un riassunto
Iniziamo a pubblicare la raccolta di tutti (o quasi) gli
articoli apparsi su “Oggi” in merito a questo caso, tralasciando quelli di
scarso interesse chiaramente “riempitivi”, come il servizio fotografico sulla
casa in cui viveva Wilma o simili.
Ovviamente all’epoca il caso era sulla bocca di tutti e
quindi non era necessario spiegarne lo svolgimento; ora non è così e quindi
abbiamo deciso di farne un riassunto per una migliore comprensione.
Wilma Montesi, nata a Roma nel 1932, era una bella ragazza,
molto alta, bruna e vistosa: si era
fidanzata con un agente di pubblica sicurezza col
quale doveva sposarsi nel dicembre 1953. Il matrimonio avrebbe comportato il
suo trasferimento a Potenza, città nella quale il fidanzato era stato inviato per
punizione dopo una violenta lite con alcuni colleghi.
Nel pomeriggio del 9 aprile 1953 la madre, Maria Petti, e
la sorella Wanda vanno al cinema mentre Wilma rimane a casa. Uscirà più tardi,
dopo le diciassette come testimoniato in seguito dalla portinaia del palazzo, e
nessuno la vedrà più viva.
La ragazza non torna. La famiglia, dopo averla aspettata
per cena, inizia a cercarla dappertutto e infine denuncia la scomparsa alla
Polizia.
Tutta la giornata del 10 aprile passa senza notizie: la
mattina dell’11 un operaio che va al lavoro trova il cadavere di Wilma sulla
spiaggia di Torvaianica, località di mare a sud di Roma.
La ragazza è vestita a metà: mancano la gonna, le scarpe,
le calze e il reggicalze, oltre alla borsetta. Non ha segni di violenza, non è
gonfia né tumefatta. Viene portata all’Istituto di Medicina Legale di Roma;
l’autopsia rivelerà che è morta per “annegamento lento”, il che fa pensare ad
una caduta in acqua in stato di incoscienza; l’esame tossicologico è negativo. Inoltre (cosa che verrà
sbandierata in ogni modo) la ragazza è vergine o quanto meno non ha subito
violenza sessuale. Il momento della morte viene situato nella notte tra il 10 e
l’11 aprile.
Il mistero è fitto. Come ha fatto Wilma a recarsi a Torvaianica,
dove non c’è la stazione ferroviaria? Cosa c’è andata a fare, nel tardo
pomeriggio di un giorno dell’inizio di aprile che i testimoni riferiscono
freddino e piovigginoso?
Il fatto finisce ovviamente sui giornali: si presenta
quindi a casa Montesi una certa professoressa Passarelli, la quale assicura di
aver incontrato Wilma il giorno della scomparsa sul treno Roma – Ostia delle
17.30, e la descrive minutamente. Wilma sarebbe quindi andata nella cittadina
laziale, ma a fare cosa? Qualcuno dice che la ragazza soffriva di arrossamenti,
o irritazioni, ai talloni, e che le era stato consigliato di fare
bagnature con l’acqua di mare; si forma così la famosa “tesi del pediluvio”.
Si ritiene quindi che Wilma, il pomeriggio del 9 aprile,
abbia deciso di recarsi a Ostia a bagnarsi con l’acqua di mare, ed abbia quindi
preso il treno delle 17.30; arrivata nella cittadina avrebbe cercato una
spiaggia solitaria, si sarebbe tolta scarpe e calze e sarebbe entrata in acqua.
Il freddo l’avrebbe fatta svenire (Wilma era negli ultimi giorni del ciclo
mestruale), lei cadendo in acqua svenuta non si sarebbe dibattuta e sarebbe
lentamente affogata. Le onde e le correnti l’avrebbero poi trasportata fino a Torvaianica.
Questa tesi, per quanto fantasiosa possa sembrare, viene
accettata dagli inquirenti che chiudono il caso come “morte per cause
naturali”; la povera ragazza
viene sepolta al cimitero del Verano.
