Nella notte dal 14 al 15 aprile 1958 su Vienna era
piovuto quasi senza interruzione e il vento aveva soffiato violento da nord. Il
poliziotto Rudolf Bertl, che prestava servizio di guardia al monumento al
soldato russo in piazza Schwarzenberg cercava di scaldarsi camminando in su e
in giù sotto il colonnato. Per lui, mentre Vienna si risvegliava e le prime
automobili si dirigevano verso il centro, quella era un’alba come le altre.
Erano le 7: fra tre ore sarebbe venuto a rilevarlo un collega e lui sarebbe andato
a dormire.
Su una panchina distante una decina di metri dall’ala
destra del monumento (un loggiato semicircolare con colonne pseudoclassiche) c’era
un giovanotto dall’aria afflitta. Teneva i gomiti sulle ginocchia e le tempie
tra le mani, a meditare; stette lì un bel po’ quindi cominciò a passeggiare
nervosamente, poi tornò a sedersi, quindi scomparve tra i cespugli dietro il
monumento, così per molto tempo, dando continue occhiate al poliziotto ogni
volta che si spostava.
Bertl per un pezzo rimase ad osservarlo senza dir nulla,
ma dopo un’oretta, vedendolo estatico in mezzo all’erba, decise di rivolgergli
la parola e di offrirgli una sigaretta. “Cosa fa qui a quest’ora?” “Aspetto un
amico che ha bottega qua dietro”, rispose il giovanotto. “Lo sa che è vietato
calpestare l’erba?”, continuò la guardia. “Oh, mi scusi tanto, non ci avevo
pensato. Mi scusi”, disse lo sconosciuto con molto garbo.
Alle 9 Bertl era ancora lì, e c’era anche il giovanotto
che guardava verso la strada come a spiare i passanti, stando in punta di piedi
dietro un cespuglio. Improvvisamente il poliziotto vide un ombrellino da donna
tra i cespugli, poi una borsetta, un mantello azzurro, una sottoveste
stracciata sparpagliati alla rinfusa cinque-sei metri dietro il monumento. Ma
era appena al principio delle sue scoperte. Pochi passi più oltre da un
mucchietto di terra emergeva un ciuffo di capelli biondi: la testa di una
ragazza. Il resto del corpo era sepolto e coperto malamente di terra fresca.
Bertl si precipitò al più vicino telefono e dieci minuti più tardi mezza
squadra omicidi era sul posto.
La morta era una bella ragazza di ventun anni, Ilona
Faber, indossatrice, figlia di un alto funzionario del ministero del commercio,
la cui scomparsa era stata appena denunciata dalla famiglia. Il suo corpo era
completamente nudo: l’assassino l’aveva tramortita con un colpo alla carotide,
aveva abusato di lei e poi l’aveva strangolata, riempiendole quindi la bocca
col terriccio.
Ilona era una brava ragazza, timida e riservata, tanto
che gli stessi rigidi familiari la prendevano in giro e le amiche la evitavano perché
la trovavano noiosa. I pochi giovanotti che l’avevano conosciuta dissero poi
alla polizia di non averla corteggiata perché “faceva solo perdere tempo”. Una
ragazza seria, la cui meta era la carriera di indossatrice e i cui unici svaghi
erano i dischi e i libri classici e il cinematografo.
La sera prima che venisse ritrovata cadavere, Ilona era
attesa alla scuola per indossatrici che era solita frequentare. Ma non vi andò.
Fu vista invece alle 20 entrare al cinema della piazza Schwarzenberg (a cento
metri dal posto del delitto) e uscirne alle 22, dirigendosi rapidamente verso
casa attraverso il giardino della piazza nel mezzo del quale troneggia il
monumento. Una coppietta sentì verso le 22.10 qualche rumore tra i cespugli, ma
pensò trattarsi di un’altra coppia e non vi fece caso. Il poliziotto di
sentinella non vide né udì alcunché, eppure il cadavere venne ritrovato a meno
di dieci metri di distanza dal suo posto di guardia. Era un mistero come il
delitto potesse essere stato commesso. E per tutta Vienna quella mattina
trascorsero l’orrore e il terrore.
Vicino al cadavere furono rilevate impronte fresche di
una scarpa con suola di gomma, chiaramente impresse nella terra bagnata di
pioggia, tanto da poterne decifrare una scritta. La guardia Bertl fu quella che
diede un indirizzo preciso alle indagini: “Ecco, è quel tipo laggiù” disse al
commissario, dopo aver raccontato del giovanotto dall’aria nervosa e stralunata
che sin dall’alba si era aggirato nei paraggi e stava ancora lì, frammischiato
alla folla.
Il giovanotto fu fatto salire su una camionetta ferma davanti
all’ambasciata di Francia per essere interrogato e fu portato via in tutta
fretta perché la folla esasperata aveva circondato l’automezzo e minacciava il linciaggio,
gridando: “A morte l’assassino! Impiccatelo!”. A Vienna non era mai successo
nulla del genere.
