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LA RAGAZZA ACCUSATRICE
E L'ACCUSATO FUORI AULA
Articolo di “Oggi” nr. 11 del 18/3/1954
Il processo di Roma contro il giornalista Silvano Muto,
accusato di aver turbato l’ordine pubblico con un articolo sulla morte di Wilma
Montesi, ha avuto uno sviluppo imprevedibile e smisurato. Sebbene moltissimi
personaggi siano stati coinvolti nell’atmosfera scandalistica del processo,
nell’interesse del pubblico sono emersi come protagonisti, direttamente o
indirettamente, due giovani: Anna Maria Moneta-Caglio e Piero Piccioni. La
prima, certamente spinta anche da motivi di rancore personale, ha rovesciato
nell’aula del tribunale una valanga di accuse, nelle quali pare quasi
impossibile discernere la verità dalla fantasia e per alcune delle quali, se
non saranno provate, ella potrà anche rischiare la prigione; il secondo è il
personaggio su cui convergono, anche attraverso le rivelazioni più tortuose e
le voci più tendenziose e insistenti, le accuse più gravi.
In queste pagine
pubblichiamo i ritratti di questi due giovani, non tanto per scoprire a nostra
volta nuove “verità” quanto per presentare alcuni aspetti meno noti della
gioventù a cui essi appartengono. Le accuse della Caglio contro Piccioni sono
già state rese note dalla stampa; ci siamo preoccupati quindi, più che di
ripetere queste accuse, di rivelare e precisare la posizione del Piccioni di
fronte ad esse, senza naturalmente assumere alcuna responsabilità. Toccherà
alla giustizia stabilire le colpe, se vi sono, separare il vero dal falso,
chiarire i dubbi che a torto o meno l’opinione pubblica conserva ancora sul
“caso Montesi”.
ANNAMARIA MONETA - CAGLIO
Don Ernesto Moneta, parroco di Lomazzo, recentemente
aveva scritto una lettera alla nipote Anna Maria Moneta-Caglio. “Di’ tutto
quello che sai”, esortava il sacerdote, “e che ti risulta direttamente; taci
sulle supposizioni, le ipotesi, i frutti della tua fantasia perché potresti
trovarti nei guai”. E il padre, il dottor Attilio Moneta-Caglio, notaio
dell’Automobile Club di Milano, che fu l’ultimo ad essere informato delle
inquiete esperienze romane della figlia, a più riprese nelle ultime settimane
le aveva raccomandato di ricordarsi, davanti ai giudici, del suo semplice ruolo
di testimone, accantonando le facili suggestioni di trasformarsi in spericolata
denunziante di un ambiente o di un costume, senza le prove in mano e ricorrendo
soltanto a nessi, legami e induzioni superficialmente elaborati. Ma Anna Maria
ha voluto agire da sola: in fondo ha continuato sulla sua strada, secondo il
suo stile, vittima forse inconsapevole di un ambiente sbagliato e di avventure
familiari estremamente tristi e melanconiche. “I miei figli”, ha detto il
padre, “hanno assaporato la solitudine fino in fondo: i maschi si sono salvati,
lei, Anna Maria, unica donna, a un certo momento si è smarrita e a nulla sono
valsi gli sforzi del papà e dei fratelli per riportarla ancora nel clima
tradizionalmente sano di tutta la mia gente”.
Quando nel ’33 la madre di Anna Maria, Maria Maddalena
Monneret de Villars, abbandonò la casa per andarsene con un altro uomo, sulla
famiglia Moneta si abbatté una sciagura tremenda. Niente poteva spiegare, e
tanto meno giustificare, una decisione tanto repentina: e tuttavia nessuno, a
cominciare dal marito, osò imprecare contro la fuggitiva. Il ritratto di lei
continuò ad occupare il posto d’onore nel salotto; Maria Monneret continuava
così ad essere l’autentica regina della famiglia. Il marito continuò ad esser
innamoratissimo di lei: i quattro figli crescevano sani e belli, il reddito
consentiva un tenore di vita agiato. Anna Maria assomiglia alla madre in modo
perfetto: ne è la copia fedele, ha ereditato da lei, però, anche l’acuta
insofferenza di ogni limite, la personalità ribelle, l’esigenza di sottrarre i
propri capricci e la “celebrazione di sé” ad ogni ragionevole freno e ad ogni
legittimo dovere.
