiò, divenne taciturno.
Da qualche tempo, appena rientrato in casa, mangiava frettolosamente un boccone e correva a sedersi davanti a un tavolino, per riempire di fitta scrittura un gran numero di fogli. Fumava una sigaretta dopo l’altra, ogni tanto mormorava tre sé alcune frasi incomprensibili e, alla fine, chiudeva gli scritti in un cassetto.
Alla moglie che chiedeva cosa stesse facendo rispondeva in modo evasivo: “Sono le mie memorie”, oppure “Un’accusa contro le ingiustizie della società”.
Domenica sera Michele Cannarozzo giunse dal porto che non erano ancora le diciannove. Si sedette al solito tavolinetto a scrivere ancora un paio di fogli, si alzò soprappensiero come aveva fatto altre volte, mangiò pochissimo ed uscì: “Vado a fare quattro passi, la serata è buona”, disse alla moglie.
E’ stata l’ultima volta che Gianna Cannarozzo vide suo marito. Di lì a qualche ora l’annuncio della strage giunse fino a lei: si diceva che i morti erano stati moltissimi, che i feriti avevano riempito le corsie dell’ospedale. Ebbe un tragico presentimento: perché Michele quella sera tardava? Attesa trepidante fino ad ora inoltrata. I nomi delle due donne morte e dei feriti già si erano saputi, quello del maresciallo non c’era, forse era corso a offrire il suo aiuto. Gianna trascorse la notte vestita, sentiva il cuore in tumulto.
Le bombe lanciate nella sala del cinema Metropolitan erano di tipo militare, quattro “S.R.M.C.” da guerra; un proiettile di pistola (dopo il lancio delle bombe furono sparati numerosi colpi di rivoltella) trovato conficcato nel fianco di un ferito era di calibro 9, lo stesso delle “Beretta” in dotazione alle forze armate.
Il comando della Stazione Naviglio, data l’assenza ingiustificata del maresciallo, il 10 mattina effettuò un controllo all’armeria: mancavano sei bombe a mano “S.R.M.C.”, e il presentimento che sembrava assurdo divenne una triste realtà allorché Gianna Sorana dovette aprire la porta della sua abitazione agli agenti di polizia.
Durante la perquisizione furono anche rinvenuti i fogli scritti da Michele Cannarozzo, un componimento saturo di odio contro la società alla quale addebitava la causa dei suoi malanni e delle sue contrarietà. “Intendo colpire la vita della città seminando la morte nei cinematografi, nei teatri e nelle chiese, tutto senza distinzione, sono condannati da me perché colpevoli delle mie sventure”.
Ma il documento più impressionante della follia del maresciallo è un memoriale in forma di ultimatum pervenuto il giorno dopo la strage a tutte le autorità cittadine. Fu scritto mezz’ora prima di compiere l’atto terroristico e dice testualmente:
“Visto che l’Istituto autonomo case popolari di Ancona non ha distribuito con criteri di giustizia gli alloggi popolari siti in via Baracca; visto che il cav. Smuraglia e l’on. Sparapani, in presenza del maggiore della Finanza Zanobbi e del tenente Sica, per evitare uno scandalo hanno promesso di farmi avere entro sei mesi un appartamento a mia scelta; visto che cinque giorni dopo l’on. Sparapani mi disse che non era più possibile, aggiungendo “Lei vuol mettere in dubbio la mia parola d’onore?” e specificando che bastava la semplice domanda senza documenti; visto che dopo venti mesi, con sfrontatezza senza pari, mi hanno categoricamente negato che non vera vero che mi avevano promesso l’appartamento; visto che i reclami lasciano i tempo che trovano; visto che gli alloggi vengono purtroppo dati a chi veramente non ne ha bisogno e non a quelli, come me, che vivono in coabitazione in una misera stanza, umida, scarsa di luce e di aria; ordino:
1. All’on. Sparapani e al cav.
Smuraglia, sotto la sorveglianza del Prefetto di Ancona, di trasferire
immediatamente le mie masserizie (letti, perché dopo trent’anni di servizio
sono nudo e crudo) presso l’appartamento del capitano De Tommasi, sito in via
Baracca, oppure in quello scelto da me in via Corridoni;
2. L’operazione suddetta deve
avvenire entro le ore ventuna del 9 gennaio 1955 (il giorno e l’ora esatta
della strage al Metropolitan); non ammetto difficoltà di sorta, come io non ne
ho mai fatte nel servire fedelmente la Patria;
3. Terminata detta operazione,
la mia famiglia sarà sistemata ed io ritornerò a lavorare serenamente e
tranquillamente. L’ultimatum che v’invio bruciatelo subito e quanto è successo
rimarrà un n segreto tra noi quattro, che seppelliremo pertanto nel segreto
della tomba. Pertanto vi do la mia parola d’onore di uomo e di soldato”.
Il memoriale del Cannarozzo continua ancora:
“Soluzione non pacifica, secondo le leggi che fanno gli uomini. Se agite secondo dette leggi, ecco cosa succederà:
1. Morte di innocenti per causa
vostra, per cui il rimorso vi tormenterà per tutta l’eternità;
2. Funerali collettivi;
3. Lutti in tante famiglie e di
qualsiasi partito, compresa la mia;
4. Inchieste e conseguenze per
la vostra carriera;
5. Il mio atto provocherebbe
uno scandalo in tutto il Paese e all’estero;
6. La stampa di sinistra
profitterebbe dell’occasione per scagliarsi contro il governo attuale come ha
fatto per il caso Montesi;
7. La mia azione spingerebbe
tutti coloro che non hanno una casa ad agire per l’avvenire come ho fatto io, e
nei cinema, chiese e teatri nessuno frequenterebbe più detti luoghi, ma
starebbero tutti rintanati in casa per tema di essere colpiti;
8. Nel caso agiste con la forza
contro di me non guadagnereste nulla, anzi, al contrario, verrei a guadagnarci
io perché quando “sulla fredda terra il cuore spezzato dormirà per sempre” non
udirò più le solite lamentele di mia moglie o di mia suocera”.
“Addio a tutti, ci rivedremo nella casa celeste”, terminava così l’ultimatum che è firmato così: “Cannarozzo Michele, il sognatore della casa terrena che non ha potuto avere, nonostante trent’anni di servizio prestato. Iscritto al partito Patria, Bandiera, Famiglia”.
Articolo di Anita Pensotti da "Oggi" gennaio 1955
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