Al commissariato il giovanotto risultò essere una vecchia
conoscenza della polizia, Johann Gassner, di trent’anni, operaio avventizio
disoccupato, condannato sei volte per furto e reati contro la morale. “Volevo
rubare una bicicletta”, confessò, “Anzi, per essere più libero nei movimenti ho
lasciato la mia borsa appesa ad un cespuglio. È ancora là. Se fossi io l’assassino,
non sarei certo stato così sciocco da rimanere sul posto sotto gli occhi di un
poliziotto. Sono un avanzo di galera, sono un cane, ma non ho nulla a che fare col
delitto”.
Effettivamente non risultava nulla di positivo contro
Gassner, i suoi abiti e le sue mani non erano nemmeno sporchi di terra, e la
polizia lo rilasciò, facendolo tuttavia pedinare.
Ventiquattro ore più tardi, però, Gassner fu
riacciuffato. L’impronta delle sue scarpe corrispondeva infatti perfettamente a
quelle rilevate vicino al cadavere e anche la scritta sulla suola di gomma era
la stessa: in più non aveva un alibi.
La sera prima lo avevano visto mendicare un tozzo di pane
e un altro accattone, commosso per la sua fame, aveva diviso con lui la sua
magra cena. Alle due di notte, invece, Gassner era entrato in una birreria e
aveva mangiato gulasch e bevuto birra per complessivi 13 scellini, la somma
precisa che Ilona aveva in tasca. Dove aveva trovato quei quattrini?
Mendicando, disse.
In tasca, poi, Gassner aveva una scatola di sigarette vuota
sul cui fondo aveva scritto: “Visto l’assassino il 15/4/58 tra le ore 0,45 e le
ore 1,15”, vi era anche uno schizzo con la pianta del luogo del delitto, quindi
un tracciato che, attraverso tre vie del centro, conduceva ad un sudicio locale
del Naschmarkt, il mercato centrale che è ritrovo dei nottambuli e degli
sbandati. Lungo questo percorso furono perquisite fogne e cantine e vennero
alla luce un guanto e le calze dell’indossatrice assassinata: nel locale
indicato dallo schizzo fu ritrovato un orecchino di Ilona.
Quando gli contestarono questi fatti Gassner non si
scompose e spiegò che aveva voluto collaborare con la polizia: la polizia
stessa non sapeva che pensare di questo strano indiziato, contro il quale
giocavano molti dubbi e perplessità.
Questi si rivelarono una settimana più tardi quando il
giovane fu incriminato ufficialmente, mentre nel contempo venivano offerti 10.000
scellini, pari a 250.000 lire, a chi portasse alla cattura dell’assassino di
Ilona Faber. Un controsenso, che in un certo qual modo si è ripetuto in questi
giorni, a 14 mesi di distanza, appena iniziato il processo contro l’imputato.
Gassner si era appena seduto nell’aula della Corte d’Assise,
impassibile e indifferente come sempre, monotono nel suo strano modo di
proclamarsi innocente: “Sono un cane bastardo, ma non un assassino” e ascoltava
la lettura delle ventisei pagine del capo d’accusa, quando la polizia di Vienna
arrestava due giovanotti sospetti di avere ucciso Ilona Faber. La tragedia rischiava
di finire in commedia e Vienna non sapeva se adirarsi o ridere, e Gassner, che
è un disgraziato con poca voglia di lavorare e pochi scrupoli, ma non è uno
stupido, capì che qualcosa forse giocava a suo favore.
I due sospettati rimasero in prigione tre giorni, mentre
si svolgeva il processo, ma poi vennero liberati perché poterono presentare un
alibi. I colpevolisti tirarono un sospiro di sollievo, gli innocentisti, tra
cui molti giornali, non riuscirono a nascondere il loro disappunto. Ma la
tragica farsa non era finita. Nei giorni seguenti, con una macabra messinscena,
la Corte si è recata due volte sul luogo del delitto, una volta di notte per la
ricostruzione del crimine, un’altra di giorno per rivivere la scena della
scoperta del cadavere di Ilona, raffigurato da un manichino.
I poliziotti che erano stati di guardia quella notte sono
tornati al loro posto di allora. Il manichino è stato portato fuori dal cinema,
un commissario lo ha “aggredito” e sepolto. Il poliziotto di guardia stavolta
ha sentito qualcosa, ma ha detto che il rumore dell’aggressione era quello
solito delle coppiette e dei molti nottambuli che hanno eletto il monumento al
soldato sovietico come luogo di decenza.
In sostanza nulla di nuovo è venuto fuori e il processo è
proseguito sul binario degli indizi: contro Gassner non è stata trovata finora
nessuna vera prova. È per questo che si può prevedere che Vienna e l’Austria
continueranno ad essere divise in due e che il mistero della bella indossatrice
rimarrà tale per sempre.
Articolo di Tito Sansa da "Oggi" n. 27 del 2 luglio 1959
Articolo di Tito Sansa da "Oggi" n. 27 del 2 luglio 1959
Gassner, in seguito, fu assolto per insufficienza di
prove. Quattro anni dopo il delitto una scarpa della ragazza fu trovata dalla
polizia in una casa abbandonata dove avvenivano le ricerche di un uomo
scomparso, che forse era il vero assassino. Nel 2002, infine, una donna
viennese disse che suo marito Eduard S. le aveva confessato di avere ucciso lui
Ilona Faber, ma dato che l’uomo ormai era morto il delitto dell’indossatrice
rimane tuttora impunito.