Fin da quando cominciò a capire, l’immagine della madre
le si presentò come un miraggio lontano da raggiungere a tutti i costi: quando
il padre si arruolò volontario nella guerra d’Abissinia, Anna Maria gli
scriveva: “Hai incontrato in Africa la mamma?” Quando il padre fu ferito e
ricoverato all’ospedale militare di Asmara, chiese di rivedere la moglie e le
dame della Croce Rossa scrissero alla moglie, che si trovava in Francia,
dicendole del comportamento eroico del marito e dell’accesa speranza che egli
aveva di poter ricomporre ancora la famiglia. La risposta non si fece
attendere: “Il miglior regalo che potete farmi è di lasciarlo morire”.
Attilio Moneta-Caglio non morì, rimase tuttavia in Africa
come istruttore degli ascari, poi andò a combattere in Spagna coi legionari,
combattendo inoltre nella seconda guerra mondiale, risalendo la penisola con le
truppe di liberazione fino a Milano dove fu incaricato di dirigere l’ufficio
regionale del lavoro. Quando infine poté finalmente riaprire il suo studio di
Notaio, la ragazza fu mandata in un collegio in Svizzera a completare la
propria educazione. Ritornò due anni dopo convinta che ormai la direzione della
propria vita dipendeva esclusivamente da lei.
Con la nonna che l’ospitava a Milano e cercava di
frenarla secondo le regole del “buon tempo antico” aveva continue scenate; il
padre era preoccupato di questi rapporti, però pensava che al più presto tutto
si sarebbe sistemato con il matrimonio di Anna Maria con un giovane svizzero,
molto benvisto in famiglia.
Tutto però andò a monte quando Anna Maria disse di voler
andare a Roma, dove avrebbe studiato e, nello stesso tempo, cercato un avvio
per le sue aspirazioni di diventare attrice. Il padre cercò di dissuaderla
senza riuscirci, e dovette affrettarsi a cercare un possibile “modus vivendi”
per la figlia. Anna Maria fu raccomandata ad alcuni parenti, ai quali veniva
mandato il denaro per l’alloggio e il vitto per evitare che la ragazza lo
sciupasse.
Le notizie che giungevano a Milano erano buone: solo più
tardi il padre seppe che Anna Maria aveva troncato il fidanzamento con lo
svizzero e che si era innamorata di “un nobile, residente a Roma”.
Poi, di colpo, lo scandalo, i memoriali, il processo. La
psicologia di Anna Maria in tutto questo non è facile da seguire: c’è gelosia,
c’è vendetta, c’è principalmente la profonda delusione d’una ragazza che s’era
convinta di ricomporre e assestare la propria vita, prestando fede all’amore e
che, ad un dato momento, si accorge di essere soltanto la pedina di un giuoco
più grande di lei. Il caso Montesi è un pretesto per la rivincita, un pretesto
prontamente afferrato e abilmente calcolato. Anna Maria ha voluto vendicarsi
come tante altre donne deluse vogliono vendicarsi: ha scelto – ed è qui
l’aspetto più sorprendente di questa vicenda – come strumento di vendetta un
caso spettacolare e clamoroso, in cui la cronaca nera cercava di coinvolgere
precise responsabilità di una certa parte politica. Non ha esitato, per
raggiungere il suo scopo, a incoraggiare una colossale montatura comunista
tendente a dimostrare che tutta l’Italia non comunista è fatta di stupefacenti,
amori illegittimi, traviamenti e orge.