L’opinione pubblica, ovviamente, rimane contrariata da
una conclusione così affrettata e poco plausibile: perché mai Wilma, che tutti
descrivono come una ragazza riflessiva e posata fino alla noia, avrebbe fatto
un simile colpo di testa al solo scopo di bagnarsi le gambe con l’acqua di
mare? Come avrebbe fatto in meno di mezz’ora a raggiungere la stazione Ostiense
da casa sua, posta nel quartiere Salario, attraversando mezza Roma? E inoltre:
possibile che nessuno, a Ostia, abbia notato la bella ragazza?
I dubbi maggiori riguardano l’orario della morte, che
come ricordiamo era stato stabilito nella notte tra il 10 e l’11: possibile che
Wilma avesse galleggiato, viva, per un giorno e una notte? e l’assenza del
reggicalze.
È noto, infatti, come all’epoca i collant non esistessero
e le donne portassero quindi calze separate agganciate per mezzo di
giarrettiere ad un bustino reggicalze. Per levarsi le calze Wilma non avrebbe
assolutamente dovuto togliersi quest’ultimo, che oltretutto, a detta di sua madre,
era chiuso con ben cinque gancetti: perché quindi la ragazza non lo indossava?
Pian piano, tuttavia, la storia di Wilma lascia le pagine
dei giornali e verrebbe dimenticata, se qualche mese dopo un
giornalista, Silvano Muto, non scrivesse un articolo
sull’argomento. Secondo il Muto la giovane sarebbe morta durante un festino a
base di alcool e droga nella tenuta di Capocotta, confinante con la spiaggia
dove è stato trovato il cadavere; cita due ragazze che, a suo dire, avrebbero
partecipato a feste del genere.
Le due ragazze si chiamano Adriana Concetta Bisaccia e
Anna Maria Moneta-Caglio. Non potrebbero essere più diverse tra loro.
Adriana Bisaccia è una ragazza di Avellino che, dopo una
giovinezza turbolenta, è approdata a Roma in cerca di una fortuna
cinematografica che però non ha raggiunto, dovendosi accontentare di lavoretti
come comparsa. Frequenta un ambiente che oggi chiameremmo “alternativo”, fa la
modella per alcuni pittori, all’epoca viene definita “esistenzialista”. Conosce
il Muto per aver lavorato per lui come segretaria; da subito si dichiara
all’oscuro di tutto. Di Wilma Montesi sa soltanto quello che ha letto sui
giornali, non ha partecipato a nessuna orgia o festino che dir si voglia. Alla
fine viene creduta e ritorna nell’ombra.
Anna Maria Moneta-Caglio è di tutt’altro stampo. Nata da
una distinta famiglia milanese, il padre notaio, il nonno Ernesto premio Nobel
per la pace con una strada a lui intitolata dal Comune di Milano, Anna Maria
non è particolarmente bella ma molto elegante e chic: frequenta la società
elegante di Via Monte Napoleone, parla con l’erre moscia, e appena raggiunge la
maggiore età se ne va a Roma per diventare un’attrice. Qui conosce Ugo
Montagna, un faccendiere, diremmo adesso, nominato marchese dal re Umberto II
negli ultimi convulsi giorni prima della sua fuga dall’Italia, uomo colto e
affascinante che ufficialmente si occupa di compravendite immobiliari ed è
direttore proprio della tenuta di Capocotta. I due diventano amanti.
Al momento dell'uscita dell'articolo Ugo ha da poco lasciato Anna Maria. La ragazza, delusa e ferita, coglie la palla al balzo e ne approfitta per vendicarsi dell'abbandono e raggiungere la notorietà tanto desiderata: con abilità si ritaglia un personaggio di ragazza fondamentalmente onesta ma traviata dalle cattive compagnie, che conosce inconfessabili segreti ma teme per la sua stessa vita.
L’articolo suscita un vespaio incredibile e dà origine
allo scandalo.
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