Una scelta, senza dubbio, abile, quasi cinica, che merita
tutto un capitolo nella storia delle vendette femminili. Per lei l’obiettivo
era così chiaro e allucinante che, anche dopo i due mesi di ritiro in un
convento, ha creduto di insistere. Anna Maria da amante tradita ha tentato di
diventare una specie di Giovanna d’Arco, un’eroina che denunzia senza pietà il
vizio non solo dove l’ha conosciuto ma anche dove ha la vaga impressione che
alligni. Ella sa di impressionare la gente: anche se le sue accuse saranno
smentite dal processo in corso, anche se ella avrà una condanna per falsa
testimonianza, c’è sempre qualche possibilità che l’opinione pubblica continui
a considerarla la vittima, la martire del “vizio” da lei denunciato. Per questo
ella ha travolto perfino se stessa, e davanti ai giudici, per ore e ore, ha
messo a nudo la sua vita di ragazza diventata troppo presto adulta e troppo
presto prigioniera delle proprie e delle altrui passioni.
PIERO PICCIONI
Nell’aprile-maggio 1953, quando si cominciò a parlare del
“caso Montesi”, i giornali di sinistra accennarono per la prima volta ad un
“biondino” che sarebbe stato visto nella zona di Tor Vaianica la sera fatale, a
bordo di un’Alfa Romeo 1900, in compagnia di una ragazza i cui connotati
potevano coincidere grosso modo con quelli di Wilma. Si disse subito che il
“biondino” era “figlio di un pezzo grosso democristiano” e si diede pressappoco
questa versione: Wilma si era sentita male e il “figlio di papà”, forse per
evitare lo scandalo, credendola morta l’aveva abbandonata sulla spiaggia in
balia delle onde. Fra i “pezzi grossi” democristiani di primissimo piano uno
solo aveva figli maschi al disopra dei vent’anni: il ministro Attilio Piccioni.
Così la voce prese maggiore consistenza: si cominciò a
sussurrare che il giovane compagno di Wilma era proprio il figlio di Piccioni.
Dapprima si parlò di Leone, ma la cosa non poteva reggersi perché Leone
Piccioni conduceva una vita irreprensibile. Qualcuno scoprì allora che il
ministro democristiano aveva un altro figlio, Piero, musicista, molto noto
negli ambienti del cinema. Fin da
allora, quindi, le menti occulte che dirigevano la propaganda pre-elettorale di
sinistra stabilirono che il responsabile della morte di Wilma Montesi doveva
essere Piero Piccioni. C’era però un inconveniente: Piero Piccioni non può
essere definito “biondino” perché ha i capelli neri, anzi nerissimi. E da quel
momento, infatti, di “biondini” non se ne parlò più.
La complessa, drammatica e paradossale disavventura di
Piero Piccioni è cominciata in questo modo. Dapprima furono soltanto voci e
velate insinuazioni. Poi un giornalista comunista, Marco Cesarini Sforza,
arrischiò una sortita su Vie Nuove e mosse a Piero Piccioni accuse esplicite.
L’interessato reagì immediatamente e Cesarini sullo stesso giornale pubblicò
un’ampia e completa ritrattazione. Piccioni ritirò la querela, pentendosene in
seguito: se la faccenda fosse stata portata fin d’allora davanti ai magistrati,
forse tutto si sarebbe chiarito, e non ci sarebbe stato il colossale scandalo a
scoppio ritardato. Ma Piccioni riteneva che, chiusa la campagna elettorale,
della cosa non si sarebbe parlato più, e d’altra parte i suoi legali gli fecero
notare che un rinvio del dibattimento poteva far sì che la sua querela fosse
archiviata per la sopraggiunta amnistia, senza un giudizio nel merito, e che
quindi era più utile ottenere subito la ritrattazione giornalistica.
Piero Piccioni ha 32 anni: è uno dei quattro figli
dell’attuale ministro degli Esteri, onorevole Attilio Piccioni. E’ laureato in
legge ed ha uno studio legale a Roma, ma con lo pseudonimo di Piero Morgan
compone musica, è direttore d’orchestra jazz, apprezzato pianista, collabora ai
programmi della radio: ha composto musica per parecchi documentari e per alcuni
film: suo è il commento de Il Mondo le condanna e del più recente film di
Lattuada La spiaggia.
Qualche anno fa Piero Morgan conobbe Ugo Montagna e i due
divennero amici. Per la coincidenza di questa amicizia, Piero Piccioni si trova
ora immischiato nel clamoroso scandalo che Silvano Muto ha acceso e Anna Maria
Moneta-Caglio ha fatto divampare.
La situazione di Piero Piccioni è quanto mai
paradossale. Il suo nome è comparso su tutti i giornali, una parte
dell’opinione pubblica non riesce più a dissociarlo dal “caso Montesi”, eppure
contro di lui non esiste il minimo indizio all’infuori delle accuse, peraltro
assai vaghe e sprovviste di prove, mosse dalla Moneta-Caglio, la quale ha
accusato tutti coloro, donne e uomini, che avevano rapporti di amicizia o di
affari col suo ex amante Ugo Montagna. D’altra parte coloro che sono stati
tirati in ballo dalla Caglio, Piero Piccioni compreso, hanno reagito
energicamente, smentendo ogni cosa e sporgendo denuncia: la strana e
inquietante ragazza ha già collezionato, fino a questo momento, più di venti
denunce per diffamazione.
A proposito di Piero Piccioni, la Caglio ha fatto queste
dichiarazioni. Primo: lui e Montagna si telefonavano spesso. Secondo: un giorno
lei avrebbe rinfacciato a Piccioni di “procurare donne” a Montagna, e Piccioni
avrebbe risposto: “Al contrario, è lui che le procura a me”. Terzo: recatasi un
giorno col suo amico a casa di Piccioni, vide davanti allo stabile la famosa
1900 nera, ma Montagna le impedì di guardare la targa. Quarto: una sera, alla
fine di aprile, alle ore 21.30, la Caglio avrebbe accompagnato Montagna in
macchina al Viminale. Qui egli si sarebbe incontrato con Piero Piccioni: i due
si sarebbero poi recati dal capo della polizia e al ritorno Montagna avrebbe
detto alla ragazza: “Ora la faccenda è sistemata”.
Piccioni, dal canto suo, smentisce recisamente tutto
questo castello di accuse. Egli afferma di non aver mai conosciuto la Caglio
prima che scoppiasse il “caso Montesi”; soltanto in seguito la vide in
occasione di una audizione da lei sostenuta alla RAI. Particolare molto
importante: si è sempre collegata la morte di Wilma Montesi a una misteriosa
Alfa Romeo 1900 nera, ma né Piero Piccioni, né i suoi familiari hanno mai
posseduto un’automobile di quel tipo. Egli possiede una Fiat 1400 di colore
chiaro. Piccioni smentisce recisamente anche il famoso appuntamento con
Montagna davanti al Viminale e la visita al capo della Polizia; secondo la
Caglio l’episodio sarebbe avvenuto il 29 aprile alle ore 21.30. Quella sera
Piccioni era a cena a casa d’amici, e almeno dieci persone possono confermarlo.
Piero Piccioni non ha mai voluto parlare di “alibi”; egli
è avvocato e conosce bene il valore di questa parola. Soltanto quelli che sono
sospettati di avere commesso un reato sono tenuti a presentare un alibi, se lo
hanno. Questo non è il suo caso. Piero Piccioni non è mai stato accusato o
sospettato dalle autorità competenti, nessuno ha presentato denunce contro di
lui. E’ stato interrogato soltanto in veste di testimone.
Sono circolate diverse voci. In un primo tempo si è detto
che quando morì Wilma Montesi egli era a Milano. Poi il suo avvocato disse che,
invece, si trovava a Roma ammalato. Queste versioni non sono esatte: Piero
Piccioni ha fornito al magistrato una versione impeccabile, coi nomi di tutte
le persone che possono avallarla. Effettivamente era stato a Milano alcuni
giorni prima del fatto, ma il giorno in cui morì Wilma egli si trovava ad
Amalfi in compagnia di amici, tra i quali, pare, l’attrice Alida Valli.
Tornò a Roma ammalato e si mise a letto, quando il corpo
della ragazza era già stato trovato sulla spiaggia. In questo modo si sono
diffuse le voci dei tre alibi.
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